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Marcos

Il sogno zapatista

 


«C'E' SPAZIO PER MOLTI MONDI NEL MONDO CHE VOGLIAMO».

Colloqui con il subcomandante Marcos, il maggiore Moisés e il comandante Tacho dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale, Messico.
La preistoria (il nucleo iniziale marxista-leninista)
Ultimo addio a Che Guevara
L'incontro con le comunità indie
Marcos e i suoi
L'insurrezione
Dallo zapatismo armato allo zapatismo civile
Etica, comunità e democrazia
Lo zapatismo oggi: urgenza di una definizione
Quali cambiamenti?
Una Vandea progressista?
Populismo, nazione, marxismo
La caduta del muro di Berlino e Cuba, viste dal deserto della solitudine
La guerra dei simboli e dell'informazione
«Marcos deve sparire».

Avvertenza.
I colloqui con il subcomandante Marcos, con il maggiore Moisés e con il comandante Tacho sono avvenuti separatamente. Tuttavia, abbiamo deciso di riunirli in paragrafi tematici poiché i vari interventi offrono talora interpretazioni diverse.
Le note sono di Yvon Le Bot. Per altre notizie sul contesto storico- politico, il lettore potrà fare riferimento al saggio introduttivo.

Yvon le Bot (Y): Questo colloquio non è un'intervista, ma piuttosto una discussione, una conversazione...
Marcos (M): Una riflessione...
Y: Una riflessione su temi che devono essere scelti con cura... Per facilitare il dialogo, potremmo seguire una linea cronologica, parlando innanzitutto di come gli zapatisti diventano zapatisti, e in un secondo momento esaminando questioni come la nuova politica, il tipo di democrazia, l'identità, il movimento sociale, cose di questo genere. Se avremo tempo, per concludere potremo parlare delle prospettive.
Ma innanzitutto come si forma questo grande crogiolo, questo strano fenomeno che è lo zapatismo?

LA PREISTORIA (IL NUCLEO INIZIALE MARXISTA-LENINISTA)
- Tutto incomincia come un movimento di guerriglia universitario.
M: Quello che posso fare è una specie di riflessione dall'interno su che cosa è stata la nostra storia fino al 1994. Certo sarà un'analisi molto indulgente, molto tollerante, non si è mai eccessivamente critici quando si parla di se stessi.
Lo zapatismo del 1994 nasce dalla confluenza di tre componenti essenziali: un gruppo politico-militare, un gruppo di indios politicizzati e molto esperti e il movimento indio della Selva.
Il primo elemento in pratica è un'organizzazione politico-militare marxista-leninista, molto simile nelle scelte operative ai movimenti guerriglieri di liberazione nazionale dell'America del Sud e dell'America centrale. Secondo questa organizzazione, non è più possibile contrapporsi al potere costituito con mezzi pacifici: bisogna affrontarlo con una guerra popolare, batterlo, e creare poi un governo che lavori all'edificazione del socialismo, alla dittatura del proletariato, al comunismo e così via. In fondo, il suo scopo è un tipo di guerriglia analogo a quello tipico del "foco", il nucleo guerrigliero: creare la coscienza tramite la propaganda armata, e indurre altri gruppi a scegliere la lotta armata, per giungere poi a una guerra popolare. All'inizio era un'organizzazione clandestina prevalentemente urbana, composta soprattutto da persone della classe media. In pratica non aveva operai fra i suoi membri, i contadini erano pochissimi e non ne faceva parte nemmeno un indio.
La maggioranza degli appartenenti proveniva dalla classe media: professori, universitari, ingegneri, medici, era un gruppo molto ridotto, una dozzina di persone, forse due. La loro analisi politica prevedeva una radicalizzazione e una polarizzazione della società messicana, lo Stato da una parte e il popolo dall'altra, e riteneva che tale polarizzazione avrebbe provocato una guerra civile. Sul piano militare, questo fatto li ha indotti a contemplare una nuova possibilità: prepararsi, non per iniziare una guerra, ma per poter intervenire allo scoppio delle ostilità, uscire allo scoperto nel momento opportuno. L'idea è che quando giungerà l'ora il popolo avrà bisogno di un gruppo armato per difendersi, per combattere, per resistere all'azione dell'esercito.

- La rivoluzione mondiale... salvo che in Messico.
In tale ottica non c'è un termine preciso per la guerra, e questo ci distingue dalla concezione dei movimenti di guerriglia latinoamericani: invece di preparare un'insurrezione per una certa data, ci organizziamo per un giorno non definito, quando la lotta armata diventerà necessaria.
Nella sua analisi politica sul regime messicano il gruppo prende le distanze dalle posizioni del blocco socialista: quest'ultimo ha sempre mantenuto nei confronti del Messico una linea vaga, indefinita, che favoriva la politica estera ufficiale. Tutte le organizzazioni armate dell'America latina con cui siamo entrati in contatto prima del 1994 ci ripetevano lo stesso ragionamento: la rivoluzione è possibile ovunque, salvo che in Messico. Il Messico aveva il compito di essere solidale con gli altri movimenti di liberazione, ma nel nostro paese non si doveva fare niente. Il risultato (chiedo scusa per la digressione) è che nessuna organizzazione aiuta lo zapatismo, lo zapatismo armato, né per gli armamenti, né per i finanziamenti, né per l'addestramento. Non solo il progetto sembrava una follia, ma era in contrasto con tutta la linea politica di tali organizzazioni: sostenere un movimento armato qui, voleva dire distruggere la loro base strategica. Impossibile. Nessuno ci ha aiutati. Anzi, abbiamo ricevuto critiche severe.
Parlo di cose che mi hanno raccontato, non facevo ancora parte dell'organizzazione. Ma ho visto accadere lo stesso in seguito. Soprattutto nei contatti con le rivoluzioni centroamericane. In Messico non si poteva fare niente perché era la sede delle loro retrovie, e questo rischiava di influenzare il resto dei movimenti di liberazione dell'America latina. Il contesto della politica estera messicana e della politica estera del blocco socialista, soprattutto dell'Unione Sovietica e di Cuba, che erano gli esempi più vicini, indusse l'organizzazione a elaborare una concezione teorica e politica molto indipendente, molto particolare, in cui si dava rilievo soprattutto alla situazione nazionale e alla storia del Messico. Si tratta di un marxismo-leninismo più pratico che filosofico, più preoccupato dell'analisi della situazione concreta che del problema teorico dello Stato o della lotta armata. Il gruppo politico-militare incomincia ad analizzare la situazione dello Stato messicano, delle classi sociali in Messico e la storia del paese...

Y: Le insurrezioni della Rivoluzione [1], Pancho Villa, Zapata...

M: Eccetera eccetera. C'erano molti universitari, fra cui professori che conoscevano bene la storia del Messico, incredibilmente bene, persone con una cultura enciclopedica... Molti di loro, per esempio, avrebbero potuto essere ottimi ricercatori in qualsiasi università del mondo, e invece vivevano in clandestinità... Conoscevano a menadito tutta la storia del paese dalla Conquista, anche prima della formazione del Messico, l'epoca coloniale, la guerra d'Indipendenza. Conoscevano bene soprattutto la storia militare del popolo messicano, le strategie militari di Morelos, di Hidalgo [2], del conflitto contro gli Stati Uniti nel 1847, della resistenza contro l'intervento francese, della Rivoluzione e delle guerre durante il periodo rivoluzionario quando gli Stati Uniti tentarono di occupare il paese, e anche i movimenti armati che sono comparsi in Messico dopo l'attacco della caserma Madera nel 1965 [3].
Insomma, quest'organizzazione elabora la sua teoria politica, la sua teoria della rivoluzione, facendo riferimento più al Messico, alla situazione messicana, che alla dottrina del comunismo internazionale. Eravamo soli sul piano materiale, e ancora più soli sul piano teorico. Perciò abbiamo dovuto elaborare una teoria della rivoluzione in Messico che evidentemente, come il marxismo, lasciava molti vuoti, i vuoti che possono avere persone di quell'origine. E uno dei più gravi era la questione india.
In ogni caso, l'organizzazione pensa che un giorno o l'altro scoppierà la guerra, per una ragione o per l'altra, senza essere provocata da nessuno, e che sia necessario prepararsi per quel giorno.

Y: Tuttavia riprendete dei simboli, un linguaggio, delle sigle che provengono dalla tradizione rivoluzionaria di liberazione nazionale castro-guevarista. Si ritrovano anche nella vostra divisa, nella vostra bandiera, no?

M: E' l'eredità di cui ti parlo, la prossimità dell'organizzazione con le organizzazioni politico-militari dell'America latina. Pensavamo che il socialismo in Messico passasse necessariamente per la liberazione nazionale. A grandi linee, vedevamo la situazione come quella di un paese neocoloniale, dominato dall'impero nordamericano; e per poter transitare alla democrazia e al socialismo ci voleva una rivoluzione nazionale. Per questo i fondatori, le persone che hanno organizzato il gruppo, hanno scelto il nome di Esercito zapatista di liberazione nazionale, E.Z.L.N. E la contraddizione fra gli apporti esterni e la storia nazionale si risolve ricorrendo ai nomi di Hidalgo, Morelos, Guerrero, Zapata. Paradossalmente, il motto ereditato dall'E.Z.L.N. non è «Patria o morte, vinceremo», e nemmeno «Proletari di tutto il mondo unitevi», ma una frase di Vicente Guerrero, «Vivere per la Patria. Morire per la Libertà», che in seguito è diventata il grido di guerra dell'E.Z.L.N. Il simbolo della stella è più vicino alla concezione india e alla concezione umanista, l'uomo e le sue cinque parti, la testa, le braccia, le gambe, questo tipo di concezione delle storie del mondo... Il rosso e il nero sì, sono il retaggio dei movimenti rivoluzionari. Ma la stella è più vicina al contatto che avverrà in seguito. Per ora ti sto parlando di prima che l'organizzazione incontrasse il movimento indigeno.
Dunque, l'organizzazione stabilisce una strategia: raccogliere le forze in silenzio, senza azioni pubbliche. Decide anche che la sua crescita militare deve essere proporzionale alla crescita politica. Intendo dire che rinuncia a creare un apparato logistico-militare fittizio, con molte armi, molto equipaggiamento e nessuno che se ne serva, sceglie di ampliarsi soltanto in proporzione alle persone che riesce a mettere insieme. Le sue risorse economiche proverranno esclusivamente da queste persone. Niente sequestri, niente rapine in banca, niente «espropri», come si dice, no, nessun atto di delinquenza. Anche in questo si distingue dagli altri movimenti di guerriglia.
Maurice Najman (N): Sembrano aneddoti, ma a posteriori rivelano una rottura con certo avanguardismo tradizionale.

M: E spiegano anche le difficoltà incontrate dai servizi di sicurezza governativi per individuarla. Ma significa soprattutto che nella sua struttura interna è un'organizzazione politicamente sana. Molto modesta, piccola da ogni punto di vista, un'organizzazione povera, e tuttavia molto realista riguardo alle proprie possibilità, dal momento che non ha praticamente soldi; e non solo perché decide di non ricorrere a mezzi «criminali», come direbbe il governo, per procurarsene, ma anche perché non riceve alcun sostegno dall'esterno.

- Il rifiuto di un atto di fondazione cruento.

Y: Molti gruppi di guerriglieri rivoluzionari latinoamericani hanno avuto un atto di fondazione cruento, l'assassinio di uno dei loro. Senza parlare dei sistemi di esclusione molto duri contro i propri membri. Ne parlo perché, come lei sa, c'è una polemica sul «caso Glockner» [4], e a quanto ho capito gli zapatisti, gli ex appartenenti alle Forze di liberazione nazionale, ci tengono molto ad affermare che per quel che li riguarda ciò non corrisponde a realtà. E' una delle differenze di cui parlava prima rispetto ad altri gruppi che hanno questo genere di sistemi?

M: In generale, le organizzazioni politico-militari considerano nemici tutti quelli che non stanno con loro, compresi i membri di altre organizzazioni: è l'idea dell'organizzazione d'avanguardia unica e vera. Non se ne può uscire senza diventare riformisti, traditori. Nel nostro caso è stato diverso.
L'organizzazione originaria (che in seguito si è unita ai resti di molti altri gruppi dispersi e ha costituito l'E.Z.L.N.), aveva già l'idea di vari livelli di partecipazione e di diverse forme di lotta. Fra «dentro» e «fuori» esistevano numerose possibilità intermedie. Se qualcuno non riusciva a sopportare la clandestinità e voleva andarsene, non per questo diventava un disertore, un potenziale traditore; cambiava semplicemente livello, e poteva cambiarlo ancora prima di lasciare definitivamente il movimento.
Sul «caso Glockner» bisognerebbe informarsi dai membri delle Forze di liberazione nazionale dell'epoca, io sono arrivato molto tempo dopo. Ma ciò che mi hanno raccontato corrisponde a quanto ho vissuto io stesso; nel suo genere si trattava di un'organizzazione poco militarizzata, molto flessibile. Credo che ciò dipendesse dal suo orientamento politico: dato che l'azione militare era prevista a lunghissimo termine, si attribuiva maggiore importanza all'aspetto politico. Le decisioni avevano forma militare, è ovvio, ma la struttura interna era davvero poco militarista.
Tutti questi aspetti conferiscono un carattere particolare all'organizzazione: essa si espande lentamente, non ha mai fatto ricorso ad azioni armate per finanziarsi o per epurarsi, e non si propone seriamente la creazione di un "foco" d'avanguardia. Nel corso degli anni, il gruppo entra in contatto con altre realtà e cambia. Comunque, avendo queste caratteristiche, è un gruppo politicamente sano, militarmente sano e molto modesto. Il motivo per cui è riuscito a sopravvivere alle repressioni subite dagli altri gruppi armati attivi all'epoca, è il fatto di essere stato, diciamo, sotterraneo.
Ma non conosco bene questo aspetto della storia, io sono arrivato parecchio tempo dopo, nel momento in cui cominciava la trasformazione; ti riferisco quello che mi hanno raccontato.

ULTIMO ADDIO A CHE GUEVARA
- Gli indios del gruppo fondatore.
Poi viene la fase che conosco io, un movimento indigeno con due componenti: da una parte il movimento indio della Selva, molto isolato, e dall'altra un gruppo che si potrebbe definire d'élite, gli intellettuali organici. Si tratta di indios politicizzati con grande capacità organizzativa e una vasta esperienza di lotta politica, che in pratica avevano fatto parte di tutte le organizzazioni politiche di sinistra presenti in Chiapas all'epoca, e che avevano conosciuto tutte le prigioni del paese. Si rendono conto che per i loro problemi relativi alla terra, alle condizioni di vita e ai diritti politici l'unica soluzione è la violenza.

Y: Sono pochi gli indios che militano in questa formazione?

M: Sì, solo una decina, è una specie di élite che non ha niente a che vedere con la logica dell'indio isolato, culturalmente emarginato, inibito, "chingado" [5]. Persone con una cultura politica e una coscienza nazionale sorprendenti, sorprendenti almeno per chi non conosce questo tipo di mondo. Insomma, per una ragione o per l'altra il gruppo militare e l'élite india, l'élite politica, entrano in contatto, e concordano sulla necessità della lotta armata e sulla necessità di cominciare a costituire un esercito. Non si tratta già più di un gruppo di guerriglieri, è un esercito regolare.

- Il progetto di un esercito zapatista. La Pesadilla.
Non esiste ancora nulla di concreto, ma si incomincia a pensare a quello che sarà un esercito regolare, alla sua struttura di comando, alla sua articolazione, il territorio, l'organico; e gli indios propongono di trovare un luogo in cui incominciare senza rischiare di essere scoperti. E' un'ipotesi conforme all'idea politico-militare di partenza: prepararsi senza che nessuno lo sappia. E a quel punto dicono: «Perché non la Selva Lacandona? Ci sono dei posti in cui non va mai nessuno, né il governo né le "guardie bianche" [6], né i proprietari terrieri, non ci sono strade, non ci va nessuno, nemmeno gli indios, è troppo isolato. Non ci entra nessuno, nemmeno Dio! Lì sarebbe possibile, se siete davvero decisi, ma è una zona molto difficile, nemmeno noi riusciremmo a viverci».
Insomma, ci voleva gente molto risoluta, molto preparata o molto convinta per andare a stabilirsi in un posto del genere. Il gruppo fonda l'Esercito zapatista di liberazione nazionale nel novembre del 1983, quando decide di stabilirsi nella Selva Lacandona, in un campo chiamato paradossalmente «La Pesadilla», l'incubo. Il nome degli accampamenti si ispirava a qualcosa che vi era accaduto. Credo che in quel caso avessero mandato qualcuno in avanscoperta; lui era tornato dicendo «L'ho trovato», e gli avevano chiesto com'era. «E' molto bello, molto piacevole, ci sono alberi, un fiume, e c'è da mangiare, si può cacciare» (vivevamo di caccia). «E' un sogno» aveva detto. Quando siamo arrivati, l'abbiamo visto e abbiamo detto: «Un sogno questo? E' un incubo!». E gli è rimasto il nome.

Y: Ma poi siete passati dall'«incubo» a La Realidad!

M: Non dal sogno alla realtà, dall'incubo alla realtà! [7]

N: Come è nata l'idea di un esercito regolare?

M: Si trattava soprattutto di una fede, di una speranza: quando siamo entrati in contatto con il gruppo di indios molto politicizzati, quello che dicevano della loro specifica realtà ci ha fatto supporre che il nostro progetto sarebbe stato accettato in massa, e quindi che, invece di crescere molto lentamente come pensavamo, saremmo cresciuti in fretta e in misura considerevole. Non esisteva niente di concreto, solo la folle convinzione che le cose sarebbero andate così. In realtà è successo soltanto molti anni dopo.

- Nicaragua, El Salvador, Guatemala... Chiapas.

Y: All'epoca siete stati influenzati dall'esperienza guatemalteca?

M: No, niente affatto. L'U.R.N.G. [8] è l'organizzazione che criticava qualsiasi progetto di lotta armata in Messico con più durezza, con maggior diffidenza e ostilità di tutte le altre.

Y: Ripeto la domanda in un altro modo. Voi conoscete la storia guatemalteca: vi è servito, se non come modello, almeno come esempio?

M: No. Noi facevamo riferimento al movimento di guerriglia del Che, non a quello centroamericano. Sul piano militare, siccome pensavamo a un esercito regolare, cercavamo l'esempio di grandi eserciti, di grandi azioni. Anche l'U.R.N.G., come i sandinisti o i salvadoregni, ha fatto questo genere di azioni, ma non ne sapevamo molto, avevamo soprattutto i documenti, dove venivano spiegate le tattiche antinsurrezionali dell'esercito guatemalteco e degli eserciti nordamericani, e il loro modo di reagire, ma sempre in una logica di guerriglia.
Dal momento che non intendevamo essere un gruppo di guerriglieri, prendevamo gli esempi militari come fonte d'informazione ma non come modello. Del resto, in termini politici, non c'era niente in comune; questa generazione di «zapatisti» teneva già enormemente alla propria messicanità, alla propria originalità, a mantenere una certa distanza da tutti gli altri movimenti. I gruppi guerriglieri guatemaltechi, da parte loro, erano molto prudenti nei contatti con il Messico, molto riservati. Io non li ho mai visti, ma a quanto pare ci sono stati alcuni incontri durante i quali il nostro progetto ha ricevuto aspre critiche. Loro si limitavano a prenderci in giro, perché combattevano, mentre noi dei guerriglieri avevamo soltanto il nome e le aspirazioni. Non avevamo mai combattuto, non avevamo armi... Non eravamo nemmeno in montagna. Com'è ovvio, ci trattavano dall'alto in basso, con disprezzo.

Y: Nella formazione dell'E.Z.L.N. c'è qualche esperienza relativa al Salvador, o al Nicaragua?

M: Sì, ma successiva. Quando si pensa a un esercito popolare, si fa necessariamente riferimento a una massa di combattenti, mentre i guerriglieri sono squadre di dieci, dodici, venti uomini, fino a quaranta; il Che diceva che ottanta sono il massimo. Noi pensavamo a unità di centinaia di combattenti, avevamo bisogno di altri punti di riferimento. Guardavamo al Fronte sandinista alla fine dell'insurrezione del '79 [9], quando avevano organizzato i grandi attacchi alle città, pensavamo alle brillanti azioni militari del F.M.L.N. [10] prima della firma degli accordi di pace. Ecco che cosa ammiravamo. Ammiravamo enormemente l'offensiva a San Salvador, credo che sia accaduto nell'89... [11].

Y: Novembre '89.

M: Sì, stavamo festeggiando il nostro anniversario in un villaggio con delle manovre militari, e ascoltavamo le notizie dell'offensiva su Radio Venceremos. Riuscivamo a prendere anche Radio Voz Popular dell'U.R.N.G., ma era difficile, anche se siamo più vicini al Guatemala.

Y: Dicono che lei sia stato in Nicaragua; è vero?

M: No. A noi sarebbe piaciuto, ma nessuno ci voleva: nessuno desiderava sostenere una pazzia simile. Non poteva funzionare, e se mai avesse funzionato sarebbe stato peggio. Non siamo mai stati addestrati né a Cuba né in Nicaragua, e nemmeno in Salvador, in Guatemala, a Mosca o in Corea. Eravamo dei veri pivelli.

Y: E non avete neanche partecipato alla campagna sandinista di alfabetizzazione del 1980?

M: Può darsi che alcuni nostri compagni abbiano partecipato ad attività di solidarietà, sì; forse il compagno che si è fatto uccidere all'epoca ci era stato. Invece l'affermazione che siamo stati addestrati a Cuba o in Nicaragua è falsa.

- Il deserto della solitudine.
Ma per tornare all'83, alla nascita dell'E.Z.L.N., l'altro gruppo continua a considerare gli indios un settore della popolazione senza alcun tratto specifico. Eppure esisteva l'ORPA [12] in Guatemala, costituita per la maggioranza da indios, e anche altre organizzazioni; questo avrebbe dovuto farci riflettere. Invece no, ci pareva normale: la maggior parte della popolazione è india, è logico che ci siano più indios. Non pensavamo a una specificità india, era il popolo sfruttato dei contadini, andavano trattati come contadini.
Insomma, ci siamo stabiliti nella foresta, alla Pesadilla, che era un incubo nel vero senso della parola, senza avere alcun sostegno da parte dei villaggi, solo con il piccolo gruppo di indios politicizzati, dieci appena, e senza la minima possibilità di appoggio dalle comunità. La nostra linea di approvvigionamento era clandestina e si estendeva, in quel periodo, dalle città fino agli accampamenti, comunità incluse. Passavamo accanto ai villaggi di notte, di nascosto, e la gente ci prendeva per ladri di vacche, banditi o stregoni. In quel periodo, molti di coloro che adesso sono compagni, o addirittura comandanti del Comitato [13], ci davano la caccia come a dei malfattori.
Quei primi anni, dall'83 all'85, sono anni di grande solitudine. Dovevamo imparare a vivere in montagna, a combattere e ad aspettare il giorno in cui la rivoluzione sarebbe scoppiata in Messico. Già allora ritenevamo che la rivoluzione non ci appartenesse. L'avrebbero fatta altri, e il nostro compito sarebbe stato di aiutarli. In quegli anni di montagna non avevamo né aiuto dall'esterno, né consiglieri, e c'era soltanto un modo per acquisire una formazione militare: studiare i libri sulle esperienze di guerriglia latinoamericane, ma soprattutto i manuali di guerriglia e antiguerriglia dell'esercito nordamericano. Noi siamo autodidatti. Abbiamo conosciuto la guerriglia nei manuali dei "rangers", dei "marines", dei "seals" [14], di tutti i tipi di commandos dell'esercito nordamericano e dell'OTAN. Per quanto riguarda l'esercito regolare, ci siamo serviti di manuali di storia militare sull'epoca della guerra di Indipendenza, soprattutto su Morelos, e sulla Rivoluzione, la Divisiòn del Norte di Villa e l'Ejército Libertador del Sur di Zapata. Da essi deriva la strutturazione dell'esercito zapatista in squadre, plotoni, compagnie, battaglioni, reggimenti, brigate, divisioni, corpi d'armata, e anche la struttura del comando. E' uno schema molto simile agli eserciti di Villa o Zapata...

Y: Un po' astratto, no?

M: Nel gennaio del 1985 non eravamo niente, eravamo in otto, ma nel nostro organigramma c'erano corpi d'armata di quindici o ventimila uomini...
Comunque, la nostra preoccupazione principale, era imparare a vivere in montagna. Qui è l'ambiente a respingerti, e ritenevamo che sarebbe stato lo stesso per i soldati. Riuscire a integrarci in montagna, questa sarebbe stata la nostra arma più potente. Perciò dedicavamo la maggior parte del tempo a sopravvivere, e siamo riusciti a resistere per lunghi periodi senza alcun aiuto dall'esterno. Eravamo costretti a farlo, perché talvolta bisognava attendere mesi per i rifornimenti che dovevano arrivare dalla città. Vivevamo di frutti selvatici, di caccia, abbiamo aperto una rete di sentieri che ci consentivano di spostarci da una montagna all'altra senza essere visti. E' un periodo di grande solitudine: nulla nella situazione mondiale o nazionale faceva pensare che valesse la pena di fare quel sacrificio e che avessimo qualche possibilità di vincere, anzi, al contrario, tutto sembrava dire che stavamo andando diritti verso il totale fallimento.

Y: Il deserto della solitudine...

M: Esattamente. La solitudine fisica, nel cuore della giungla, e anche la solitudine politica: ricevevamo notizie dal mondo esterno attraverso le radio a onde corte (La Voz de América, Radio France Internationale, la B.B.C., Radio Exterior de Espana, Radio Habana, La Voz de los Andes), che descrivevano un mondo in cui tutto stava crollando. Per le notizie dall'interno, sapevamo soltanto quello che filtrava dai programmi stranieri, cioè quasi nulla. Ecco perché non abbiamo avuto alcun sentore del cardenismo e degli avvenimenti storici del Messico degli anni '85-88. Non abbiamo vissuto il fenomeno di insurrezione civile del cardenismo [15], ci sembrava normale, banale, solo anni dopo abbiamo saputo quali dimensioni aveva raggiunto e che impatto aveva avuto sulle coscienze.

Y: E non vi siete accorti nemmeno che stava emergendo la società civile messicana?

M: No. Abbiamo saputo del terremoto del Messico dalle radio straniere, il terremoto del 1985, che a quanto pare è la prima grande manifestazione della società civile organizzata nel paese. Uno dei nostri è sceso dalla montagna e si è recato in città, per vedere se tutto andava bene, se i compagni erano vivi o morti, se la loro casa era crollata, ma nient'altro. Solo molto tempo dopo ci siamo resi conto di quanto era veramente accaduto nel 1985.

L'INCONTRO CON LE COMUNITA' INDIE
- Primi contatti

Eravamo un movimento di guerriglia completamente isolato, l'esempio estremo della solitudine. Ci trovavamo nell'isola di Robinson Crusoe, ma non c'era nessuno cui lanciare bottiglie, nessun Venerdì, non c'era niente. I guerriglieri erano soli. Anche per questo non si sono resi conto di che cosa stava incominciando a maturare nella zona: l'aggravarsi della repressione, della miseria, le cose per cui il movimento indio, la massa degli indigeni che oggi vediamo, poteva accettare di entrare in contatto con un movimento di guerriglia.
Bisogna sottolineare un fatto: quando finalmente si stabilisce un contatto fra le comunità e il gruppo armato (il gruppo d'origine urbana, il movimento di guerriglia universitario, come lo chiami tu), i guerriglieri non vengono più dalla città, vengono dalla montagna, ci sono già vissuti tre, quattro, cinque anni. Per gli indios è molto importante perché la montagna è un territorio dove neppure loro osano addentrarsi, salvo che per la caccia, e dove si fermano il meno possibile. Nessuno resta a dormirci, per paura del pericolo, ma soprattutto a causa di tutto quello che la notte e la montagna rappresentano nella tradizione culturale india.
Insomma, all'epoca i due gruppi, l'organizzazione politico-militare e l'élite politica india, sono un po' isolati. Quelli che definirei del gruppo di mediazione, gli indios politicizzati diventati in seguito il ponte fra l'esercito zapatista e le comunità, incominciano a parlare della lotta armata con certi capi villaggio indigeni che conoscono. Questo fatto coincide con un'ondata di violenza delle guardie bianche e l'intensificarsi della repressione, soprattutto nella Selva e nel Nord del Chiapas, perciò gli indios tendono spontaneamente all'autodifesa. Nel momento in cui viene proposta loro la lotta armata, dicono che, se è possibile addestrarli a combattere e aiutarli a ottenere delle armi, ci stanno, perché a loro mancano proprio queste cose; è un interesse molto concreto, una questione di sopravvivenza immediata a consentire il primo contatto fra le comunità indie e il gruppo militare, l'impatto da cui nascerà poi lo zapatismo che noi conosciamo. Be', non lo zapatismo di adesso, perché ci sono altri ingredienti più recenti, ma quello che sarebbe sorto nel gennaio del 1994.

- Lo shock culturale.
Incominciamo allora a contattare le comunità indie, e si stabilisce una specie di accordo tacito di mutua assistenza, un patto di non aggressione fra il gruppo armato e i capi delle comunità. Non è più soltanto un gruppo politicizzato, sono già i capi dei villaggi. E' una specie di "do ut des": «Insegnateci a batterci e vi aiuteremo a ottenere delle provviste [era il nostro problema principale] e a trasportare le vostre cose». E' incominciata così: noi li addestravamo e fornivamo loro un'istruzione militare; loro, in cambio, ci aiutavano a trasportare le provviste, ci vendevano granturco, fagioli, riso, zucchero, mastelli, quello di cui avevamo bisogno. Davamo loro dei soldi, e facevano gli acquisti per noi. Allo stesso tempo è l'inizio di uno scambio politico e culturale; lo shock, per noi, è che abbiamo dovuto imparare a parlare la loro lingua.
Gli indios del famoso gruppo di mediazione hanno incominciato a parlare con le famiglie, evidentemente indie, tzeltal, tzotzil, chol, tojolabal. Le famiglie decidono di mandare in montagna i giovani, i loro figli, perché diventino guerriglieri: il gruppo politico-militare quindi ha già una componente india; ben presto, i "ladinos", i meticci, diventano la minoranza. Nel momento in cui avviene il contatto con le comunità, l'elemento indigeno costituisce già la maggioranza nell'organizzazione politico-militare, anche se la struttura di comando è ancora immutata. Questo incomincia a influire sulla sua vita interna, perché l'impatto culturale deve essere assorbito: bisogna imparare il dialetto
[16], e più che il dialetto, imparare a maneggiare il linguaggio, i simboli, il significato dei simboli nella comunicazione eccetera.
Quindi, quando si stabilisce il contatto fra l'organizzazione e le comunità, nel gruppo di guerriglia c'è già un elemento indio che ha il compito della traduzione. Sono indios con una certa cultura politica, una coscienza nazionale, la prospettiva a lungo termine di non essere, o non essere soltanto, indios. Hanno assimilato il bagaglio politico e culturale accumulato dall'organizzazione politico-militare e lo hanno digerito, producendo qualcosa di nuovo. E' proprio questo a permettere l'incontro con le comunità, a permettere la trasformazione di questo patto di coesistenza, di "do ut des", in un rapporto politico. Sono i guerriglieri indigeni a trasformare le relazioni fra il movimento di guerriglia e i villaggi in un rapporto politico e a costruire un rapporto organico. Tutto questo accade verso il 1985...

N: In che cosa consiste all'epoca questo contenuto nuovo?

M: E' una specie di traduzione, resa più ricca dalla prospettiva della transizione politica. L'idea di un mondo più giusto, più o meno tutto quello cui aspira il socialismo ma ridigerito, arricchito di elementi umanitari, etici, morali, più che propriamente indigeni. La rivoluzione diventa un problema essenzialmente morale. Etico. Più che un problema di ripartizione della ricchezza o di espropriazione dei mezzi di produzione, la rivoluzione rappresenta la possibilità di uno spazio di dignità per l'essere umano. La dignità incomincia a diventare un concetto molto importante, e l'idea non viene da noi, dal gruppo urbano, viene dalle comunità. La rivoluzione diventa la garanzia che la dignità esiste, e che deve essere rispettata.

- La luce e le tenebre.
L'E.Z.L.N. non è consapevole di questa traduzione, questa gestazione feconda. Non l'avevamo previsto e non lo capivamo, pensavamo che l'E.Z.L.N. si sviluppasse perché la luce era venuta a illuminare l'oscurità... In realtà, pensandoci a posteriori, è successo proprio questo...

Y: Quando siete entrati in contatto con le comunità vi rendevate conto che avevano anche loro una storia, un'evoluzione propria, un modo di cambiare, di prendere coscienza; che, al di là della lotta agraria, della lotta economica, avevano un proprio movimento?

M: No, no, all'inizio no. All'inizio, nella nostra prospettiva di guerriglieri, si trattava di gente sfruttata che andava organizzata, cui bisognava mostrare la via. Mettiti al nostro posto: eravamo la luce del mondo!

Y: E loro erano nelle tenebre?

M: Ciechi a cui bisognava aprire gli occhi! No, le cose sono incominciate a cambiare quando è comparso l'altro traduttore, il loro, il vecchio Antonio. Quest'uomo anziano, che può sembrare un personaggio letterario ma è esistito realmente, diventa il legame con le comunità, il loro mondo, la sua componente più india. Attraverso di lui, e attraverso i capi politici del gruppo di mediazione e i capi dei villaggi indigeni, l'esercito zapatista incomincia a comprenderne meglio la coscienza, la tradizione storica di lotta politica. Ci rivolgevamo a un movimento indio che non stava aspettando il salvatore ma, anzi, era portatore di una grande tradizione di lotta, una grande esperienza; un movimento molto solido, anche molto intelligente, cui noi servivamo semplicemente, diciamo, da braccio armato.

- La prima «sconfitta» dell'E.Z.L.N.
All'epoca di cui parlo, fra l'85 e l'87, incominciavamo appena a imparare. Pensavamo che parlare a un proletario, a un contadino, a uno studente fosse la stessa cosa, che tutti avrebbero compreso il linguaggio della rivoluzione. E ci siamo trovati davanti un mondo nuovo per il quale non avevamo risposta.

Y: Immagino che nemmeno gli indios politicizzati avessero la risposta.

M: No, nemmeno loro avevano acquisito una distanza sufficiente per questo. L'organizzazione politico-militare, che resta ancora nella tradizione marxista-leninista, diciamo, scopre d'un tratto l'esistenza di una realtà che non riesce a spiegare, di cui non può rendere conto, e insieme a cui deve lavorare.
Il merito dell'organizzazione è di aver ammesso che non aveva risposta e che doveva imparare. E' la prima sconfitta dell'E.Z.L.N., la più importante, quella che lo segnerà da quel momento in poi: l'Esercito zapatista, di fronte a una cosa completamente nuova, riconosce di non avere soluzione al problema, di dover aspettare e di dover imparare. Scende dal pulpito, cessa di credere di avere una risposta a tutto, e ammette che di fronte a questa nuova realtà può offrire soltanto una serie di domande.
L'E.Z.L.N., in cui restano solo due o tre "ladinos", assume allora, consapevolmente o meno, il ruolo dell'allievo di fronte ai maestri. Il vecchio Antonio, i capi delle comunità e i guerriglieri indigeni diventano i maestri dell'organizzazione, che tuttavia mantiene il proprio carattere politico-militare: essa avrebbe conservato la sua natura di fondo anche se fosse rimasto soltanto un ladino.
E' l'inizio di un lungo processo di trasformazione dell'E.Z.L.N. da esercito di avanguardia rivoluzionaria in esercito delle comunità indie, cioè in una delle molte forme di lotta di un movimento indio di resistenza più ampio. All'epoca non la vedevamo così. Per noi, la lotta armata era la colonna vertebrale, il livello più alto, insomma, tutti gli slogan e i luoghi comuni che puoi immaginare. Invece, nel momento in cui l'E.Z.L.N. si adegua alle comunità diventa una delle varie forme di resistenza, subisce il contagio indio e si assoggetta alle comunità; i villaggi se ne appropriano e ne assumono addirittura la guida.
Secondo me, l'E.Z.L.N. è riuscito a sopravvivere e a crescere grazie al fatto di avere accettato questa sconfitta. Se non l'avesse accettata, si sarebbe isolato o sarebbe sparito, comunque non avrebbe mai dato origine all'Esercito zapatista nato il primo gennaio 1994, un esercito di migliaia di combattenti, male armati, certo, ma migliaia; non è facile mettere insieme migliaia di persone disposte a battersi fino alla morte. Ma un simile risultato non va ascritto all'E.Z.L.N., al suo progetto. Anzi, secondo me l'E.Z.L.N. nasce nel momento in cui accetta l'esistenza di una realtà nuova per cui non ha risposte, e ammette la necessità di assoggettarsi a tale realtà per poter sopravvivere al suo interno.

N: La «sconfitta» è stata accettata anche dall'altra componente dell'organizzazione politico-militare, quella che non era nel Chiapas, la componente urbana?

M: No, certo che no. Loro, semplicemente, non la vedevano. E' molto difficile, sai, se hai uno schema teorico che ti spiega tutta la società, arrivare nella società e scoprire che il tuo schema teorico non spiega niente. Quando si è dedicata tutta la vita a un progetto, è duro riconoscere che esso non funzionava sulle cose essenziali. Che non riusciva nemmeno a spiegare la realtà in cui era destinato a innestarsi. Era una faccenda molto seria, non erano contrari, ma non coglievano neanche il problema; dal loro punto di vista riguardava il movimento di guerriglia: «Tocca ai guerriglieri stabilire che cosa c'è da fare lassù, in montagna, il compito nostro è di organizzare gli operai, gli studenti». Su questo punto avevano ragione, anche il resto andava organizzato. Ma non hanno colto la violenza dell'impatto, almeno non come noi.

Y: Questo fatto però non ha necessariamente prodotto una divisione, almeno non subito, vero?

M: No, perché il contagio ha incominciato a raggiungere anche le città. In città la situazione era molto grave, nelle sezioni urbane il disincanto e la delusione erano enormi. La componente urbana dell'organizzazione non si ampliava. Poi, d'un tratto abbiamo incominciato a mandare in città i giovani indios che successivamente tornavano in montagna e dovevano imparare la medicina, la falegnameria, le comunicazioni, tutto quello di cui ha bisogno un esercito per sopravvivere; e con loro mandavamo il virus. Anche la componente urbana dell'E.Z.L.N. si è indianizzata; l'esercito era costituito per la maggior parte da indios, e poiché la struttura urbana era molto ridotta, poche decine di persone, è diventata anch'essa per la maggioranza india. C'è stato il contagio, anche se l'effetto è stato meno forte...
Abbiamo davvero subito un processo di rieducazione, di rimodellamento. Come se ci avessero smontato in tutti i nostri elementi, il marxismo, il leninismo, il socialismo, la cultura urbana, la poesia, la letteratura, tutto quello di cui eravamo fatti, e altre cose di cui nemmeno avevamo coscienza... Ci hanno smontati e poi rimontati in modo diverso. Era l'unico sistema per sopravvivere.

- Altri attori: i maoisti, le Chiese...
Y: C'erano altri attori, i maoisti, per usare un nome generico, la Chiesa... Le comunità indie non erano tagliate fuori dal mondo, avevano subito altre influenze, quelle delle organizzazioni religiose per esempio, evangeliche o neocattoliche.

M: No, in apparenza hai ragione, ma non è andata così. Le prime comunità con cui entriamo in contatto, parlo della seconda metà degli anni Ottanta, sono le più isolate; e i militanti della «linea di massa», quelli di Politica popolare - linea proletaria [17], sono già stati espulsi. Quanto alla Chiesa, organizza le comunità ma non sa o non vuole sapere che il filtro funziona soltanto in un senso. Intendo dire che sulla vita delle comunità la Chiesa sa soltanto quello che gli indios vogliono farle sapere, quello che le lasciano vedere. Per moltissimo tempo anche noi siamo rimasti invisibili per la Chiesa. Quando la gente di qui decide che una cosa deve restare nascosta, la nasconde anche a noi. Altrimenti non ci si può spiegare come siano riusciti a mantenere il segreto per dieci anni. Davvero, si viene a sapere solo quello che vogliono che si sappia, e niente di più. Non c'è niente da fare, se non vogliono dire qualcosa non lo diranno nemmeno sotto tortura.
Ovviamente, sia i «maoisti» sia la Chiesa, ma soprattutto quest'ultima, avevano trasmesso loro una forma di organizzazione che però era ormai allo stremo. L'organizzazione che si fa carico dei progetti produttivi stava diventando obsoleta per la crisi e le condizioni di miseria esistenti. Non c'era alternativa.

MARCOS E I SUOI
- L'allievo del vecchio Antonio.

Y: Ha detto che il vecchio Antonio è stato un personaggio chiave, veramente esistito, e che non si tratta di una creazione letteraria. Sembra che per lei sia stato il fautore di una specie di conversione. E' così?

M: Sì... Il vecchio Antonio è morto nel '94, in giugno, ma io l'ho conosciuto nel 1984. L'avevo visto nel marzo del '94, era già gravemente ammalato, avevo parlato con lui mentre facevamo la Consultazione [18]. In giugno suo figlio, che ha più o meno la mia età, è venuto a dirmi che era morto di tubercolosi e non aveva voluto farmi disturbare. Mi portava anche una storia, da parte sua: era il suo testamento. E' la storia sull'origine del passamontagna, gli dèi che si sacrificano per fare il sole e la luna, il carbone che è nero e dà la luce eccetera. Mi manda questa storia, la racconto in un postscriptum, e incomincio a ripensare a lui e ad altre storie che mi aveva raccontato e che ho scritto in seguito...
L'avevo incontrato nell'84, all'epoca in cui vivevamo completamente isolati. Ci eravamo persi in riva a un fiume che scorre accanto al suo villaggio, nel cuore della foresta, e ci siamo imbattuti in lui per caso, non sapevamo che cosa dire. Gli abbiamo mentito, gli abbiamo detto che andavamo a caccia, anche se ci trovavamo a due passi dal suo campo; io gli ho detto che ero ingegnere! Dovevo avere la barba lunga un palmo, eravamo armati, era difficile bersi quella dell'ingegnere!... E poi ci siamo incrociati di nuovo e abbiamo incominciato a parlare. All'inizio era il sogno di tutti i guerriglieri incontrare un contadino, spiegargli la politica, convincerlo. Perciò mi metto a parlargli della storia del Messico, dello zapatismo, e lui mi risponde con la storia del Vot n e dell'Ik'al [19]. Il primo villaggio che «prendiamo», il primo in cui entriamo apertamente in quanto zapatisti, nel 1985, è il villaggio del vecchio Antonio. Lì lui si comporta come una specie di traduttore, come se ci spiegasse che cosa eravamo noi, e che cosa dovevamo essere. In quello stesso momento stava avvenendo la trasformazione interna dello zapatismo.
Il vecchio Antonio è il ponte che permette ai guerriglieri della montagna di entrare nei villaggi. Il suo contributo fondamentale è far comprendere agli zapatisti la specificità della questione india nelle montagne sudorientali del Messico. Ci spiegava dove eravamo e che cosa stava accadendo lì, ci riportava sempre a questa realtà. In tal modo ci ha aiutati enormemente.

Y: Ha avuto un ruolo essenziale per comunicare con la cultura, con il mondo indio.

M: Sì, e quando Marcos dovrà tentare di collegare il mondo indio con il mondo urbano, ricorrerà al vecchio Antonio: è lui a fornire gli elementi indigeni presenti nel linguaggio zapatista quando è indirizzato all'esterno. Io sono un plagiario...

- Marcos: un ponte, una finestra.
N: Esiste la metafora di Marcos come ponte, come finestra. Fa pensare a un ruolo passivo, ma c'è anche un ruolo attivo, di creazione. Come giudica il ruolo attivo di Marcos?

M: Penso che, in fondo, potrebbe avere un ruolo attivo. Ma Marcos è stato obbligato dalle circostanze a diventare un personaggio che non ha più nulla in comune con la sua persona, è uno strumento. Ho fatto il paragone della finestra perché Marcos, in quanto traduttore, è una finestra che consente di affacciarsi verso l'interno o di guardare fuori. Solo che il vetro è sporco... Le persone si vedono riflesse nella finestra, e per questo Marcos si trova trasformato in simbolo, diventa quello che la gente vuole che sia. Ma non era questa la sua funzione: il personaggio che si è formato a partire dal '94 doveva servire da traghettatore fra le due sponde, in entrambe le direzioni. A partire dal '94, perché fino al primo gennaio, e direi fino al dialogo nella cattedrale [20], l'unico ruolo di Marcos è quello di capo militare. I piani non prevedono affatto che Marcos sia il portavoce.

Y: Il primo gennaio, a San Cristòbal, non è stato lei a parlare?

M: No, sono stati i comandanti David e Felipe, i compagni del Comitato. Sono intervenuto quando si doveva tradurre per gli stranieri. Naturalmente, ero il solo fra i presenti a non essere indio, attiravo l'attenzione; perciò hanno incominciato a dire che ero io a strumentalizzare il tutto. Ma fino al dialogo nella cattedrale Marcos è solo un capo militare. Il nuovo Marcos, che è nato il primo gennaio 1994, incomincia a prendere forma in seguito. Prima Marcos si modella sulle esigenze delle comunità, poi sulle esigenze della società civile e infine sulle esigenze di tutto il movimento, diffuso, indefinito, ma fondamentale, che si crea intorno allo zapatismo.

- Marcos e le comunità. La solitudine di Marcos.
Y: Come vive Marcos la sua integrazione nelle comunità?

M: Prima del '94, in linea di massima ci sono due processi. Prima, il Marcos della montagna che conosce le comunità soltanto attraverso i combattenti indigeni. In seguito, al momento dei primi contatti con i villaggi - te lo ripeto -, è un meticcio che non viene dalla città, scende dalla montagna...

Y: Ma meticcio.

M: Vero... un meticcio che parla già un pochino il dialetto, soprattutto il tzeltal, quello della zona dove stavamo. In quel momento, quando incominciamo a parlare, è un rapporto, possiamo dire, fra maestro e allievo, ma a doppio senso, talvolta loro diventano i maestri e noi gli allievi. Resta però un rapporto distaccato, ci è voluto molto tempo. In realtà, fino al '94 non ho mai vissuto nei villaggi. Nel '94 sì, era necessario esserci, ma dal febbraio del '95 ci siamo ritirati e non abbiamo più vissuto nelle comunità; vivevamo invece in accampamenti nei dintorni.
In generale, dal '94 cerco di non intervenire troppo nelle decisioni della comunità, la mia parola ha troppo peso. Ci sono dei responsabili, sta a loro decidere, i problemi della comunità non dovrebbero arrivare fino a me. Se prendo posizione senza volerlo, complico tutto, posso far pendere la bilancia da una parte o dall'altra al punto che una minoranza diventa maggioritaria perché il "Sup" [21] ha detto eccetera eccetera. Si devono mantenere certe distanze. I soli con cui posso parlare in tutta libertà sono i bambini: con loro non bisogna prendere decisioni, si può parlare liberamente...

Y: Ma questo aggrava la solitudine, la solitudine del capo, in fondo.

M: Una solitudine voluta. Per esempio, quando arrivo in un villaggio, non posso andare a mangiare dove voglio, da qualcuno. Prima era soprattutto per non esporre chi mi accoglieva... ancora adesso, quando arrivano i soldati: «Marcos veniva a mangiare qui, questi li facciamo fuori». Ma ora il problema è di evitare i favoritismi, anche involontari. Devo venire con una scorta che si occupi del cibo e mangiare a parte, perché altrimenti all'interno del villaggio la posizione della famiglia che ci accoglie potrebbe modificarsi. Devo impormi per forza questa solitudine: non mi evitano gli altri, sono io a evitare loro.
In realtà, il contatto con le comunità passa attraverso il Comitato [22]. Con loro faccio riunioni, discutiamo a fondo, soprattutto con gli ufficiali, i comandanti, i comitati.

Y: Ha avuto il tempo di approfondire le sue conoscenze linguistiche?

M: In montagna sì, era indispensabile per insegnare, per parlare. Poi, nei villaggi, no: secondo il protocollo zapatista, quando si parla alla comunità bisogna servirsi dello spagnolo. Tradurre è compito dell'autorità del villaggio. Non puoi rivolgerti direttamente alla popolazione, perché equivarrebbe a ignorare il protocollo. Quindi, anche se conosci il dialetto, non puoi parlarlo, per via del protocollo, e anche se capisci quello che dicono, devi aspettare che le autorità traducano, sono loro il tramite. Talvolta è un po' assurdo, ma è la regola delle comunità. Va rispettata.

- Una giornata della vita di Marcos.
N: Come è organizzata una giornata normale di Marcos?

M: Dipende. Adesso c'è stato un periodo difficile [23], abbiamo dovuto analizzare molte cose. Dovevamo tenerci aggiornati sulle informazioni provenienti dall'esterno, restare a disposizione per le riunioni del Comitato, produrre documenti, discutere con la dirigenza del movimento, i comitati appunto. In questo momento devo essere sempre a portata di mano. Per esempio, se c'è una riunione del Comitato, chiedono come procede il dialogo. Tacho riferisce, racconta, loro cercano di capire che cosa significa e fanno chiamare Marcos... Devo andarci, o mandare un documento per spiegare come vedo le cose. Dopo l'Incontro intercontinentale è la stessa cosa, il Comitato fa il bilancio: chi è venuto, che tipo di persone, quante, e alla fine, per valutare l'impatto politico, chiamano Marcos... Quando ci sono movimenti dell'esercito bisogna tenersi aggiornati nei dettagli, capire che cosa può significare.
Passo tutto il mio tempo a produrre materiale, valutazioni, analisi per uso interno. Quando è necessario devo anche scrivere dei comunicati, lettere, discorsi che saranno resi pubblici, ma il lavoro principale è di informare i compagni ed esprimere una valutazione su quanto accade o potrebbe accadere. Ci sono anche periodi di riposo: quando si consultano le comunità io sto in vacanza, sono loro che comandano. In questo momento, per esempio, non ho niente da dire, tocca a loro decidere sul dialogo. Ho finito il mio lavoro, ho consegnato il compito in classe, non devo decidere niente. Ci sono momenti in cui tocca a me prendere le decisioni, o ai comitati, ma ora è il turno dei villaggi. Bisogna soltanto aspettare; quando arriverà la decisione, nel giro di qualche giorno, sarà il momento di lavorare.

- Marcos, Moisés, David e gli altri.
Y: Perché la scelta del nome Marcos? Il vangelo secondo Marco è quello preferito dai gesuiti...

M: Non da noi... No, nell'organizzazione politico-militare da cui provengo esisteva la tradizione di non lasciar morire i compagni, e il nostro modo di mantenerli in vita era prendere il nome di chi cadeva. Perciò ho preso il nome del compagno che mi dava lezioni di storia, che sapeva tutto, assolutamente tutto, sulla storia militare. Per esempio, il gruppo di guerriglieri di Arturo G miz, l'attacco alla caserma Madera, quello che in seguito sarebbe diventato la Lega del 23 settembre [24], queste cose le conosceva a fondo. Io viaggiavo con lui da un capo all'altro del paese: sono percorsi molto lunghi in macchina. Per non addormentarsi al volante si parla, e lui mi parlava della storia del Messico. E' stato ucciso, e ho preso il suo nome.

Y: Ma fra gli zapatisti ci sono molti nomi biblici, Josué, Moisés, David... E' semplice coincidenza?

M: Sì, sono molto comuni in Messico, sai... Ma ci sono altri nomi che sono incredibili... I nuovi combattenti dovevano scegliersi il nome di battaglia entro un termine stabilito, altrimenti lo decidevamo noi al loro posto. Com'è logico, di fronte a una simile minaccia sceglievano tutti, la prima volta in vita tua che puoi sceglierti un nome da solo non ti lasci sfuggire l'occasione. Quindi ciascuno faceva di testa sua, alcuni prendevano un nome dalla Bibbia, gli altri il nome di compagni, persone che ammiravano... Ma ci sono anche persone molto pratiche. Mi ricordo un tipo nel villaggio di Palo che si era scelto il nome di Carlos Salinas de Gortari [25]. «Se mi arrestano saranno costretti a rilasciarmi» diceva. «Con un nome del genere nessuno potrà farmi niente.» C'era anche un'Angélica Marìa, una Gloria Trevi [26]. Insomma, ciascuno ha i suoi gusti, c'era chi cercava di proteggersi con un nome che gli garantisse l'impunità. Eravamo nel '93, l'epoca in cui i compagni sceglievano addirittura pseudonimi con nome e cognome. Ci sono un Ronald Reagan, un Fidel Castro, un Fidel Vel squez... [27]. Si potrebbe scrivere un libro veramente comico sui nomi degli zapatisti. Nel '93, quando stilavo le liste dei combattenti per costituire le unità, mi ricordo di aver detto al maggiore Mario: «Aspetta, questo non lo possiamo portare, come facciamo a dire che fra i nostri combatte Carlos Salinas de Gortari? Che cosa facciamo?». «Ma è un sergente veramente in gamba, combatte molto bene.» «Digli di cambiare nome, non può combattere con quel nome lì.» Alla fine ha mantenuto Carlos e le iniziali, C.S.G., si chiama Carlos Sierra Gonz les. E via. E' uscito vivo dai combattimenti di Ocosingo [28].

Y: L'E.Z. ha le stesse iniziali di Ernesto Zedillo... [29].

M: C'eravamo prima noi!

- Comandante Tacho: come sono diventato zapatista.
Y: Prima di diventare zapatista, era membro dell'ARIC? Comandante Tacho (T): Ero membro della Uniòn de Uniones, ma non dell'ARIC [30], no. Avevamo una Uniòn molto grande, molto estesa, con obiettivi di produzione e progetti, ma non abbiamo mai ottenuto niente. Nei villaggi si sono stancati tutti. Non ero un dirigente, a volte gli "asesores", i consiglieri che dirigevano l'Uniòn, mi invitavano a partecipare, ma è tutto qui, non avevo una carica precisa, ero, come si dice, un semplice membro, o un simpatizzante.

Y: E come è avvenuto il contatto con l'esercito zapatista?

T: Un giorno i compagni hanno letto su un giornale che qualcuno l'aveva cantata chiara alle compagnie per lo sfruttamento delle foreste. Hanno incominciato a cercarlo, a chiedere chi fosse, dove abitasse. Qui nel Chiapas lo sfruttamento delle foreste era terribile, le compagnie facevano quello che volevano. Abbattevano alberi a tutta forza... dato che sapevo già avanzare richieste e cose del genere, mi hanno proposto di andare a Città del Messico - era prima che Salinas diventasse presidente -, ci sono andato e ho fatto la mia denuncia. Fra l'86 e l'87 l'abbattimento degli alberi in Chiapas è stato proibito [31]. Ho avuto molte esperienze di questo tipo, i compagni di altre organizzazioni mi chiedevano se volevo andare a parlare: d'accordo, andavamo a parlare con il funzionario, con il presidente, con il governatore. Parlavamo con tutti quei personaggi, che allora erano tanto grandi e ora sono tanto piccini. Anche con i generali. Ho imparato molto, da un posto all'altro, ho battuto tutta la campagna, è stata la mia scuola.
Quando gli zapatisti hanno incominciato a cercarmi, un tipo che era già zapatista ha detto: «Lo conosco, è amico mio». Non mi aveva mai detto niente perché a quell'epoca tutto era clandestino, se non si aveva l'ordine di parlarne con qualcuno non se ne parlava; anche quando ci vedevamo si chiacchierava, ma non di questo. Allora mi hanno contattato immediatamente, hanno mandato da me una persona che veniva da molto lontano, e da quel giorno sono fedele allo zapatismo, ho scelto la via della lotta.
Poi, quando abbiamo incominciato a parlare con le persone del villaggio, dovevamo stare molto attenti a scegliere con chi aprirci: sapere chi era, come si chiamava, che cosa voleva. Soprattutto per il problema dell'alcol. Ad alcuni piace molto bere e a volte si ubriacavano con gli allevatori, i commercianti: era difficile, dovevamo stare molto attenti. Abbiamo incominciato a capire che era necessario far partecipare le donne. Abbiamo formato delle donne che erano un po' come commissari politici, e siccome avevamo già con noi delle compagne indie, contadine, scendevamo con loro nelle comunità e riunivamo le donne di notte, in segreto, fuori dal villaggio. Facevano finta di andare a prendere il granturco, a cercare la legna, ma in realtà andavano a una riunione. Sono state loro a incominciare a convincere i mariti a smettere di ubriacarsi. Dopo, quando avevamo due, tre, quattro compagne in una comunità, le incaricavamo di scegliere con chi altro lavorare. E a poco a poco siamo cresciuti finché alla fine un intero villaggio stava con noi. Ci siamo allargati così, ma in modo molto discreto, molto delicato, con un'attività realmente clandestina.

- Maggiore Moisés: incontro con alcuni «turisti».
Y: Lei come è arrivato alla militanza?
Maggiore Moisés (M.M.): Diventando grande vedevo che tutti gli altri bambini andavano a trovare i nonni, e io invece no: mi sembrava strano, non sapevo dove vivevano, niente. Un giorno l'ho chiesto a mio padre, e lui mi ha detto che mio nonno non era più in vita. Gli ho chiesto perché non potevo andare a trovare mia nonna, e mi ha risposto che era morta anche lei. Gli ho chiesto dov'erano, dove li avevano seppelliti. Allora mi ha spiegato che erano in una piantagione chiamata Las Delicias, nei dintorni di Ocosingo, una tenuta molto grande, proprio accanto alla Garrucha. Si è messo a raccontarmi la loro storia, quanto avevano sofferto. Mi ha portato a certe riunioni. Avevo circa tredici anni, incominciavo ad ascoltare le discussioni sui problemi delle terre, delle pratiche agrarie che finivano in nulla, del credito, i problemi sanitari. I conflitti fra le comunità per gli appezzamenti. Un giorno mi ha portato a un'assemblea, ma più grande, cui partecipavano molti villaggi, già un'organizzazione. Ho visto che i problemi erano gli stessi. Ho incominciato ad andarci e a capire la situazione, e il perché. Un giorno sono dovuto partire per cercare lavoro in città. Lì era ancora più dura, quando non parli spagnolo non sai nemmeno dove cercare, e nessuno ti dà lavoro. Nessuno ti offrirebbe neanche un bicchier d'acqua, nessuno ti parla, nessuno ti vede. Sono stato costretto a tornare indietro.
Poi finalmente ho trovato un amico che è venuto con me, siamo tornati in città insieme. Quella volta almeno ho trovato lavoro da un signore. Quello che non mi andava giù nella casa in cui lavoravo è che il padrone aveva dei cani, me ne occupavo io, erano nutriti meglio di me. Avrei mangiato volentieri quello che davano a loro, ai cani. Lo vedevo che costava più di quel che guadagnavo io; con il mio stipendio, non avevo nemmeno abbastanza da mangiare. Sono tornato da mio padre. Lì erano andati un po' avanti nell'organizzazione delle comunità.

Y: Suo padre se n'era già andato da Las Delicias?

M.M.: Sì, dopo la morte dei miei nonni se ne sono andati, non volevano più restare lì, il padrone era molto duro. Mio padre mi ha raccontato che il padrone, invece di pagare in denaro, pagava in alcol quelli con il vizio di bere, e gli altri con un po' di sapone, un chilo di zucchero, ma soldi mai. A quanto pare, dopo quattro o cinque chili di sale o di sapone, sosteneva che erano in debito, e passavano la vita così; ma hanno incominciato a capire che non era vero, per questo se ne sono andati.

Y: Dunque, lei torna per la seconda volta dalla città nella comunità...

M.M.: Sì, ma l'organizzazione era già più avanzata, e sono scesi in sciopero per chiedere una soluzione alla questione agraria. La risposta è stata la repressione.

Y: Negli anni Settanta? Ottanta?

M.M.: A occhio e croce negli anni Settanta. Capivo, perché l'avevo visto anch'io, l'avevo imparato dalla vita, e quindi ho incominciato a partecipare alle riunioni, era gente che conoscevo. Discutevamo insieme, ci dicevamo che non dovevamo più farci fregare così facilmente, ci formavamo una coscienza insieme, come organizzazione. Non era difficile accordare i nostri pensieri, per via dei latifondisti, i "finqueros". E' una cosa molto concreta: se le nostre due o tre bestie gli attraversavano il prato, il latifondista ci trattava male, ma se erano le sue a entrare da noi, non potevamo fare nulla, perché altrimenti incominciava a portarci via le terre. Secondo il loro modo di pensare, fin dove arrivavano con lo sguardo tutto apparteneva a loro. Erano i padroni.
Non poteva durare, perciò ci siamo uniti ancora di più e abbiamo incominciato a lavorare: ci incontravamo spostandoci da una comunità all'altra, e a poco a poco le cose andavano avanti. Prima di tutto l'organizzazione ha avuto un camion, per poter trasportare i nostri prodotti in città, il caffè, il mais, il riso, e tornare indietro con quello che ci mancava.
Finché non è arrivato un gruppo di persone che chiamavamo "asesores", i consiglieri. All'inizio sostenevano di essere dalla nostra parte, di lottare con noi. Venivano dalla città, ma sembravano davvero dalla nostra parte, camminavano nel fango e tutto.
A poco a poco abbiamo incominciato a fidarci di loro, c'è voluto molto tempo per scoprire che cosa facevano alle nostre spalle. Andavamo avanti con le proteste, le manifestazioni, i comizi, e un giorno abbiamo capito: avevamo organizzato da soli una manifestazione, e i consiglieri sono venuti a dirci che era meglio affrontare le cose diversamente. Erano sicuri che avremmo ottenuto soddisfazione. Allora abbiamo deciso di fare come dicevano loro, e nel momento in cui ci siamo ritrovati davanti al palazzo del governo, a Tuxtla, i consiglieri sono scomparsi. Li cerchiamo, e scopriamo che stanno trattando a parte con il governatore. Perciò abbiamo deciso di fare come avevamo pensato noi, di lasciarli fuori, e c'è stato uno scontro fra noi e loro. Questo ha provocato una divisione interna, perché abbiamo dovuto separarci dai consiglieri; nell'organizzazione c'erano dei contadini che se l'intendevano bene con loro, che avevano imparato anche i trucchetti...

Y: C'è stata una scissione fra i contadini?

M.M.: Non nelle comunità, ma con i dirigenti: abbiamo dovuto chiedere conto a quelli che lavoravano con i consiglieri, avvertirli che sapevamo che cosa stava succedendo, e a poco a poco ci siamo riorganizzati e abbiamo espulso gli "asesores".

Y: E' successo nell'ARIC?

M.M.: No, era prima, nella Quiptic ta lecubtesel [32].

Y: I consiglieri venivano dal nord?

M.M.: Sì, c'era Adolfo Orive che veniva da Torreòn, Marta Orantes, un altro che si chiamava René [33]. E' stato Orive a farci una vera carognata, a farci capire. Non ci ha ancora restituito i soldi, i tredici pesos... diceva che chi dava dieci pesos ne avrebbe ricevuti cento, chi ne dava mille ne avrebbe avuti diecimila, era molto bello, trovavamo i soldi ed ecco fatto... stiamo ancora aspettando.

Y: Che cosa è successo da quel momento in poi? Vi siete organizzati in maniera più autonoma?

M.M.: Sì, li abbiamo espulsi e abbiamo incominciato a riorganizzarci, io mi sono dedicato alle riunioni, all'organizzazione, alla lotta. Un giorno ho incominciato a sospettare qualcosa. C'era un gruppo di uomini che affermavano di essere turisti, ma io conosco i turisti, vanno dove vogliono... Quelli no, venivano ad ascoltare le discussioni, avevano un'aria molto attiva, molto attenta, molto educata.
Circolavano già delle voci sui guerriglieri guatemaltechi. Qualcuno diceva che erano cattivi, altri che si battevano per il popolo. La cosa mi dava da pensare. Un po' di tempo dopo è venuto a trovarmi un ragazzo. Si mette a parlarmi della povertà, dell'ingiustizia, della miseria... del fatto che il popolo deve organizzarsi. Lo pensavo già anch'io. Quando avevamo espulso i consiglieri avevamo incominciato a riflettere su come organizzarci, conoscevamo la storia di Zapata, di Villa, ma lì si trattava di battaglie, di scontri armati. Perciò, quando arriva quel ragazzino, glielo spiego: mi rendo conto che se continuiamo così non otterremo niente, ma d'altra parte non possiamo neanche dedicarci ad altre forme di lotta, perché non sappiamo come fare. Lui mi fa altre domande, su quello che penso, quello che voglio, ma io sospetto qualcosa, continuiamo a parlare. Alla fine mi lascia un opuscolo, "El despertar" (Il risveglio). Parlava della storia del Messico, dei ricchi che rubano, tradiscono, sfruttano.
Ero sempre più d'accordo e un giorno sono arrivato a chiedergli chiaro e tondo: «Senti, ho capito benissimo di cosa parla il tuo opuscolo, ma c'è un problema: come si fa, dove, insieme a chi?». Mi spiega che se davvero mi interessa devo trovare altri compagni che la pensino allo stesso modo. «Spiegami di che cosa si tratta, per capire come muovermi.» Alla fine me l'ha detto. Che c'era un gruppo di guerriglieri, si chiamava Esercito zapatista di liberazione nazionale. Che erano clandestini. Mi ha spiegato i problemi di sicurezza.
Ho incominciato a cercare altri ragazzi, a parlare con loro, ho avuto delle difficoltà, perché alcuni bevono, e ho dovuto trovare gente che non bevesse. Alla fine ne ho messo insieme un gruppo e gliel'ho presentato. Mi ricordo che eravamo in sette, tutti della mia comunità. Poi, mi ha chiesto di aiutarli a trasportare le provviste che arrivavano loro dalla città, e cose simili. Un giorno gli ho detto che anch'io volevo ricevere una formazione. Mi hanno fatto superare una prova per vedere se ero davvero pronto, e siccome ci sono riuscito, mi hanno portato con loro, per insegnarmi a leggere e a scrivere.

Y: Lei non era andato a scuola?

M.M.: No, solo un anno e basta. Quasi non parlavo [spagnolo], capivo ma non sapevo rispondere, parlare come parlo con voi, impossibile... Mi hanno portato in città, ma non mi piaceva. Comunque almeno ho capito come si vive in una grande città. Mi hanno portato a conoscere degli operai in una fabbrica. Per me è stata una grande scoperta: come molti contadini, pensavo che gli operai fossero ricchi; visto che stanno nella fabbrica, pensavo che la fabbrica fosse loro. Quando ho visto come lavorano quelli che restano in piedi per otto ore di seguito ho capito! Non potevamo nemmeno parlare, se li vedevano parlare il padrone poteva cacciarli via. L'amministratore ci ha visti, facevamo finta di aiutare ma si è accorto che non eravamo della fabbrica e ci ha sbattuti fuori assieme all'operaio che parlava con noi.

Y: E' successo a Città del Messico?

M.M.: Sì. C'era un gruppo dei nostri anche lì. Alla fine gli abbiamo dato appuntamento un sabato e lui ci ha raccontato i loro problemi, le sofferenze. Perché la sicurezza sociale esiste solo a parole.
Quando sono tornato da queste parti insieme al gruppo dei compagni per andare in montagna, ero convinto che avrei trovato un esercito. Arrivo, e dov'è l'esercito? Era soltanto un pugno di uomini.

Y: C'erano degli indios?

M.M.: Sì.

Y: E nel gruppo dei «turisti»?

M.M.: Anche. Il primo che è venuto a cercarmi, il ragazzo, era indio, ma poi quello che si è davvero preso cura di me, che mi ha spiegato, quello era un meticcio.
Insomma, arrivo in montagna e incominciamo a studiare come lavorare con le comunità, come parlare con loro. Esistevano progetti politici, eravamo già nel 1985, c'erano libri, conferenze, lezioni. Si lavorava sulla storia del Messico, la situazione del nostro paese, i programmi del governo, quello che succede realmente, analizzavamo la situazione, ecco che cosa studiavamo.

N: E a livello ideologico anche il socialismo...

M.M.: No, non esattamente. Incominciavamo a capire che il nostro problema erano le carenze sanitarie, la mancanza di istruzione, la mancanza di igiene, di libertà, di democrazia, di indipendenza, di pace.

Y: E come ha scelto il suo nome, Moisés?

M.M.: Non l'ho scelto io... Nel gruppo in cui ero, avevamo deciso: tu scegli un nome a me e io ne trovo uno a te! E' un modo democratico di risolvere il problema... «Tu sei Moisés», «Tu ti chiami Tom s», e l'ultimo, eravamo in tre, l'abbiamo chiamato Omar.

L'INSURREZIONE.
- Il ribaltamento.

Marcos: I nostri contatti con le comunità rimangono sporadici anche nell'87, nell'88. Eravamo sempre un gruppo di guerriglieri acquartierato in montagna. C'era la componente india, certo, i giovani che si univano a noi; del resto alcuni, quelli che non ce la facevano in montagna, tornavano nei villaggi. Se un combattente crollava e mollava la guerriglia non veniva fucilato, rientrava a casa sua e riprendeva a lavorare per aiutarci. Ma il contatto con le comunità era discontinuo, i guerriglieri scendevano nei villaggi, sì, ma di rado. Il rapporto è diventato più stretto solo verso la fine dell'88 e nell'89, quando ormai c'erano centinaia di combattenti in fase di addestramento, e oltre cento combattenti di professione che si dedicavano soltanto alla lotta
[34]. A partire da quel momento, quando organizzavamo feste in montagna per il 10 aprile, il 17 novembre, il 16 settembre [35], le feste storiche del Messico o dell'E.Z.L.N., la gente delle comunità veniva ad assistere. A quell'epoca noi scendevamo nei villaggi solo di notte, di nascosto. Non c'erano nemmeno ancora i villaggi «controllati», come li chiamiamo noi, cioè totalmente zapatisti. In seguito, la maggior parte dei villaggi della Selva e degli Altos è diventata totalmente zapatista, ma in quel periodo no.

Y: Quando si è verificato il ribaltamento?

M: Ti posso dire la data: 1989.

Y: E perché?

M: Non lo so, non posso spiegartelo, noi abbiamo pensato che fosse accaduto perché avevamo fatto bene il nostro lavoro. Adesso, a posteriori, mi rendo conto che il fenomeno ha coinciso con avvenimenti esterni di cui non avevamo idea. In teoria il fatto che il nostro programma di lotta armata, di cambiamento sociale, pur senza dichiararsi socialista avesse tanta risonanza avrebbe dovuto farci riflettere, in un momento in cui tutto sembrava dimostrare che la lotta armata non aveva più alcun senso. Del resto la Chiesa lo ripeteva sistematicamente, indicando l'esempio del Salvador per dimostrare che dopo anni di lotta armata le cose non erano progredite affatto.
Secondo me la forte crescita dell'E.Z.L.N. può essere spiegata per diverse ragioni. La prima sono i brogli elettorali dell'88 contro il cardenismo [36] che, per gli ambienti indigeni più politicizzati come l'ARIC o l'Uniòn de Uniones, significa la fine di una possibilità di transizione pacifica. C'è anche il crollo del prezzo del caffè, oltre alle gravissime epidemie nella Selva: molti bambini sono morti per la mononucleosi e altre malattie, talmente inesplicabili da farci pensare che fossero dovute a bombardamenti chimici in Guatemala trasportati fin qui dal vento. Comunque, nel giro di qualche settimana sono morti centinaia di bambini.
Altro fattore importante è un'incursione nella Selva dell'esercito federale, che l'ha setacciata con la scusa ufficiale di individuare le piantagioni di marijuana, o chissà che altro. Questa storia si è tramutata in un disastro per loro, quando la gente ha visto come la montagna se li inghiottiva in un boccone. Non erano più invincibili, erano diventati soltanto dei soldatini terrorizzati, sperduti fra i monti. Questo ha infranto la loro aura di sacralità, il terrore degli aerei e dei tank... Inoltre, le guardie bianche avevano raddoppiato le attività, c'è stata un'ondata di assassinii, soprattutto nella Selva e nella parte settentrionale del Chiapas: ormai alla gente non restava altra scelta se non quella di combattere o di lasciarsi ammazzare.
Non eravamo noi a convincere gli altri, a farli davvero decidere sono stati la riforma di Salinas e l'articolo 27 [37]: cessazione definitiva della ripartizione delle terre, trasformazione di tutte le terre, anche quelle degli "ejidos", in merce da vendere o da acquistare. Era proprio la fine, non avevamo più speranza. Restava soltanto la lotta armata.

Y: Nello stesso periodo, Salinas ripartiva i sussidi tramite il Pronasol.

M: Non sono mai arrivati alle comunità. E' rimasto tutto nelle tasche degli agenti municipali, delle autorità dell'ARIC che erano corrotte, dei funzionari locali. Le comunità non hanno ricevuto nulla. Come sempre. Non ce ne siamo mai preoccupati, ai villaggi non arriva mai niente. Nemmeno alle comunità priiste [38]. Finché il governo messicano continuerà a essere corrotto a tali livelli, nessuna campagna antinsurrezionale funzionerà mai... in questo momento succede esattamente la stessa cosa [39]. Per finire, bisognerebbe analizzare più a fondo quello che è successo allora, ma a distanza di tempo io la vedo così. Oltre al calo del prezzo del caffè, alla repressione descritta così bene da Luis Hern ndez Navarro [40], per esempio, ci sono senz'altro altri aspetti locali che potrebbero spiegare perché l'Esercito zapatista si sviluppa tanto in fretta, soprattutto negli Altos.

Y: Negli Altos?

M: Sì, nell'89, nel '90, incominciamo a essere migliaia anche negli Altos, dove le condizioni erano molto più difficili, perché l'unica foresta per nascondersi era la comunità. Non ci sono alberi, niente, era solo la gente che ci nascondeva e ci aiutava.

Y: In precedenza avevate già dei contatti, dei nuclei? Dicono che avevate un primo gruppo nella regione di Sabanilla [41].

M: No, non abbiamo mai avuto un gruppo armato nel Nord dello Stato. Contatti politici sì, ne avevamo in tutto il Chiapas. Invece, negli Altos abbiamo incominciato ad avere alcune unità di commandos alla fine degli anni Ottanta. Il grosso dei combattenti restava nella Selva, ovviamente, ma avevamo dei piccoli gruppi armati che facevano un lavoro politico di organizzazione come qui.
Comunque, fra l'89 e il '90 siamo passati da poche centinaia a migliaia di combattenti, e mentre prima ci aiutava solo qualche famiglia, ora era tutto un villaggio, poi una vallata intera, un'intera regione. Potevamo circolare nelle valli della Selva di giorno come di notte, erano tutti zapatisti, sapevamo tutto quello che succedeva, avevamo il pieno controllo della situazione. Si verifica un boom dello zapatismo, uno sviluppo fenomenale, e l'organigramma da sogno (o da incubo) del 1983-84 incomincia a colmarsi: compagnie, battaglioni, divisioni. D'un tratto l'esercito sognato diventa possibile. Allora incominciamo a organizzarlo, secondo la nostra idea di un esercito popolare che per noi doveva produrre, e non limitarsi soltanto a combattere. Oltre a prepararsi per la guerra, l'esercito lavorava al servizio delle comunità, alcuni appezzamenti comunitari venivano coltivati dalle truppe, insomma tutte le cose che facciamo adesso negli Aguascalientes [42]: ambulatori, centri di aggregazione, campi sportivi, parchi giochi per i bambini...

Y: Difficile restare clandestini in questa situazione.

M: No, perché eravamo a casa nostra in tutti i villaggi, in tutta la "canada" [43], nelle tre vallate di Ocosingo. Come qui in questo momento: nessuno sa se io sono qui o da un'altra parte, ma io so chi c'è.

Y: E i servizi di controspionaggio dell'esercito?

M: Tanto per cominciare - ma l'abbiamo scoperto in seguito - non sono poi così efficienti come si pensa; e soprattutto, chi poteva credere che una cosa del genere fosse possibile? Ricevevano rapporti sull'esistenza di gruppi armati nella Selva, ma probabilmente supponevano che si trattasse di guatemaltechi.
Un gruppo armato in Messico, che per giunta non fa nulla, era un'assurdità. Mi metto nei loro panni: se nel 1989 mi avessero detto che esisteva un gruppo armato denominato Esercito zapatista di liberazione nazionale, che invece di battersi aveva raccolto milleduecento combattenti nella regione di Ibarra per costruire un ambulatorio, non avrei preso la cosa sul serio. Se nel 1991 mi avessero detto che questo esercito aveva fatto una manovra di dislocazione per bloccare tutte le entrate della Selva, e che nel 1992 aveva organizzato un corteo militare di cinquemila uomini per celebrare cinquecento anni di resistenza... non ci avrei creduto nemmeno se mi avessero portato le foto a riprova. Del resto era difficile che ci fossero fotografie! Gli appartenenti alle comunità si conoscono fra loro, quando arriva uno di fuori la comunità viene a saperlo immediatamente. Di certo ci sono state fughe di notizie, compagni che si ubriacavano e parlavano della guerriglia, ma a quel tempo nessuno ci credeva.

- Attriti.
Y: La Chiesa era informata per forza, in un certo senso eravate in concorrenza con la sua organizzazione.

M: In seguito, fra il '90 e il '93, hanno capito che eravamo un gruppo armato. La fuga di notizie è stata causata dagli attriti con le autorità ecclesiastiche locali. Nei contatti fra l'E.Z.L.N. e le comunità gli scambi avvengono in entrambe le direzioni, l'Esercito zapatista si trasforma, ma anche le comunità, e uno dei problemi culturali è il modo in cui sono trattate le donne nei villaggi. Come ben sai vengono comperate o vendute come mogli, e la Chiesa locale è coinvolta direttamente in questo commercio.

Y: Che cosa intende per «Chiesa locale», i tradizionalisti o che altro?

M: No, le autorità locali all'interno delle comunità: i "tuhuneles" [44], i diaconi, i catechisti. Non parlo della Chiesa esterna, la diocesi, il vescovo, la parrocchia, ma di quella presente nei villaggi. Quando l'E.Z.L.N., soprattutto le donne dell'E.Z.L.N., incominciano a mettere in discussione direttamente o indirettamente la condizione femminile, nelle comunità si creano disaccordi, soprattutto da parte delle autorità religiose: dicono che inculchiamo cattivi pensieri nella testa delle donne e dei giovani. Si sono create molte tensioni per questo. Inoltre, incomincia a costituirsi una struttura di potere parallela, che in un certo senso si pone in competizione con l'autorità della Chiesa nella gestione delle comunità. L'autorità ecclesiastica è anche un'autorità del villaggio; in certi posti coesistevamo senza problemi, ma in altri c'erano scontri, attriti più o meno forti, contrasti per il potere locale.

N: Avete avuto lo stesso problema anche con gli anziani, la forma di potere tradizionale, i "principales"? [45]

M: Sì, nella zona tzeltal più interna della Selva (esiste un'altra zona tzeltal intorno ad Altamirano, al confine della Selva Lacandona). Lì le autorità tradizionali sono anche autorità religiose. Alcuni ci accettavano o erano d'accordo, ma altri no. Talvolta le competenze si sovrapponevano: le stesse persone rappresentavano l'autorità ecclesiastica, il potere civile (commissari dell'"ejido" o agenti municipali) e il comando zapatista. In quelle comunità tutto filava liscio come l'olio, senza tensioni o conflitti. Ma c'erano pure villaggi con due o anche tre diverse autorità: gli uomini dell'ARIC, l'autorità ecclesiastica e l'autorità zapatista.

Y: Davvero non avevate problemi con la diocesi? Tello [46] cita una frase di Samuel Ruiz che vi accusa di aver «inforcato un cavallo già sellato», di avere sfruttato il lavoro degli altri.

M: Tello ha ascoltato la versione del CISEN... [47]. No, Samuel ha pronunciato la frase in questione durante una grande festa a San Miguel per l'anniversario della Quiptic ta lecubtesel, nel '92 o nel '93. Parlava della storia della Quiptic e di come tale organizzazione aveva rotto con quelli di Polìtica Popular, che volevano introdurre nelle comunità il marxismo-leninismo e mettere in discussione il ruolo della Chiesa, per cui si erano fatti espellere. Tello afferma che Samuel parlava degli zapatisti, ma in realtà si riferiva a Polìtica Popular, a Orive e agli altri.

- Dal fallimento dello sviluppo all'economia di guerra.
N: Lo zapatismo può essere considerato un fattore di modernizzazione all'interno delle comunità indie?

M: E' difficile dirlo... Non so se abbiamo trasformato la vita delle comunità, non so in che misura, né se sia stato in meglio o in peggio. Per esempio, il contatto con gli zapatisti ha comportato l'introduzione dei contraccettivi e un mutamento di prospettiva delle donne, anche se in generale non è ancora un fenomeno consolidato. Altri cambiamenti sono legati alla comparsa di risorse prima inesistenti: producevamo elettricità con motori a benzina, e le comunità hanno potuto accedere di punto in bianco a strumenti culturali come le videocassette o le piccole radio locali che abbiamo fondato.
Inoltre abbiamo sviluppato molto il sistema sanitario. Credo che la nostra presenza, il lavoro dell'E.Z.L.N., abbia modificato a fondo la situazione sanitaria dei villaggi. Come ben sai, quando la comunità prende una decisione in assemblea, chi non la rispetta viene punito. Quando è scoppiata l'epidemia di colera abbiamo ottenuto che le comunità decretassero l'obbligo dell'esistenza di una latrina per ogni casa; non era un ordine dell'E.Z.L.N., era una decisione delle autorità comunitarie, e chi non la eseguiva doveva pagare una multa... hanno costruito latrine dappertutto. Resta da vedere se la gente le utilizza, ma comunque esistono. Attraverso le assemblee dei villaggi siamo riusciti a far passare questo tipo di decisioni collettive per altre campagne sanitarie, la vaccinazione dei bambini, le misure preventive all'insorgere dell'epidemia di febbre rossa; e quando l'assemblea prende una decisione, siamo sicuri che verrà rispettata.
Poi, dopo il '94 è un'altra faccenda, il contatto diretto delle comunità con il mondo esterno, a livello nazionale e internazionale. Ma si tratta già di un altro zapatismo...

Y: E riguardo ai programmi di produzione che cosa avete fatto?

M: All'epoca abbiamo fatto programmi di formazione in agronomia, tentavamo di migliorare la produzione, di diversificarla, d'introdurre dei fertilizzanti. In certe zone abbiamo cercato di dare impulso alla coltivazione di alberi da frutta... un fallimento completo!

Y: Perché?

M: Potevamo trovare qualcuno che tenesse le lezioni, che insegnasse, ma non avevamo una struttura sufficiente per soddisfare le esigenze di centinaia di comunità. Non dimenticare che stiamo parlando di centinaia di villaggi.

Y: Ma avreste potuto lavorare con le agenzie per lo sviluppo, con le organizzazioni non governative, no?

M: No, noi no. Abbiamo consigliato ai compagni di presentare dei progetti. Nella maggior parte dei casi venivano respinti, le organizzazioni internazionali di cooperazione allo sviluppo volevano cose più concrete. Non sono interessati ai fertilizzanti, perché spariscono nel terreno, chissà se servono a qualcosa o no. Un'officina, un ambulatorio, una farmacia, ecco le cose che piacciono, perché si vedono, si possono fotografare...

Y: Quelli dell'Uniòn del Pueblo [48] e di Polìtica Popular insistevano molto più di voi sui programmi di produzione, l'aspetto economico.

M: Ma è proprio il fallimento di questa linea economicistica ad aver spinto la gente verso di noi. In fondo si trattava di ottimizzare la povertà, renderla più sopportabile, non di uscirne, e questo cozzava contro i limiti imposti dalla crisi.

Y: Non è stato l'inizio della lotta armata a far fallire il progetto di sviluppo economico?

M: Anzi, al contrario, è il fallimento di tale progetto che ci ha gettati fra le braccia migliaia di membri di quell'organizzazione. In ogni modo, da allora l'E.Z.L.N. ha cessato di essere per la maggior parte tzeltal, la gente della Selva è in minoranza, la maggioranza è costituita dai chol e dai tzotzil, la gente del Nord e degli Altos. Se tutta la Quiptic, o tutta la Selva, avesse lasciato l'organizzazione, avremmo avuto ancora migliaia di combattenti in altre zone del Chiapas. Ma succede il contrario: quelli della Quiptic aderiscono in massa al nostro movimento perché non vedono altra via di uscita.
Abbiamo creato anche laboratori di produzione, ma nella prospettiva di un'economia bellica: laboratori di sartoria per fare le uniformi, laboratori di falegnameria per fabbricare le casse delle armi e i calci dei fucili, le lance, gli archi, le frecce, tutto ciò di cui avremmo bisogno per la guerra; addestravamo infermieri per il servizio sanitario, maestri perché la gente imparasse a leggere e studiasse la storia del Messico, le posizioni politiche, i nostri manifesti, le nostre spiegazioni e così via. Tutto ruotava intorno a un'economia bellica.

Y: Ma non potevate girare completamente le spalle al mercato, nonostante tutto la gente ha...

M: Non esisteva mercato!

Y: Diciamo allora agli scambi con la città.

M: La città, i "coletos" [49], volevano solo caffè e betal. Al resto non erano affatto interessati. Gli indios non potevano sfruttare nemmeno la foresta, il governo aveva ritirato agli "ejidos" il permesso di taglio per dare mano libera alla famiglia Castellanos [50] nei suoi affari. I Castellanos invece tagliavano il legname a tonnellate... I contadini non potevano commercializzare niente di niente, a parte il betal, quando non era malato, e il caffè. Quando il prezzo del caffè crolla, è finita. Nella Selva non c'erano altri prodotti commerciabili.

- La decisione di insorgere.
Y: Veniamo allo zapatismo del '93...

M: Allora, esistevano queste tre correnti: il gruppo politico- militare, il gruppo di indios politicizzati e la massa india, anch'essa politicizzata a suo modo, sebbene noi non lo sapessimo ancora. Si produce la convergenza. Il gruppo indio «di intermediazione» fa da ponte, e all'interno delle comunità nasce l'altro ponte, il traduttore, il vecchio Antonio.
Nel 1992 si celebrava con grandi festeggiamenti ufficiali il quinto centenario della scoperta dell'America. Non avevamo ancora capito fino a che punto la Conquista fosse importante e carica di significato per le comunità indie. All'interno del movimento indio, a livello locale e senz'altro anche nazionale, si produce una specie di fermento, un bisogno di esprimersi che noi non comprendiamo subito. Decidono che si deve commemorare il cinquecentenario ricordando la realtà, la loro: cinque secoli di resistenza contro la dominazione. Il processo di radicalizzazione si accelera, i villaggi raggiungono il punto di non ritorno: la loro volontà viene espressa dai capi indios, i capi delle comunità e quelli regionali, che in seguito avrebbero costituito il Comitato. I capi indigeni dichiarano che bisogna incominciare la guerra nel 1992. D'accordo con il comando (ero il capo militare) i dirigenti spiegano quello di cui si è già parlato: che la situazione internazionale è sfavorevole, la situazione nazionale non lascia spazio al minimo tentativo di cambiamento e peggio ancora alla lotta armata. Decidiamo insieme che bisogna consultare le comunità. E' la prima volta, in seguito per gli zapatisti la consultazione è diventata un modo di lavorare consueto nei villaggi.
Siamo nella seconda metà del 1992, la consultazione coincide con la mobilitazione organizzata per la celebrazione del quinto centenario, la grande marcia del 12 ottobre a San Cristòbal, che gli indios di tutta la regione considerano un po' l'ultima grande azione civile di un movimento ormai zapatista.
Il testo «il Sud-est in due venti, una tempesta e una profezia» [51], che sarà pubblicato in seguito, ne spiega il senso, i simboli. La profezia del testo si concretizza in pratica nella presa simbolica di San Cristòbal da parte degli indios armati, anche se per questa volta armati solo di archi, frecce e lance. E' facile individuare nella manifestazione il contingente zapatista degli Altos, del Nord [52] e della Selva, è il più ordinato, tiene il passo ed è quello in cui sono presenti più donne. Ma nessuno nota niente: gli indios hanno fatto la loro commemorazione, hanno parlato di resistenza, punto e basta.
Nel movimento indio la marcia è sentita come il culmine del processo di consultazione, come uno specchio in cui gli indios osservano la propria situazione, e in cui riconoscono la propria capacità di mobilitazione. Su dieci-quindicimila persone c'erano circa cinque- seimila indios zapatisti.
Durante la consultazione, in ogni villaggio viene spiegata la situazione della comunità, dell'etnia, la situazione internazionale e nazionale, e si pone la domanda: è venuto sì o no il momento di incominciare la guerra? Fra settembre, ottobre e la prima quindicina di novembre vengono consultate quattro o cinquecento comunità, comunità di quattro etnie, tzotzil, chol, tojolabal e tzeltal, e per la prima volta la maggioranza della popolazione è invitata a pronunciarsi: le donne partecipano come gruppo a sé, e votano anche i giovani che non avevano mai preso parte alle decisioni del villaggio, soprattutto decisioni di questo tipo.

Y: E la scelta viene fatta a maggioranza?

M: Sì, a maggioranza all'interno dell'E.Z.L.N.. Ma lasciando da parte Los Altos e il Nord, nella Selva è la maggioranza della popolazione totale a votare per la guerra.
E' stato un voto nominale, individuale. Intendo dire che, quando scrutiniamo i voti, dopo il 12 ottobre, non diciamo «tanti villaggi a favore, tanti contro», ma «tanti uomini, donne, giovani hanno votato sì, e tanti no». Insomma, è stato un voto diretto e individuale ma pubblico, all'interno dell'assemblea di villaggio, non un voto segreto. Ci sono stati dibattiti, talvolta molto accesi. Ogni villaggio doveva produrre i verbali dello scrutinio (poi conservati in luogo sicuro) con i risultati e anche con le argomentazioni a favore e contro. In teoria non era un voto, ma una consultazione, siamo nel '92, il comando consulta i villaggi per sapere che cosa pensa la gente, e poi decide a propria discrezione. Perciò chiedevamo le argomentazioni, perché il comando si potesse fare un'idea. Gli zapatisti che votavano contro la guerra dicevano che sui villaggi si sarebbe scatenata la repressione, che non erano pronti, che c'erano comunità divise, che si doveva aspettare... avevano argomenti validi. Ma per farla breve, la stragrande maggioranza si pronuncia per incominciare la guerra subito, e le comunità danno all'E.Z.L.N. l'ordine ufficiale di combattere insieme a loro.
Noi non ci eravamo mai preparati per sferrare un'offensiva, quindi dovevamo affrontare problemi enormi dal punto di vista tattico, strategico, logistico. Sin dall'inizio eravamo partiti dall'idea che un giorno o l'altro sarebbe scoppiata la guerra, ma che non saremmo stati noi a provocarla; in seguito, dopo aver incontrato le comunità, consideravamo il nostro ruolo militare in termini difensivi. Supponevamo che le comunità sarebbero state attaccate, che l'esercito le avrebbe invase, o che ci avrebbe inseguiti, o che ci sarebbero state espulsioni dai villaggi e che avremmo dovuto resistere, o che avremmo dovuto colpire le guardie bianche, che dopo le guardie bianche sarebbe arrivata la polizia, poi l'esercito e così via. Avevamo uno schema militare difensivo che copriva tutte le vallate della Selva Lacandona e i punti più importanti degli Altos, perché proprio negli Altos e nella Selva avevamo il grosso delle nostre truppe.
Nel Nord ci eravamo sviluppati soprattutto nel senso politico, organizzavamo le comunità o frazioni di comunità, ma era una regione dove c'erano molti gruppi politici. Negli Altos in pratica c'era soltanto il P.R.I.; nella Selva erano l'ARIC, la Quiptic e attraverso di essi la Chiesa, non c'era nemmeno il P.R.I.. In compenso nel Nord c'erano dei gruppi di destra, guardie bianche, organizzazioni di sinistra, gente del PROCUP-P.D.L.P., del P.R.D., dell'OCEZ [53], insomma di tutte le organizzazioni sociali o politiche di sinistra, legali e clandestine. Era un terreno politicamente molto pesante, saturo di proposte politiche diverse, quindi già all'epoca assai frammentato e polarizzato. Spesso avvenivano feroci regolamenti di conti. Il PROCUP-P.D.L.P. aveva giustiziato persone che dissentivano con la sua linea nelle organizzazioni contadine del Nord, dirigenti dell'OCEZ, soprattutto quando l'OCEZ si era divisa in due, poi in tre, prima di polverizzarsi.
Dunque, dal punto di vista militare, le nostre forze principali, strategiche e tattiche, erano concentrate fra gli Altos e la Selva, ma erano dislocate in piccoli gruppi, in guarnigioni ripartite su tutto il territorio; in vista di una manovra offensiva dovevamo riunirle per poter colpire. D'altra parte le comunità si erano preparate da molto tempo per resistere a un'aggressione, adesso andavano addestrate, anche in termini politici e organizzativi, per lanciarsi all'attacco. Bisognava quindi cambiare l'ordine delle priorità nel lavoro politico dei dirigenti indigeni delle comunità, e gli obiettivi della preparazione politica e militare delle truppe insorte e delle milizie [54]. Insomma, bisognava rifare tutti i piani, ripartire da zero, e questo significava uno sforzo enorme per l'E.Z.L.N. che con tutte le sue migliaia di combattenti non aveva mai immaginato di andare all'offensiva.
Nel dicembre del '92, dopo aver appreso il risultato della consultazione, facciamo una riunione fra la direzione india e il comando «di montagna» dell'E.Z.L.N., durante la quale riflettiamo su come modificare la struttura direttiva in vista della guerra: è necessario che l'esercito zapatista vero, cioè le comunità indie, assuma il controllo di tutta l'organizzazione, anche nelle città, e poiché vogliamo che la guerra abbia carattere nazionale e non locale essa deve riguardare tutto il territorio, o almeno tutti gli Stati in cui l'E.Z.L.N. è presente.
Formalmente, alla fine del '92 era sempre l'organizzazione politico- militare ad avere il comando dell'E.Z.L.N., ma in realtà esso era già delegato ai dirigenti delle comunità, quelli che allora chiamavamo responsabili di zona per le tre regioni e responsabili d'etnia per i quattro gruppi etnici.

Y: Quelli che in seguito costituiranno il C.C.R.I.

M: Sì. Il C.C.R.I. nasce soltanto nel gennaio del '93. Dunque, decidiamo di convocare nel gennaio del 1993 una riunione dei rappresentanti dei militanti urbani, delle truppe regolari insorte e delle comunità dei villaggi. Durante la riunione discutiamo di nuovo la questione della guerra: era un'iniziativa delle comunità indigene che ovviamente non aveva alcun seguito in città. Lasciava scettici già noi, ma per loro che erano più informati riguardo alla situazione generale si trattava di pura follia. La riunione si prolunga, e dopo molti giorni di discussione si stabilisce che l'organizzazione politico-militare deve cedere, che bisogna accettare un meccanismo democratico in cui è la maggioranza dell'organizzazione a decidere quale via seguire. La maggioranza dell'organizzazione è costituita dalle comunità. Allora i rappresentanti indigeni ratificano il risultato della consultazione e votano, in quanto dirigenti, la stessa cosa per cui hanno già votato le comunità: la guerra. Assumono così formalmente, ufficialmente, il comando dell'E.Z.L.N., e i responsabili di etnia e di zona assumono il nome e il ritmo di lavoro del Comitato clandestino rivoluzionario indigeno.
Poi, per la prima volta, i capi indios di quattro etnie, ormai demandati all'autorità con il titolo di comandanti, si riuniscono per decidere le attività preparatorie per una guerra india, una guerra delle quattro principali etnie del Chiapas. Fissano l'obiettivo della guerra, rivendicazioni di carattere nazionale, non soltanto indio ma nazionale. Le richieste principali, le parole d'ordine, sono: democrazia, libertà e giustizia.
L'idea di una guerra nazionale non significa che ci battiamo per il potere, ma per un sistema democratico, cioè per condizioni di parità, di equità, per la lotta politica e per la creazione di uno spazio di lotta civile e pacifica aperto a tutti. Per gli indios in particolare, e in generale per tutti i messicani. Non bisogna dimenticare che una parte dell'E.Z.L.N., quella che si è autodefinita organizzazione politico-militare, è arrivata a impugnare le armi perché ha trovato bloccate tutte le vie per la lotta politica pacifica.

- Il cocktail zapatista del primo gennaio 1994.
Y: Come mai la prima Dichiarazione della Selva Lacandona parla di prendere il potere e di...?

M: No, non parla di prendere il potere, ma di rovesciare il dittatore, Salinas de Gortari, ed esige che il Congresso (cioè i deputati e i senatori) nomini un governo di transizione per riorganizzare il potere politico e poter indire, questa volta sul serio, nuove elezioni.

Y: Tuttavia verso il primo gennaio si parla ancora di mutamento totale di regime, della caduta di Salinas ma anche di quella di una dittatura vecchia di oltre sessant'anni; si parla di socialismo e in certe dichiarazioni anche di dittatura del proletariato, no? Mi sembra che i primi testi siano piuttosto classici, non riguardino soltanto «democrazia, libertà, giustizia».

M: Il fatto è che al momento di uscire dall'ombra l'Esercito zapatista è in piena ridefinizione. Essendo nato da una serie di confluenze, avviene anche una confluenza di idee diverse: alcuni compagni erano per il marxismo ortodosso, altri venivano da un marxismo più vicino al trotzkismo, altri erano più vicini a Gramsci, «eurocomunisti», altri ancora non erano marxisti ma socialdemocratici... La prima Dichiarazione della Selva Lacandona è una specie di sintesi di questi diversi modi di pensare.
E' una dichiarazione di guerra, indica con chiarezza chi è il nemico: il sistema messicano del partito di Stato, rappresentato in quel momento da Salinas de Gortari. La prima Dichiarazione è incentrata sulla necessità di una transizione alla democrazia, come condizione indispensabile per veder soddisfatte le undici rivendicazioni intorno alle quali si articola l'appello, e che sono le stesse anche oggi. Gli undici punti sono: casa, terra, lavoro, pane, sanità, istruzione, indipendenza, libertà, giustizia, democrazia e, per finire, pace. La pace diverrà finalmente possibile quando saranno soddisfatti gli altri dieci punti. L'E.Z.L.N. è un esercito che dichiara fin dall'inizio di fare la guerra per ottenere una pace di altro tipo. Si appella ai poteri dell'Unione (in sostanza i deputati e i senatori di quel momento) perché assumano la guida di tale transizione, e chiede a tutte le forze sociali e politiche di lottare, ciascuna nel suo ambito, ciascuna al suo livello, per la transizione alla democrazia.
Quando l'E.Z.L.N. esce allo scoperto, è la prima Dichiarazione che consente di articolare le diverse idee, le diverse componenti interne, che continuano comunque a influire ciascuna a modo suo. Ovviamente l'E.Z.L.N. non chiede a nessuno di rinunciare al suo programma: dice solo che le proposte riguardanti il mondo, il sistema sociale o il regime devono essere discusse con tutta la società, non imposte con le armi. Non si tratta di rovesciare il regime e di imporre con le armi il socialismo, la dittatura del proletariato, o chissà che altro, bisogna invece che queste idee, o altre, possano confrontarsi in uno spazio politico nuovo, che per il momento non può esistere a causa del sistema del partito di Stato.
Prima del primo gennaio, nel '93, l'Esercito zapatista di liberazione nazionale deve prepararsi per passare all'offensiva, per uscire allo scoperto. Tutte le idee di cui ti parlo esistevano già, più o meno omogenee secondo le località, alcune predominavano in ambiente urbano, altre in montagna, altre nei villaggi. Era necessario farle confluire e sviluppare l'elemento sostanziale, l'identità dello zapatismo. Lo zapatismo non era marxismo-leninismo, ma era anche questo, non era marxismo universitario, non era marxismo di analisi concreta, non era storia del Messico, non era il pensiero indio millenarista e integralista, non era la resistenza india, ma era comunque anche tutto questo, era una miscela di tutti questi ingredienti, un cocktail preparato in montagna e cristallizzato nella forza combattente dell'E.Z.L.N., l'esercito regolare. L'esercito regolare, cioè gli insorti, noi, il maggiore Mario, il capitano Maribel, il maggiore Ana Marìa, quelli che sono vissuti sempre in montagna, è il prodotto finale di questo scontro di culture. E anche i compagni del Comitato di più antica data, come Tacho, David, Zevedeo, che sono nell'E.Z.L.N. da dieci, dodici anni, dall'inizio [55], e che sono diventati dirigenti del movimento grazie al loro lavoro, incominciano a formulare una propria definizione dello zapatismo. E' solo dal 1993 che nel discorso zapatista incomincia a prevalere l'elemento indio. Fino a quel momento, per esempio, preparavamo una spiegazione, poi veniva tradotta per le comunità. A partire dal '93, trattandosi di dirigere la guerra, il processo si inverte, sono le richieste indie a venire tradotte per l'esercito, il quale avrà il compito di parlare, di comparire in pubblico, di spiegare che cos'è l'E.Z.L.N. Nel frattempo avviene lo scontro del maggio '93 nella Sierra di Corralchén [56], che turba la preparazione della guerra e complica tutto, perciò nel gennaio del '94 il discorso zapatista è ancora molto vago. E' una prima sintesi generale, una miscela in cui coesistono valori patriottici, il retaggio storico della sinistra clandestina messicana degli anni Settanta, elementi della cultura india, elementi della storia militare del Messico, ciò che abbiamo appreso dai gruppi guerriglieri dell'America centrale e meridionale, dai movimenti di liberazione nazionale.
La prima Dichiarazione della Selva Lacandona riflette tutte queste cose. Insomma, c'è un gruppo di persone che hanno qualcosa in comune: rivendicano gli undici punti, sono d'accordo sul fatto che il nemico è il sistema del partito di Stato, e hanno deciso di fare la guerra per rovesciarlo. Tutte cose da non dimenticare.

N: La riunione di gennaio del '93 è stata molto importante. Penso che le decisioni prese dalla maggioranza india dell'organizzazione abbiano provocato discussioni, rotture...

M: Nel gennaio del '93 alcuni militanti hanno preso le distanze, dicevano che avremmo portato la gente alla sconfitta, al macello; secondo altri bisognava incrementare il lavoro per organizzare gli operai, e gli indios dovevano aspettare la crescita delle altre forze; altri ancora sostenevano che non avevamo l'infrastruttura nazionale per affrontare una guerra indicata come nazionale. La discussione è stata molto accesa, soprattutto nel momento in cui il resto dell'organizzazione si è reso conto che gli indios erano in maggioranza e avevano il potere. Nel momento in cui abbiamo deciso di rispettare una democrazia interna, la grande maggioranza dell'organizzazione ha acquisito d'un tratto un potere che non le era mai stato riconosciuto, la sua forza effettiva è diventata potere ufficiale, ed esso si è fatto sentire sul resto dell'organizzazione. Ora era la montagna, il Comitato clandestino rivoluzionario, a decidere l'attività da svolgere nelle città.
Tutta l'organizzazione subisce questo processo di trasformazione. Tutti devono sottostare agli interessi di una dirigenza india che ha la sua storia e il suo ordine di priorità. Per la nuova dirigenza la questione india è fondamentale, passa in primo piano, al punto da invalidare qualsiasi analisi internazionale, o persino qualsiasi analisi interna sul ritardo nelle città, l'assenza di partecipazione degli operai eccetera. La questione india diventa di primaria importanza e gli indios, che sono in maggioranza, impongono questo carattere nuovo, già chiaramente percettibile nei primi giorni di insurrezione, e che in seguito ha modellato tutto il discorso dello zapatismo. Intendo dire il sentimento indio che aspira immediatamente all'universale, a saltare direttamente dall'ambito locale, contadino, a una dimensione universale nel senso in cui la intendono gli indios, senza alcuna transizione nazionale o d'altro genere.

N: Però questo aspetto indio non appare molto chiaramente nella Dichiarazione.

M: No, perché il testo è il prodotto dell'accordo di minima emerso dallo scontro del '93. Dovevamo subire una specie di transizione interna: l'organizzazione politico-militare urbana perdeva potere a favore di un'organizzazione collettiva, democratica, india, pluralista. Dopo la decisione del gennaio del '93, in cui tutti i partiti sono arrivati a un accordo di minima, rispecchiato dalla prima Dichiarazione, c'è stato un processo d'adeguamento: a poco a poco i compagni del Comitato hanno assunto il controllo, sono diventati veramente i capi, ma per farlo ci è voluto del tempo.

- Un esercito indio?

Y: E' stato detto e ripetuto che in gennaio parlavate della questione india solo in modo strumentale, e anch'io lo pensavo all'epoca. E' stato il tema indio ad avere risonanza nazionale e anche internazionale, ad assumere una dimensione simbolica. Adesso capisco meglio che non ve ne stavate servendo, che veniva da lontano...

M: Per noi la prima Dichiarazione era molto chiara: «siamo il prodotto di cinquecento anni di lotta». Non c'era possibilità di dubbio. Ma mi ricordo la discussione del Comitato su questa dichiarazione, e come i compagni volevano soprattutto evitare che la nostra guerra fosse confusa con una guerra di indios: chi non era indio non doveva sentirsi escluso, il nostro appello doveva essere abbastanza ampio per comprendere tutti.

Y: Anche i comandanti, quelli di C.C.R.I., la pensavano così?

M: Certo. Secondo loro la nostra guerra rischiava di essere vista come una cosa esclusivamente india, mentre noi sapevamo di avere bisogno di una soluzione nazionale, una guerra nazionale. Dichiarando che provenivamo da cinquecento anni di lotta, ci richiamavamo alla tradizione della lotta india di resistenza, ma allargandola a tutti. Hanno sempre insistito molto su questo punto. Si inquietavano ogni volta che i nostri discorsi inclinavano più dalla parte degli indios: «Sta' attento, crederanno che il nostro sia un movimento locale, etnico». Inoltre, l'idea di una guerra a carattere etnico li faceva pensare a un passato di sconfitte, di lotte intestine feroci e cruente. Sono stati loro a esigere che nei testi cercassi una posizione intermedia: «Se insisti troppo sull'aspetto indio ci isoli, devi allargare il discorso. Se ci tieni a parlarne, prendi il lato universale, insisti sull'elemento inclusivo».
Bisogna ribadire che per dieci anni ci eravamo preparati a morire. A partire dal 2 gennaio ci siamo resi conto che non eravamo morti, che dovevamo vivere, e abbiamo incominciato a improvvisare. Le cose non andavano affatto secondo le previsioni, e quando parlo di previsioni parlo di un'organizzazione armata che prevede minuziosamente tutti i dettagli militari. Per il primo gennaio sapevamo esattamente quale unità sarebbe stata a quale crocevia, a che ora e che cosa avrebbe fatto. Ma dopo, niente. Niente. Non ci eravamo preparati a parlare. Comunque, riguardo alla storia del carattere indio della lotta, i più riluttanti a parlarne sono quelli del Comitato. E all'interno dell'E.Z.L.N. quelli degli Altos, che sono i più indios, i più vicini alle proprie radici: David, Ana Marìa; soprattutto loro mantengono le distanze, per esempio, dal Forum nazionale indio [57], temono più degli altri che l'E.Z.L.N. venga percepito come un movimento indio.

Y: Vuol dire che hanno questa prospettiva politica spiccatamente nazionale già dal '93, dal '94?

M: Alcuni membri del Comitato vengono dal gruppo politico indio che aveva già - da più di dieci anni - un obiettivo nazionale, lo stesso, distruggere il sistema del partito di Stato, creare un sistema politico democratico, libero, comprensivo eccetera eccetera.

Y: Ma quando tutta la comunità si mobilita, o quasi, come in questo caso, non è proprio il fatto di essere india a darle forza? E «messicani» non è il termine per indicare gli altri?

M: Dicono «cittadini», gente di città.

Y: Non è proprio l'esteriorità di quello che è «messicano» a consolidare la solidarietà india, e in certa misura la solidarietà maya? E' un esercito maya, no?

M: Sì, è vero. Nei fatti è così. Come faccio a spiegarti... esistono due livelli di discorso, da una parte un discorso interno di coesione, il concetto dello specchio: «Noi siamo noi, noi siamo degni, perciò ci battiamo», e dall'altra parte il discorso esterno, molto attento al problema, che cerca (ma non ci riesce sempre) di non escludere, di evitare che gli altri, soprattutto i messicani, ci guardino dall'esterno, di fare in modo che ci vedano dall'interno. Ma è vero che c'è molto spirito di corpo, il grande orgoglio di essere un esercito di indios, un esercito indio.

Y: Si considerano fratelli.

M: Sì, in fondo fra noi siamo fratelli, e gli altri sono gli altri, che siano greci, russi o messicani della capitale...

Y: Questo non ha alcun rapporto con le difficoltà degli zapatisti nel trovare reclute fra coloro che non sono indios? Parlo dell'Esercito zapatista, non del Fronte.

M: Certo. Il problema è che per fare quello che facevamo noi bisognava essere disperati. Nel 1994 i messicani in generale non avevano ancora vissuto direttamente, personalmente, la crisi politica ed economica. C'erano anche persone molto lucide, ma la maggioranza del paese vedeva il Chiapas come uno Stato a parte, un caso eccezionale... «Poveri indios, hanno ragione, per loro è intollerabile, ma io ho ancora dei canali politici, un tenore di vita brillante, o almeno promettente...» Nel '94 la crisi non era ancora scoppiata. Quanto al discorso zapatista, esso stava appena incominciando ad articolarsi. Si era concentrato innanzitutto sul punto fondamentale, la questione india. In realtà, nel '94, quello che funziona meglio e che ci aiuta di più a farci capire non sono i comunicati, e nemmeno le lettere o le storie di Marcos, è il lavoro dei giornalisti che vanno nelle comunità e mostrano che cosa c'è dietro ai passamontagna. Grazie a loro, la gente di fuori scopre come dietro all'Esercito zapatista ci siano comunità che vivono e si organizzano in un certo modo; capisce che si tratta di un altro mondo, con la propria organizzazione politica, la propria organizzazione sociale, un mondo che sopravvive resistendo. Per molti messicani è un colpo, si rendono conto che, all'insaputa di tutti, in un angolo del paese funziona un altro Stato. Uno Stato migliore di quello che loro subiscono.
Per tornare a quello che dicevi sul discorso indio, durante le discussioni sui primi comunicati, poi nel dialogo nella cattedrale, la preoccupazione principale del Comitato e dei delegati era di non permettere che il movimento fosse ridotto alla questione india. In realtà, avrebbero volentieri eliminato dal discorso zapatista qualsiasi riferimento indio.

- Finalmente esistiamo.
Y: Quali sono state le difficoltà maggiori che avete incontrato nei preparativi dell'insurrezione?

M: Dopo il 12 ottobre del '92, il secondo grande specchio per gli indios è il primo gennaio: essi si rendono conto che possono fare la guerra, dirigere un movimento da soli. Per tutto il '93 abbiamo continuato a chiederci se ci saremmo riusciti, quanta gente avremmo mobilitato. Naturalmente lo sapevamo che per le riunioni, le consultazioni nei villaggi la gente rispondeva, ma in questo caso si trattava di fare una guerra, di lasciare la propria comunità con il rischio di non tornare più. Per tutto il '93 siamo rimasti nel dubbio, in novembre e dicembre eravamo sui carboni ardenti. Abbiamo avuto delle certezze solo il primo gennaio alle quattro del pomeriggio, quando la guarnigione di Ocosingo si è arresa. E' il quarto capoluogo a cadere, dopo San Cristòbal, che avevamo preso all'una del mattino, Las Margaritas alle tre, Altamirano alle sei del mattino. Huixt n, Chanal, Oxchuc cadono al passaggio delle truppe che avanzano verso Rancho Nuevo per stringere la caserma in una morsa, e alla fine, alle quattro o alle cinque del pomeriggio, mi avvertono per radio che la guarnigione di Ocosingo si è arresa. Ci eravamo riusciti, avevamo centrato l'obiettivo. Ci eravamo fatti conoscere, finalmente esistevamo.

Y: Vorrei tornare un po' indietro. Lei ha parlato dello scontro di Corralchén, nel 1993, come di una rottura importante...

M: Per le comunità indie, per i combattenti zapatisti e la gente di città, questa battaglia d'un tratto ha reso reale la guerra. Fino a quel momento era soltanto qualcosa che stavamo preparando... Sapevamo che sarebbe scoppiata prima del 31 dicembre 1993 a mezzanotte, perché il Comitato, assumendo il comando, aveva stabilito questa data come termine ultimo. Le comunità ci avevano avvertiti che erano disposte a darci un anno, non di più, per incominciare la guerra, e che se non avessimo marciato con loro sarebbero avanzate da sole.
Stavamo preparando i piani d'attacco delle città quando si è verificato lo scontro di Corralchén. In un primo momento siamo stati costretti a rivedere da capo l'attacco di Ocosingo, perché l'esercito aveva trovato uno schizzo del palazzo municipale di Ocosingo, e quindi sapeva che avevamo intenzione di sferrare lì il nostro attacco; era un elemento nuovo da inserire nei nostri piani.
Ma la cosa più importante è che le nostre truppe affrontavano i soldati per la prima volta. Trovandosi davvero faccia a faccia con la guerra alcuni ci ripensano e decidono di ritirarsi. Anche un certo numero di ufficiali, e questo rovina i nostri piani. Del resto c'è chi se n'è andato addirittura il 31 dicembre! Tutto quello che è accaduto nel '93 ci diceva che era un'impresa folle, che bisognava rinunciare; fino al primo gennaio 1994 tutto era contro di noi. Fino alla vigilia dell'offensiva perdevamo combattenti, non trovavamo mezzi di trasporto, c'erano problemi in svariate comunità, e oltre a tutto, per complicare le cose, l'incidente di Corralchén. In un certo senso, però, esso ci è stato anche utile, abbiamo capito meglio su chi potevamo contare e abbiamo potuto precisare in anticipo certi piani. Questo ci ha consentito anche di ingannare i servizi di controspionaggio dell'esercito, fornendo loro, a partire dal 30 dicembre, indizi su un attacco a Ocosingo, come si aspettavano. Il nemico si è concentrato su Ocosingo, e noi abbiamo potuto schierare tranquillamente le nostre forze su Altamirano e San Cristòbal; abbiamo rimandato il più possibile l'attacco alla città, per far credere loro che se lì non succedeva niente, non succedeva niente da nessuna parte, e abbiamo attaccato Ocosingo solo dopo la caduta delle altre città.

Y: Come spiega che il governo, sapendo tutto quello che sapeva, non abbia preso misure difensive e non abbia reagito più in fretta?

M: Un errore di valutazione. Da una parte, erano convinti come noi che fosse impossibile per un movimento di guerriglia avere successo; in seguito pensavano a un gruppo di guerriglieri, non a un esercito numeroso; e dato che nella Selva c'erano problemi riguardo alla terra, secondo loro le voci di mobilitazione che arrivavano dovevano annunciare un'occupazione del palazzo municipale come ne accadevano regolarmente, ma questa volta in grande stile. Il 30 dicembre, quando abbiamo incominciato a requisire veicoli, alcuni passeggeri sono scappati e hanno raccontato di essere stati intercettati da gente armata, incappucciata, in uniforme marrone e nera. Il generale Godìnez Bravo, che era il comandante della settima regione militare, si è recato a Ocosingo, ha analizzato la situazione e ha concluso che probabilmente si stava preparando un'occupazione di terre o del municipio da parte di un gruppo paramilitare o di un gruppo di contadini armati, armati male, del resto, perché abbiamo fatto vedere soltanto dei «22 long rifle» o dei vecchi fucili da caccia. Nulla lasciava immaginare un movimento di questa consistenza. Avevamo infiltrato dei soldati nell'esercito federale e quando la guerra stava per cominciare abbiamo detto loro di venire via; ci hanno spiegato come dopo la battaglia di Corralchén l'esercito era giunto alla conclusione che evidentemente c'era un gruppo di guerriglieri, e aveva stabilito una strategia per eliminarli: circondarli, catturarli, e farli passare per «narcoguerriglieri». La situazione stava in questi termini, quando è arrivato un ordine dall'alto: proibito muoversi prima di gennaio. Cioè prima dell'entrata in vigore del Trattato di libero commercio. Perciò sapevamo che stavano preparando un'offensiva contro i guerriglieri, nella Selva, fra il 6 e il 10 gennaio, contro un gruppo che in base alle loro supposizioni doveva essere composto da quaranta-sessanta uomini. L'abbiamo saputo alla fine di dicembre, fra il 25 e il 28, e abbiamo deciso che dovevamo attaccare, ma in fretta, altrimenti saremmo stati costretti a batterci nelle nostre zone. Dal punto di vista militare, il primo gennaio il dado era tratto.

- La congiuntura politica.

Y: La congiuntura politica ha influito sulla vostra decisione? Il T.L.C., il sessennato in dirittura d'arrivo, la designazione del candidato ufficiale alla presidenza, un momento in cui il governo era fragile dal punto di vista politico...

M: A cose fatte abbiamo capito che era fragile, lì per lì invece aveva un aspetto molto solido. Il candidato, Colosio [58], non sembrava porre alcun problema, aveva l'appoggio del presidente, Salinas era l'uomo forte del paese, teneva in mano tutte le fila. Nel '93 il regime appariva perfettamente compatto e omogeneo, era una delle argomentazioni avanzate nel corso del dibattito sulla guerra... ma i compagni, comunque, volevano tentare. Abbiamo pensato che avremmo dovuto cercare di resistere fino alle elezioni: usciamo e ci crolla il mondo addosso. Cerchiamo di tenere duro combattendo fino ad agosto, e allora sarebbero stati costretti a fare una tregua, a intavolare il dialogo o un negoziato in modo che le elezioni potessero svolgersi normalmente. Sapevamo che il principale partito di sinistra all'opposizione, il P.R.D., non aveva grandi prospettive per il '94. Usciva dal fallimento del '91 e si aspettava una dura sconfitta elettorale, la vittoria certa del P.R.I. e uno scontro accanito con il PAN [59] per il secondo posto.
Nelle nostre analisi interne, avevamo esaminato con i compagni del Comitato la possibilità che potesse trattarsi di una messa in scena, e che in realtà magari Salinas non fosse così saldo come si diceva. Ritenevamo che Salinas, adottando il progetto neoliberista, e inserendo il Messico a ritmo forzato nel mercato mondiale, avesse certamente danneggiato gli interessi di altri gruppi di potere ancorati a progetti storici diversi all'interno del regime. Questo poteva aver provocato rancori nella classe politica, e in tal caso forse un movimento di ribellione contro Salinas de Gortari non avrebbe provocato un rifiuto unanime. Ma si trattava soltanto di un'ipotesi, avanzata senza pensarci troppo. La prospettiva seria era che noi dovevamo dichiarare la guerra: ci avrebbero annientati, ma il nostro gesto avrebbe attirato l'attenzione sul problema indio, provocando una scossa grazie alla quale il regime e il mondo sarebbero stati costretti a puntare gli occhi su di noi.
Pensavamo che la strategia di Salinas si basasse su una campagna pubblicitaria all'estero per promuovere l'immagine di un paese stabile, un buon prodotto sul mercato. Se fossimo riusciti a vanificare tale campagna avremmo ottenuto due cose: innanzitutto rivelare la verità, che cosa significava in realtà il progetto economico per una parte del paese, gli indios; e in secondo luogo obbligare il Messico a guardare la sua componente india, a vedere quella parte di sé dimenticata. Era una guerra contro l'oblio. Al di là di questo non vedevamo alcun avvenire, né militare né politico. Era una guerra disperata, lo sapevamo, dovevamo per lo meno cercare che fosse quanto più utile possibile per la gente di fronte a cui ci sentivamo responsabili: le comunità indie.

- Il prezzo del sangue indio (i combattimenti di gennaio).
Y: Non avevate pensato che la vostra azione potesse attirare la guerra sulle comunità?

M: Proprio per questo dovevamo colpire molto forte subito, attirare l'attenzione, per ottenere che costasse loro molto caro attaccare la popolazione civile. Prevedevamo una classica reazione antinsurrezionale: braccare il gruppo armato, neutralizzarlo, riprendere il controllo della loro base popolare e riconquistarla. Pensavamo che avrebbero seguito il modello del Vietnam nei territori non occupati, «la guerra delle teste e dei cuori». Ma se riuscivamo a fare abbastanza rumore abbastanza in fretta, sarebbe stato più difficile annientare o attaccare le comunità.
Comunque, i villaggi erano pronti a ritirarsi, a resistere, e contavano che un primo successo militare della nostra offensiva avrebbe impedito al governo di massacrarli impunemente. Si trattava di far salire il prezzo del sangue indio.

Y: Soprattutto facendo appello all'opinione pubblica nazionale e internazionale?

M: Sì, che si dicesse pure che il paese stava assassinando gli indios. Volevamo quotare in Borsa il sangue indio... Per farlo avevamo bisogno di un po' di tempo, le comunità dovevano resistere il tempo necessario perché l'opinione pubblica cominciasse a reagire e obbligasse il governo a preoccuparsi della popolazione civile. Sapevamo che avrebbero attaccato in forza gli zapatisti, i combattenti, come poi è accaduto effettivamente in gennaio.

N: Non avevate sognato anche che di fronte all'esempio del primo gennaio tutto il Messico sarebbe insorto con voi?

M: Era una speranza, un sogno celato in fondo ai nostri cuori, ma non esisteva nulla che lo giustificasse. Una parte di noi sperava contro tutte le apparenze che la gente sarebbe insorta insieme con noi; non solo gli indios, ma anche studenti, operai, insegnanti, impiegati, e non soltanto nel Chiapas, ma in tutto il Messico, e che si sarebbero lanciati fianco a fianco all'attacco del regime. Ma non ci credevamo sul serio.

Y: In altre parole, quando dichiaravate che avreste marciato su Città del Messico era più una speranza che una strategia.

M: No, era una strategia. Aspetta, ora capisci, ti faccio un disegno: lì c'è il Chiapas, qui la Selva; a est la frontiera e il Guatemala, a nord il Tabasco e più su Veracruz, a ovest lo Stato di Oaxaca... La nostra idea era di cominciare sferrando un bel colpo per farci conoscere, e poi di avanzare il più possibile. Bisognava portare la guerra il più lontano possibile dalle zone zapatiste, concentrate nella Selva Lacandona, nel Chiapas settentrionale e negli Altos, per dare il tempo alle comunità di organizzare la resistenza. Prendere innanzitutto le città e da lì marciare sulla capitale. Sapendo che per strada ci avrebbero eliminati, ma che comunque in questo modo la guerra si sarebbe allontanata dalle comunità.
Del resto la storia non è finita, vedrai, arriveremo a Città del Messico, non abbiamo rinunciato all'idea. Ma la strategia era quella che ti ho appena descritta, guarda, quando è arrivato il cessate il fuoco stavamo incominciando a schierarci per marciare su Tuxtla, il Tabasco, Oaxaca e Veracruz.

Y: Il 12 gennaio, ma voi avete incominciato prima a battere la ritirata...

M: Le unità incaricate di proteggere i villaggi ripiegavano, ma una parte consistente dei guerriglieri si teneva pronta ad avanzare, eravamo in procinto di conquistare i paesi degli Altos, del nord del Chiapas, e di marciare sul Tabasco. Un'altra colonna, quella di San Cristòbal, marciava su Tuxtla e di là sarebbe avanzata verso La Ventosa, Oaxaca e...

Y: Ma che cosa è successo il 2 e il 3 gennaio? Qualcosa vi ha fatto cambiare i piani, ordinare la ritirata? Per esempio, perché non avete preso Comit n, dopo Las Margaritas?

M: Nel caso di Comit n, la colonna che avanzava sulla città durante la conquista di Las Margaritas ha perso un ufficiale di primaria importanza. L'ufficiale doveva dirigere l'avanzata della colonna, e quando cade è l'ufficiale incaricato della protezione delle comunità a prenderne il posto. Prosegue verso Comit n, ma io mi rendo conto che i villaggi rimarranno scoperti, e per radio gli ordino di fare dietrofront. Erano a quattro chilometri appena, si vedevano già le luci della città. La colonna fa dietrofront, ma le altre unità hanno incominciato ad avanzare verso Tuxtla e in direzione nord, verso il Tabasco. Poi l'esercito si mette a bombardare i villaggi a sud di San Cristòbal, il 3, 4, 5 e 6 gennaio; in quel momento abbiamo abbattuto tre elicotteri e tre aerei in montagna; l'unità incaricata di attaccare la caserma di Rancho Nuevo, che doveva soltanto bloccare la guarnigione, tenerla impegnata per obbligare i soldati a difendersi e impedire loro di uscire, è costretta a ritirarsi per andare a coprire le comunità, a proteggerle.
Questa manovra rallenta la colonna che deve marciare su Tuxtla, verso i grandi sbarramenti idroelettrici nella zona centrale dello Stato. La colonna che marcia verso il Tabasco incomincia ad avanzare al ritmo previsto, l'altra è un po' in ritardo, ma riesce a mettersi in moto dopo il 6, dopo aver abbattuto gli aerei. L'esercito sferra l'offensiva in montagna, ma l'unità che ha attaccato Rancho Nuevo riesce ancora a contenerla, e abbiamo dei problemi con l'unità che ha preso Ocosingo.

Y: Già, che cosa è successo?

M: Il primo gennaio, a mezzanotte, do l'ordine a tutte le unità di abbandonare le posizioni occupate prima dell'alba del 2. Una parte della guarnigione di Ocosingo sarebbe partita verso nord, e l'altra doveva tornare nella Selva a proteggere i villaggi. Ma l'ordine viene eseguito solo in parte, uno dei battaglioni che dovevano ritirarsi nella foresta, quello del maggiore Mario, acquista ritardo, resta sulla piazza del mercato in attesa dei veicoli necessari per trasportare i combattenti. Prima che possano partire, il 2, sono attaccati da un'unità di paracadutisti che tagliano loro la via di fuga. Una colonna motorizzata dell'esercito arriva allora dalla strada di Palenque. Ci sono stati errori militari nella difesa delle vie d'accesso, ma il problema principale è che il 2 gennaio l'unità doveva essere già partita.
Dunque, il 2, so dalla radio che un'unità completa, un battaglione intero, è stato annientato a Ocosingo. Si parla di molte centinaia di morti.

Y: Molte centinaia?

M: I primi giorni credevamo di sì. Significava che la forza destinata a difendere la Selva era indebolita, e pure la colonna che avanzava verso nord: una parte di questa colonna torna indietro per accorrere in aiuto di quelli di Ocosingo. Poi alcuni riescono a sfuggire alla trappola, e ci dicono che il battaglione resiste, che non è stato annientato. Grazie a un'azione eroica, i nostri scappano da Ocosingo e le perdite, alla fine, non superano i quaranta-cinquanta combattenti. L'esercito ha ucciso molti civili, anche se i nostri erano in uniforme: i soldati tiravano su qualsiasi cosa si muovesse.

Y: Come ha fatto l'esercito a entrare tanto facilmente da Palenque?

M: Tutte le uscite erano protette, guarda, ci sono tre vie d'accesso a Ocosingo, la strada di San Cristòbal, quella della Selva, controllata dal distaccamento che doveva ritirarsi per difendere i villaggi, e a nord la strada di Palenque. Ma il mattino del 2 incominciamo a ritirarci. E' l'unità destinata a marciare verso il Tabasco ad avere l'incarico di bloccare la strada di Palenque. Non fanno saltare il ponte, si accontentano di sorvegliarlo, poi se ne vanno, convinti che tutti abbiano lasciato Ocosingo, che la linea di difesa si sia spostata verso la Selva. Il battaglione che si trova in piazza resta solo, e i militari entrano senza alcun problema. Avrebbero dovuto essere almeno ostacolati all'altezza del ponte, ma l'unità che lo controllava ha pensato che se ne fossero andati tutti e non l'ha fatto saltare.

Y: Non capisco molto bene. A quanto ha detto, pensavate che ci sarebbero stati molti morti, ma avete cercato di fare di tutto perché non ce ne fosse nemmeno uno.

M: Il piano era fatto perché uscissimo illesi dalla prima azione, calcolavamo che l'inferno ci sarebbe caduto addosso dopo.

Y: Sulle comunità?

M: No, su di noi. Se aggredivano le comunità, avremmo dovuto attaccare altrove, per attirarli su di noi e obbligarli a uscire dalla Selva. Era tutto organizzato perché ci fossero meno perdite possibili, c'era una linea di retroguardia per evacuare i morti e i feriti. A Ocosingo i soldati erano furenti, avevano appena dieci o dodici zapatisti morti da mostrare ai fotografi, in tutto quell'attacco a sorpresa non dovevano esserci perdite, o il meno possibile, soltanto in seguito ci sarebbe stata...

Y: ... l'azione suicida.

M: Sì, per impedire all'esercito di entrare nei villaggi, o almeno per ritardarne l'arrivo.

- Maggiore Moisés: la scelta delle armi.

Y: Come vi siete procurati le armi? Maggiore Moisés: I compagni le hanno pagate con il loro lavoro. Vendevano il caffè, un paio di animali, e mettevano qualcosa da parte per le armi. Le compravamo addirittura dai poliziotti. Così, a poco a poco, abbiamo formato le unità, l'esercito. Insegnavamo loro che nella guerra ci sono delle leggi da rispettare, la Convenzione di Ginevra. Andando avanti, abbiamo capito che dovevano assumere loro il comando, decidere come continuare la lotta. Perché quando siamo diventati di più, era molto difficile mantenere il controllo, alcuni non ce la facevano, rischiavamo che andassero a dire ai militari che cosa accadeva qui. Il solo modo era che il controllo provenisse dal popolo, organizzato e armato. Siamo arrivati a una fase, una situazione molto difficile, quando Salinas ha incominciato a parlare dell'Accordo di libero scambio, dell'articolo 27, della privatizzazione dell'"ejido", delle imprese, del cambio delle banconote. I compagni ci spiegavano che cosa significava per il nostro paese, soprattutto per i contadini, che l'articolo 27 avrebbe creato una situazione analoga a quella esistente sotto Porfirio Dìaz. La gente ha incominciato a dire no, adesso basta. Bisogna dichiarare loro guerra. Abbiamo chiesto a tutti, e la decisione è stata questa. Perciò c'è stato un primo gennaio 1994.

Y: Quando avete deciso di insorgere?

M.M.: Nel 1993. Quando abbiamo incominciato a spiegare in tutte le comunità zapatiste quello che ti ho appena detto. La gente capiva che se volevamo lottare, soprattutto per la terra, era giunto il momento.

Y: Che cosa è accaduto con chi non accettava la decisione, chi era contrario all'insurrezione, nel '93?

M.M.: Abbiamo consultato quelli che erano realmente in lotta, gli zapatisti. Non chiedevamo il parere di chi era uscito dall'organizzazione. Lo sapevano ma non potevano impedirlo. Era una decisione delle comunità, e in pratica tutta la Selva era già nell'organizzazione. Il comune di Ocosingo, il comune di Las Margaritas. Non potevano fare niente. Certo, denunce ce ne sono state, ma il governo non ci credeva.

Y: Non le prendeva sul serio?

M.M.: No. Minacciava di mandare i soldati, ma niente di più. Anche dopo lo scontro di Corralchén, diceva che non era nulla, soltanto un gruppo di guatemaltechi. Per questo il primo gennaio abbiamo scritto: «Godìnez dice che non c'è un movimento di guerriglia!». Perché, in effetti, Patrocinio [60] sosteneva che non c'era nulla.

Y: A quell'epoca sono state espulse delle persone dai villaggi della Selva?

M.M.: No, se ne andavano perché non volevano obbedire alla maggioranza. La maggioranza aveva detto "­ya basta!", adesso basta, e quando la maggioranza decide una cosa, noi la facciamo. Abbiamo spiegato loro: «Comunque non c'è altro mezzo. Lo vedete che abbiamo provato di tutto, le organizzazioni legali, pacifiche, tutto. Se non volete, pazienza». Quando è arrivato il gran giorno, il primo gennaio, lo sapevano. Hanno incominciato a rendersene conto nel momento in cui è partita la mobilitazione in grande, ma non potevano farci nulla. Hanno pensato: ci siamo! Non mentivano, quelli! E molti se ne sono andati, a Comit n, a Las Margaritas, a Ocosingo. Per paura di ciò che sarebbe successo.

Y: Poi alcuni sono tornati?

M.M.: Sì, sì.

N: Come è avvenuta la reintegrazione?

M.M.: Dopo aver concluso la ritirata, abbiamo dovuto riunire tutti i compagni, tutti i rappresentanti delle comunità per vedere che cosa fare. Ci hanno detto che era necessario mettersi d'accordo: innanzitutto bisogna capire che i fratelli andati via per la maggior parte sapevano dell'esistenza di un movimento di guerriglia e non erano mai stati d'accordo; avevano paura, perciò se n'erano andati. Allora abbiamo stabilito di sorvegliare i loro beni, le bestie, e se fossero tornati avremmo chiesto loro di restituirci quanto avevamo speso per accudirle e per il resto: «Abbiamo speso tot, sta a voi decidere che cosa fare». E se tornano, spieghiamo loro che non vogliamo litigare fra di noi, che il nemico è laggiù, e li invitiamo a restare qui, a lavorare qui. Se vogliono partecipare alla lotta, bene, se no fa lo stesso. E' così che sono tornati. Molti gruppi che sono tornati sapevano di questo patto.

Y: Ma alcuni sono tornati anche nel febbraio del '95 o dopo, insieme all'esercito, è vero?

M.M.: Sono tornati quasi tutti in quel momento, perché pensavano che li avremmo cacciati, uccisi... Ma prima erano già rientrati in parecchi. Come spiegarti... molti hanno degli zapatisti in famiglia. Quando ci siamo messi d'accordo con i rappresentati dei villaggi, questi ultimi hanno fatto dire alle loro famiglie che non c'erano problemi. Sono tornati. Non si fidavano più di quelli che restavano laggiù, perché erano stati loro a dire che gli zapatisti erano degli stronzi, che li avrebbero ammazzati, che non li rispettavano. Quando si sono resi conto di come andavano le cose, dicevano che era tutta colpa di chi li aveva mal consigliati, e quelli lì non ritornano.

Y: Ne restano ancora molti che non sono tornati?

M.M.: No, pochissimi. Nell'unità che controllo io, cinque o sei. E altri che hanno deciso di restare in città. Ma se volessero potrebbero tornare.

N: Vi eravate preparati per una guerra. Nei primi comunicati dicevate: «Andiamo fino a Città del Messico». Qualche giorno dopo, la strategia è cambiata; che cosa è successo? E' cambiato anche il linguaggio dei comunicati.

M.M.: Senti, noi per anni ci siamo preparati sul piano militare. In questo ambito, secondo noi, siamo avvantaggiati, è la cosa che ci riesce più facile. Lo dice anche il generale dell'esercito federale: «Qui gli zapatisti hanno la meglio, conoscono il terreno come il palmo della loro mano». E' la verità. E' un buon generale, si vede che riflette sul modo di guidare i suoi combattenti. Era l'idea che avevamo in testa a quell'epoca... combattere e combattere. Con la speranza che si unissero a noi anche altri fratelli, perché facciamo una vita impossibile!

N: Vi consideravate l'avanguardia?

M.M.: No, non è questo, ma piuttosto il fatto che nel nostro paese la situazione era veramente terribile. Il Trattato di libero commercio, l'articolo 27, la privatizzazione dell'"ejido" e delle imprese, tutto. Pensavamo che altri magari sarebbero insorti. Ma mentre eravamo nel pieno della battaglia abbiamo incominciato a ricevere notizie secondo cui la gente protestava perché voleva che la guerra cessasse. Abbiamo dovuto ammettere che si trattava della società civile, ed essa chiedeva esattamente questo. E' uno dei motivi che ci hanno fermati; abbiamo pensato: che cosa succede? Non ci vogliono? Non vedono che ci battiamo per loro? Bisogna parlare fra noi. Abbiamo capito subito di essere in debito verso di loro. Il debito che avevamo con il popolo del Messico consisteva nel fatto che esso non sapeva chi fossimo, che cosa chiedessimo, che cosa volessimo. Avevamo pubblicato la nostra dichiarazione di guerra, la prima Dichiarazione, ma non era facile diffonderla su tutto il territorio messicano. Proprio questo ci ha fatto decidere di fermarci. Aspettando di sapere diffusamente che cosa stava accadendo in realtà. Abbiamo capito che dovevamo parlare con la gente, spiegarle che cosa vogliamo. In quel momento c'è stato l'attacco sui giornali, sulle riviste, abbiamo saputo che ci trattavano da banditi, da ladri di vacche, da bugiardi, dicevano che ingannavamo i contadini, gli indios, che li manipolavamo, che eravamo salvadoregni, guatemaltechi, russi o chissà che altro. Abbiamo pensato che dovevamo parlare con il popolo messicano, fargli conoscere la verità. Per questo abbiamo tentato di fare la Convenzione nazionale democratica. Perché in realtà noi non vogliamo la guerra. Il governo ha bisogno di qualcuno che gli ricordi i suoi obblighi. E' suo dovere dare un lavoro dignitoso al popolo messicano. E' suo dovere dare una buona istruzione ai compatrioti, fornire loro un buon sistema sanitario. Perché dobbiamo dare il nostro sangue e la vita solo per dire: «Senti, signor Salinas, signor Zedillo, questo è un tuo dovere!»? A quanto si dice sono andati a imparare a governare chissà dove, ma che cosa è servito studiare tanto, se hanno bisogno di un gruppo di indios per farsi insegnare il loro dovere? Non vogliamo la guerra. Ma se non ci trattano come esseri umani, noi l'abbiamo capito, noi, che la nostra dignità è quello che siamo, quello che ci è dovuto, quello che è nostro. Se non lottiamo per questo, nessuno lo farà per noi. Perciò diciamo che se non ci vogliono rispondere, se dobbiamo dare la vita, lo faremo.

Y: Come spiega l'attacco della caserma di Rancho Nuevo? Qual era l'obiettivo?

M.M.: L'obiettivo era... procurarsi le armi, avevamo bisogno di armamenti. E poi, dimostrare chi protegge gli interessi dei ricchi: l'esercito. Per la ritirata, noi, essendo un esercito, essendo soldati, dovevamo obbedire agli ordini. Gli ordini non si discutono, si eseguono, senza ombra di democrazia. E' un esercito, è così. Stavo preparando la conquista di Comit n, ci eravamo quasi. L'operatore radio viene a dirmi: «Ci sono ordini». Stavo dando le ultime disposizioni, mancava solo il segnale d'attacco. E arrivano gli ordini. Era il 3. Ho dovuto trasmettere gli ordini che avevo ricevuto. A Ocosingo è successo che il messaggio non è arrivato abbastanza in fretta. Hanno ritardato. Per questo motivo c'è stata la sorpresa.

Y: A Ocosingo ci sono stati molti morti...

M.M.: Sono stati uccisi molti fratelli civili...

Y: Ma anche...

M.M.: Sono caduti anche dei combattenti, certo...

Y: Pensavate che avreste potuto essere annientati, che avrebbe potuto essere più cruento di quanto è stato in realtà?

M.M.: Ne eravamo sicuri. I nostri nemici sono i più forti. Hanno la forza delle armi. Ma non quella della dignità, perché da loro soffrono soltanto i soldati, non quelli che danno gli ordini. I soldati non sanno perché si battono, sono contenti quando si riempiono le tasche. Ma quando capiranno che il denaro di cui hanno piene le tasche non servirà loro a nulla, che alla fine forse sarò io, combattente del popolo, a tenermelo, capiranno di sacrificare la vita per denaro. Non hanno un'etica di combattimento, non hanno coscienza, non hanno una ragione per battersi.

Y: Ma hanno le armi.

M.M.: Può darsi, però, al punto in cui siamo adesso, forse i nostri fucili sono meno potenti, ma hanno la stessa efficacia di tutte le loro armi.

N: Conoscendo la situazione dei soldati, per la maggior parte indios, avete cercato di parlare con loro, di spiegare loro la vostra lotta?

M.M.: Certo. Non i combattenti, non possiamo, ma la gente dei villaggi lo fa. Quando le donne sono andate al loro corteo, l'8 marzo, sono passate a trovare i soldati dove stavano. Hanno detto loro: «Fareste meglio a tornarvene a casa, dai vostri genitori, anche voi avete moglie, figli. Io ho un nipote, un figlio, un cugino che è lontano, che è stato costretto a partire, come te. Forse sei tu quel soldato. Rendetevi conto che ci battiamo anche per voi, non vi lasciate ingannare così, al punto da difendere persone che non hanno niente a che vedere con noi. Sono loro che ci sfruttano, da 503 anni».

N: Ha funzionato? Ci sono stati disertori?

M.M.: Certo. Alcuni soldati ci hanno addirittura fatto sapere che gli ufficiali fino al grado di sottotenente non li obbligavano ad andare in montagna: erano quelli con gradi superiori. Dicevano: «Se prendete un sottotenente, sappiate che non ci obbliga, ma se prendete un capitano, quello sì». Quasi come a dirci: se prendete un capitano ammazzatelo. Ma noi le conosciamo le leggi di guerra.

Y: Ha parlato dei guatemaltechi. Qui c'erano molti rifugiati, in che rapporti eravate durante gli anni di preparazione?

M.M.: Nessuno di loro ha chiesto di entrare. Si tenevano in disparte, forse non volevano neanche sapere che c'era un altro gruppo di guerriglieri qui. Non abbiamo mai avuto problemi con i nostri fratelli guatemaltechi.

Y: Non scambiavate opinioni sul modo di fare la guerra?

M.M.: No, no.

Y: Ma voi lo sapevate che cosa era successo in Guatemala?

M.M.: Sì, sapevamo come si comportavano i compagni e anche il nemico, come entrava nei villaggi e si dava al massacro.

Y: Non avevate paura che succedesse lo stesso anche qui?

M.M.: Non a noi, eravamo armati. A quelli dei villaggi, che rischiavano, lo spiegavamo, ma ci rispondevano che erano combattenti del popolo, che morivano già di diarrea, di febbre, di vomito, di parassiti, tanto valeva morire combattendo. Quando i compagni ci hanno risposto così, abbiamo pensato che avessero deciso.

Y: Che cosa avreste fatto se il governo messicano avesse agito con la stessa ferocia del governo guatemalteco?

M.M.: Avremmo fatto il nostro dovere: combattere, combattere combattere. E chi vivrà vedrà.

- Comandante Tacho: «Siamo insorti per avere una vita dignitosa».
Comandante Tacho: Volevamo incontrare la gente, come quando siamo andati a San Cristòbal, a San Andrés, e molti gruppi venivano a trovarci; volevamo spiegare loro le nostre ragioni, perché eravamo stati costretti a sollevarci in armi. Siamo insorti per vivere, semplicemente... per avere una vita dignitosa. E loro di sicuro pensavano che fossimo quel che diceva il governo, un gruppo di «trasgressori».

Y: Eppure, all'inizio, parlavate anche di prendere il potere, parlavate di socialismo, no?

T: All'inizio sì. In realtà avevamo incominciato a cambiare. Dovevamo cercare un sistema. Se la via delle armi è servita anche soltanto a fare in modo che ci ascoltassero, benissimo. E se abbiamo potuto prendere noi la parola quando le armi hanno finito di parlare, di nuovo benissimo. Abbiamo capito che si doveva fare la Convenzione nazionale democratica affinché almeno ci ascoltassero. Cercavamo, avevamo imboccato una strada, ma vedevamo che non era più quella adatta. Abbiamo continuato in un altro modo. Non abbiamo deviato, abbiamo fatto i cambiamenti via via necessari.

N: Con questi cambiamenti si sono modificati anche il vostro modo di pensare, la vostra ideologia?

T: Sì. Ogni giorno facciamo un sogno, e per ogni sogno nuovo studiamo come sia possibile realizzarlo. Non abbiamo soltanto un sogno. Un sogno solo ci avrebbe indotti a tentare unicamente la via delle armi. Ma non è stato così, quella era soltanto una parte, uno dei sogni. Gli altri sogni sono venuti a mano a mano che li sognavamo.

Y: Quali altri sogni avete fatto?

T: C'è stato un secondo sogno, dopo l'insurrezione: creare il primo Aguascalientes. Abbiamo realizzato una pazzia, abbiamo teso un telone incredibile da una collina all'altra, dopo tutto è scomparso come un sogno [61]. Non era previsto, e poi si è presentata la possibilità. Ci siamo mossi immediatamente. Quindi, un giorno, ci siamo messi a sognare che bisognava organizzare un incontro continentale americano, e si è realizzato anche questo sogno. Abbiamo sognato delle cose... sognato... sognato... e i sogni si realizzano. Abbiamo sognato che si doveva organizzare un incontro intercontinentale, e siamo riusciti a realizzare anche quello. Cose che non si vedevano nel primo sogno, quello delle armi. Certo, in un primo momento avevamo pensato che un giorno o l'altro avremmo dovuto parlare con gli intellettuali, gli operai, i maestri, gli studenti, le madri di famiglia, i contadini, e che ci saremmo uniti con altri indios, ma non sapevamo quando, se sarebbe accaduto a breve o a lungo termine. E siamo riusciti a farlo, servendoci di queste forme. Diciamo che lo faremo, e lo facciamo. Quando stabiliamo di fare qualcosa, lo facciamo. Talvolta lo diciamo anche noi che facciamo molte pazzie. Per essere pazzi, siamo veramente pazzi. Pazzi furiosi.

N: Anche il linguaggio è cambiato, prima era una lingua un po' stereotipata, il socialismo, la dittatura del proletariato, la rivoluzione armata, ora parlate di democrazia, di giustizia, dell'essere umano, non è un tradimento ma un grande cambiamento sì, non le pare?

T: Cambiamo perché capiamo di che cosa c'è bisogno. Tutti i sogni che abbiamo fatto erano necessari. Non sono sogni diversi da quelli che avevamo quando abbiamo incominciato, ne fanno parte. Per esempio l'idea di marciare su Città del Messico. Che cos'è? Una missione che stiamo per realizzare [62].

Y: Non esattamente come l'avevate sognata...

T: Non nella stessa forma. Forse ci arriveremo senza le armi. Ci arriveremo come persone, con le nostre parole vere. Per esempio, andremo per dire: «Fratelli, la nostra missione è compiuta». Ci adattiamo alla situazione, secondo le esigenze. A volte passiamo momenti difficili. Siamo stati chiari fin dall'inizio della lotta. I nostri compagni, da diversi anni, dicono con estrema chiarezza che la lotta sarà molto lunga, molto difficile. Ma è giusta. Lunga, difficile, ma giusta. Necessaria. Perciò dobbiamo abbinare tutte queste forme di lotta. Se scegliamo la via pacifica, coraggio allora! Incontri, dialoghi, e cerchiamo il sistema per fare una politica nuova. Gli incontri di Aguascalientes, per esempio, li rendiamo allegri, è un modo di fare politica, un modo nuovo. A volte ci vogliono le armi, benissimo, le abbiamo, è una garanzia, non siamo contrari. Ma se esiste un sistema diverso lo seguiamo. Ci inchiniamo alla società civile, sia nazionale sia internazionale. Bisogna dimostrarle che siamo sinceri, che la rispettiamo. Se non otterremo risultati le diremo che a sua volta ci ascolti, che giudichi e dica se abbiamo ragione e che cosa possiamo fare d'altro. Dobbiamo cercare il momento buono, secondo le esigenze. Lo zapatismo lo creiamo così, a poco a poco.

Y: E' questo che fate, create lo zapatismo...

T: Già, lo si crea a poco a poco.

Y: Qualcuno pensa che lo zapatismo sia cambiato solo a parole, che in realtà voi continuiate a puntare sugli stessi obiettivi, che crediate agli stessi principi dell'inizio...

N: Conquistare il potere con le armi, per dirla chiaramente...

Y: Qualcuno afferma che i vostri discorsi non sono sinceri.

T: Si rendono conto che la politica dello zapatismo è esattamente come stavo dicendo, un modo nuovo di fare le cose, e che ha assunto un ruolo di primaria importanza nella vita politica nazionale e internazionale. Per questo dicono che non la pensiamo realmente così, che abbiamo un'altra logica. Noi invece parliamo sul serio. Siamo seri quando diciamo che se vogliono trovare una soluzione giusta e dignitosa, d'accordo! Siamo disposti a firmare la pace, ma una pace giusta, decorosa. Non la pace del silenzio, della morte, della povertà di sempre, e nemmeno la pace dell'astuzia, della menzogna. Una pace giusta e decorosa, soprattutto per i nostri compagni dei villaggi e per tutti i messicani, e se fosse possibile anche a livello internazionale, sì. Per avere la pace non basta dire di smetterla con la guerra. Non significa niente. Bisogna risolvere i problemi, perché non ci sia più ragione di combattere. Per noi la pace significa: le richieste del popolo messicano sono soddisfatte.

Y: Quali sono i vostri sogni attuali, a livello regionale, per il Chiapas?

T: Per il momento aspettiamo di vedere che cosa hanno sognato i nostri compagni, tocca a loro sognare adesso [63].

N: Tornando al cambiamento di cui parlavamo, ho una piccola domanda. Quando avete ricevuto la notizia della caduta del muro di Berlino, si ricorda quello che ha pensato lei, personalmente?

T: No. Alcune persone che conoscevano il nostro movimento hanno cercato di farci paura, di dirci che non era più possibile lottare. Noi rispondevamo che era possibile: ci voleva una lotta giusta, una guerra giusta, che valesse la pena. Bisognava fare qualcosa di nuovo, non copiare le tradizioni altrui.
Il muro di Berlino era caduto, una grande potenza mondiale. In parecchi ci dicevano: siete matti! Come pensate di fare la guerra contro tutti quei tank, quegli elicotteri? Non concepivano nemmeno l'idea di fare qualcosa di diverso, di nuovo, qualcosa per la vita. Tutti i movimenti hanno mirato sempre e obbligatoriamente a conquistare il potere, non hanno mai cambiato posizione. Noi dicevamo no, vogliamo avere il nostro posto e niente di più. Per noi niente, per gli altri, tutto. E' un punto fondamentale.

Y: Quando avete incominciato a pensarla così? Dopo il primo gennaio, o prima?

T: Per essere sincero, molti dei nostri, e io fra gli altri, erano pronti a prendere le armi, ci eravamo preparati per questo, di politica invece non sapevamo niente. Abbiamo incominciato a imparare insieme a fare politica, una politica nuova, cercando le forme di una politica di vita. Abbiamo incominciato a trovarle nel corso del 1994. Prima no. Ci preparavamo a combattere, a difenderci, a morire o uccidere. Non avevamo mai pensato che ci fosse bisogno di politica, se no avremmo fatto altre cose! Avremmo fatto appello a un'altra pazzia, chissà quale! No, ci preparavamo per la guerra, ci insegnavano i nostri compagni insorti. Io facevo parte della milizia. In seguito sono diventato responsabile locale, poi responsabile regionale, e vedendo il lavoro che avevo fatto, a poco a poco i compagni mi hanno dato delle cariche dove si deve cercare, pensare, parlare della lotta. Ho incominciato così, non ero veramente preparato per la politica.

Y: Lei personalmente, come ha vissuto il primo gennaio? Dov'era?

T: Ero a Las Margaritas, con molti compagni. Ero nell'avanguardia, proprio in testa, abbiamo combattuto lì, all'entrata principale della cittadina.

Y: Ci sono stati molti morti?

T: No, abbiamo avuto pochissime perdite.

Y: Il subcomandante Pedro [64] è morto lì?

T: Sì, è caduto lì... Ha fatto il suo dovere, il dovere del combattente, vincere o morire. Riconosciamo i nostri morti con molto orgoglio. Ma la lotta continua, sapevamo che doveva succedere, avrei potuto essere io, o qualsiasi altro dei combattenti.

N: Quanta strada! La milizia, le armi, la politica, ora parlare davanti a tremila persone di quarantatré paesi diversi! Che effetto vi fa?

T: Sì, è più che un sogno... Sai, tutti noi, compreso il compagno subcomandante Marcos, siamo molto «naturali». Alcuni di noi sono andati a scuola, ma io no, ho solo «il secondo anno di analfabetismo». Non ho fatto né le elementari, né le medie, né la normale superiore. Ho imparato tutto dalla vita quotidiana. Ho girato molto, questo sì, dagli anni Settanta, dappertutto. Ho accumulato esperienza, a poco a poco, a forza di vivere, di parlare, di protestare... Siamo andati avanti, avanti, avanti... Come sapete, però, molti si stancano per strada, si fermano. Ma chi continua va sempre avanti senza sapere dove. C'è tanta strada...

N: Fino all'intergalattica!

T: Fino all'intergalattica. Tutta questa strada mi è servita molto. Se si deve parlare davanti a una folla, bene: non mi fa paura, mi sento come in un villaggio. Come tra fratelli. Non mi monto la testa. Se tanti fratelli vengono a trovarci da così lontano, è perché anche la loro vita è stata molto difficile, scopriamo cose ancora più grandi insieme a loro, acquisiamo esperienza. Frequentiamo una scuola che non esiste...
Quando ci sentiamo fratelli non abbiamo paura, non proviamo vergogna, parliamo tranquillamente con gli altri indios, gli altri gruppi sociali, i grandi scrittori, i grandi intellettuali. Prima non ci avevamo mai pensato, non sapevamo come avremmo fatto. E poi, d'un tratto, i sogni che erano nel profondo della Selva, trasmessici dai compagni, d'un tratto stanno diventando realtà.

DALLO ZAPATISMO ARMATO ALLO ZAPATISMO CIVILE
- Il secondo shock: la scoperta della società civile.

Y: Come spiega la decisione delle autorità, la nomina di Camacho e l'ordine del cessate il fuoco? [65] Vi aspettavate iniziative di questo tipo da parte del governo?
Marcos: No, in quel momento, fra il 5 e il 10 gennaio, eravamo sommersi dai problemi di cui ti ho parlato. A Ocosingo e nelle montagne del sud dove mi trovavo io ci bombardavano: gli svizzeri, che amano tanto la pace, avevano mandato degli aerei Pilatus ad ammazzare i messicani. Da una parte ci ritiravamo nella Selva, altrove andavamo avanti, e non sapevamo che cosa accadesse. I mezzi di informazione chiedevano che fossimo liquidati. C'era persino una specie di identikit di Marcos alla televisione, alla radio e sulla stampa: «Quest'uomo inganna gli indios, fermatevi, arrendetevi». Una campagna molto dura contro di noi.
Quando hanno nominato Camacho delegato per la pace, pensavamo che fosse un trucco: nominano qualcuno per vedere se andiamo avanti o per fingere di essere favorevoli alla pace pur continuando la guerra. Non l'abbiamo preso sul serio, e abbiamo continuato la nostra offensiva. Quello che ci ha sorpresi è stato il 12 gennaio: il cessate il fuoco, la proposta di amnistia di Salinas e l'offerta di dialogo di Camacho. Ma abbiamo pensato che fosse una trappola. Che volessero attirarci allo scoperto per tradirci. Avevamo davanti un mondo che non aveva niente in comune con il mondo reale.
Delle grandi mobilitazioni della società civile, a Città del Messico e altrove nel mondo, abbiamo saputo solo più tardi.
Il 12 gennaio, quindi, pensavamo che fosse una trappola. Ma abbiamo riflettuto in termini militari: avevamo ancora gente bloccata all'interno di Ocosingo, circa ottanta feriti, curati nei nostri ospedali da campo, unità che si erano smarrite durante la ritirata dagli Altos alla Selva di cui non avevamo notizie. Abbiamo deciso di fare nostra la proposta di cessate il fuoco e di porre alcune condizioni per intavolare il dialogo. Eravamo convinti che le condizioni non sarebbero state accettate, che fosse tutta una trappola, che non avrebbero rispettato il cessate il fuoco, tant'è che il 13 e il 16 ci sono stati altri scontri, a San Miguel, a Monte Lìbano, e che i bombardamenti sono continuati.

Y: Ci sono stati morti?

M: Fra i nostri no, fra i soldati sì: l'autista di un'autoblindo che abbiamo fatto saltare nei pressi di San Miguel. Con l'applicazione del cessate il fuoco, cominciamo a scoprire che cosa succede fuori fra il 16 e il 20 gennaio, prima non lo sapevamo. Allora capiamo che tutto il piano di cui ti ho detto è impraticabile. E' comparsa un'altra forza, è quella a chiederci di dialogare, non il governo: il popolo. Pensavamo che il popolo ci avrebbe ignorato, oppure si sarebbe gettato in battaglia con noi. Ma non fa né una cosa né l'altra. Tutte quelle persone, che sono migliaia, decine, centinaia di migliaia di persone, milioni forse, non vogliono insorgere con noi, e neanche lasciarci combattere. Ma non vogliono che ci annientino. Vogliono che dialoghiamo. Questo sconvolge tutte le nostre idee preconcette, e ridefinisce lo zapatismo, il neozapatismo.
Durante i primi giorni di gennaio, questo amalgama che si è buttato nella mischia il primo del mese finisce di definirsi tramite l'incontro con la società civile. Proprio come l'organizzazione politico-militare aveva ceduto davanti alle comunità, a sua volta il Comitato rivoluzionario indigeno ci pensa: succede qualcosa di nuovo, è meglio fermarsi e cercare di capire, perché quello che era stato previsto non è più possibile. Decidiamo di aspettare e riflettiamo. Non è il governo a chiedere di fermarci, sono loro, quelli per cui vogliamo batterci che ci dicono di non farlo. E allora? Dobbiamo batterci nonostante loro? E se no, che facciamo?

- Maggiore Moisés.
Y: Il cessate il fuoco vi ha colti di sorpresa?
Maggiore Moisés: No, abbiamo visto che non dipendeva da una decisione di Salinas. E' stata la pressione del popolo a costringerlo. La società civile è intervenuta. E' stata quella a dire: aspettate, soldati; aspettate, zapatisti. Se Salinas non ci avesse fatto caso, saremmo stati costretti a continuare, ma la pressione popolare si è imposta. Noi non sapevamo più che cosa fare se non potevamo servirci delle nostre armi. A quel punto i compagni del Comitato hanno deciso che bisognava parlare con la gente, vedere come continuare la lotta. Il nostro nome è esercito «di liberazione nazionale», e in quel momento diventavamo nazionali sul serio. E' quello che tentiamo di fare.

Y: Ma voi pensavate alla via delle armi, all'insurrezione in altre regioni...

M.M.: Non c'è stata. Abbiamo capito che la gente non era disponibile. C'erano solo gli zapatisti.

N: Vi è dispiaciuto o avete pensato che fosse meglio, che questo avrebbe potuto consentire cambiamenti pacifici?

M.M.: Non ci è dispiaciuto. Sapevamo di doverci battere per tutti i messicani. Abbiamo deciso di studiare se potevamo organizzarci con loro, di capire se ci accettavano o no. Anche per questo abbiamo fatto la Consultazione [66], per vedere se davvero le richieste per cui siamo pronti a dare la vita coincidessero con quelle del popolo messicano. I compagni del Comitato avevano ragione... Era un rischio; se la gente avesse risposto di no che cosa avremmo fatto? Saremmo andati in... chissà dove! Ma invece, come abbiamo potuto vedere, più del 90 per cento ha risposto che la principale richiesta era proprio quella. Esattamente quella.

- Il calcolo di Salinas («Quanto costano gli zapatisti?»).
Y: A posteriori, come analizza la decisione di Salinas, dal momento che tutto sommato il cessate il fuoco era una cosa seria?
Marcos: Credo che secondo il calcolo di Salinas sarebbe costato meno caro tentare di negoziare e vedere se si potevano comperare gli zapatisti piuttosto che tentare di distruggerli, buttando all'aria tutta la sua campagna pubblicitaria. Poteva accettare di ammettere una macchia sulla sua immagine internazionale: «D'accordo, non sono perfetto, c'è un difettuccio, ma intendo occuparmene, d'altronde è soltanto il Chiapas, siamo un po' in ritardo, ma il resto del paese va bene». Eliminarci voleva dire rischiare una reazione nelle altre parti del paese, stava già incominciando. Salinas è un uomo estremamente intelligente, molto perverso ma estremamente intelligente, questa decisione gli permette di assumere la guida del movimento pacifista e di neutralizzare tutta la situazione a livello nazionale. Con questa svolta, recupera il suo prestigio internazionale e la sua autorità; gioca sul tempo e sui soldi, decide di vedere, di sapere chi siamo e quanto costiamo.
Un altro fattore che può aver influito è la divisione interna del regime: supponevamo che esso fosse compatto anche se lo immaginavamo debole, ma in realtà era frazionato al punto che quelli del gruppo al potere pensavano che fosse uno di loro a manipolare l'E.Z.L.N.!

Y: Se ne parlava molto all'epoca.

M: Sì, dicevano che qualcuno tirava le fila...

Y: Fernando Gutiérrez...

M: Fernando Gutiérrez Barrios [67], o Manuel Camacho Solìs, oppure qualcuno che aveva del rancore o era stato sfavorito dal regime... Il governo ha pensato all'eventualità di dover affrontare un nemico interno, non un nemico esterno, e aveva bisogno di tempo per verificare chi fosse.
Un terzo fattore, immagino, è che l'insurrezione zapatista ha fatto affiorare in superficie le spaccature interne del regime, quindi Salinas non poteva decidere di eliminarci perché all'interno dello Stato alcuni si opponevano. So che nelle alte sfere del potere, qualcuno era contrario a ricorrere alla violenza. Anche fra i militari, perché essi si rendevano conto di non essere preparati ad affrontare un movimento di questo genere. Gli ufficiali dell'esercito federale erano addestrati in base alle teorie della Escuela de las Américas [68], per la sicurezza nazionale eccetera, dove si pensa ai movimenti di guerriglia come a gruppi introdotti e finanziati dall'estero. Di punto in bianco dovevano combattere una guerriglia india e lo vedevano, lo vedevano perfettamente che a sparare loro addosso erano degli indios! Inoltre, l'avversario si richiamava a tutto quello che costituisce il patrimonio dell'esercito federale, la patria, la democrazia, la libertà, la storia. Questo lo rendeva un nemico piuttosto imbarazzante, non dal punto di vista militare, ma sul piano politico ed etico.

- La svolta.
Y: A quanto pare lei ha dichiarato che l'esercito messicano è mitizzato.

M: Di certo non l'ho detto così, ma l'idea era che l'esercito federale non è un esercito messicano, è soltanto l'esercito del sistema politico messicano e...

Y: Non intendeva dire che non era in grado di annientarvi?...

M: Dal punto di vista militare è senz'altro in grado di annientarci, l'abbiamo sempre saputo. Ne conoscevamo la struttura interna e la potenza di fuoco. Non credo, non ho mai creduto che potesse liquidarci nel giro di pochi giorni, eliminarci, come dicono, con una sola zampata. Ma la loro superiorità militare è evidente. Non possono annientarci, ma possono respingerci e trattenerci sulle montagne: noi non abbiamo la minima possibilità di batterli sul piano militare.

N: In quel momento il C.C.R.I. proibisce i contatti con gli altri gruppi armati del paese. Era un pegno della vostra buona fede riguardo al cessate il fuoco o che altro?...

M: No, questo è successo molto tempo dopo. In gennaio, invece, nel momento peggiore della guerra, noi avremmo voluto metterci in contatto con gli altri gruppi armati, ma l'unico a contattarci è stato il PROCUP, e ne diffidavamo da molto tempo, dissentivamo da loro per via delle azioni di gennaio, le bombe che hanno collocato [69].
Al momento della consultazione, dopo il dialogo di San Cristòbal, abbiamo incontrato delle organizzazioni armate; a quanto ho letto sui giornali, alcune di esse fanno parte dell'E.P.R. [70]. Tutti concordavano sul fatto che l'aspetto più importante, più significativo, del gennaio '94 non era l'insurrezione zapatista ma la sollevazione della società civile, e che evidentemente la lotta armata non avrebbe avuto l'appoggio della maggioranza della popolazione. Bisognava aspettare almeno il 21 agosto, le elezioni. Abbiamo concordato di non fare alcuna azione militare, né noi né loro, durante il periodo preelettorale, in modo da lasciare tempo alla rivolta civile.
Soltanto dopo il febbraio del '95, quando accettiamo il dialogo, le comunità decidono che non possiamo tenere il piede in due staffe. Il risultato della consultazione dell'agosto '95 era molto chiaro: «Trasformatevi in forza politica per continuare la lotta». Siamo stati costretti a obbedire. Se prendevamo contatti militari con un'altra organizzazione, avremmo dovuto dirlo alla gente. Non potevamo mentire come fa il governo, consultarla e non tenerne conto. Ma parlandone avremmo danneggiato l'altro gruppo armato. Quindi abbiamo deciso di interrompere i contatti.

- 1994: un anno caotico.
Y: Quando è nato lo zapatismo civile? Durante il dialogo nella cattedrale?

M: Forse, quando si è formato il «cordone di pace» assurdo e meraviglioso che ci ha colti completamente di sorpresa. Renditi conto che quando abbiamo lasciato San Cristòbal andavamo a morire, eravamo sicuri di farci uccidere lungo la strada. Ma ora tornavamo a San Cristòbal, la gente ci aspettava, ci applaudiva, si accalcava per vederci. Si erano organizzati persino per fare il cordone al freddo, sotto la pioggia. Gente senza partito, senza organizzazione, che non obbediva a un ordine, non seguiva una linea, non ci guadagnava niente a essere lì. Avevano fame, correvano dei rischi, le fotografie, potevano perdere il lavoro, e tutto semplicemente perché ci credevano. Era il nostro primo contatto con loro, non ci aspettavamo nulla da quell'incontro. Non lo chiamerei ancora zapatismo, era un movimento che stava nascendo allora, persone di tutte le classi sociali, dalle più alte alle più umili, favorevoli a certe idee dello zapatismo, che venivano a vedere, volevano conoscerci.
Quando abbiamo deciso di assistere al dialogo, la discussione non è stata facile, credimi. Qualcuno pensava che fosse un tranello, che non dovessimo accettare. Inoltre, ci avevano inviato il mediatore di punta del governo, Camacho Solìs, che era riuscito a neutralizzare e a convincere partiti come il P.R.D. Nel Comitato alcuni pensavano che si sarebbero fatti fregare, che Camacho li avrebbe presi per il naso. Gli altri dicevano che bisognava sfruttare quello spazio per parlare, per capire che cosa stava succedendo. Dicevano che bisognava andarci per parlare con la gente, che la cosa più importante non era il dialogo con il governo, ma parlare con la gente per cercare di capire. Alla fine abbiamo deciso di correre il rischio. Il problema era comprendere se il dialogo sarebbe stato utile al governo o agli zapatisti. Era una scommessa. La posta in gioco nel dialogo nella cattedrale. E credo che abbiamo vinto noi.

Y: In altre parole?

M: Il dialogo ha dato modo agli zapatisti di farsi conoscere, di entrare in contatto con molta gente, soprattutto attraverso i mezzi di informazione; in quel momento non avevamo contatti diretti. Inoltre, il governo non è riuscito a comperarci e neanche a convincerci. Alla fine, tutto il processo di dialogo è andato in malora il 23 marzo, quando Colosio è stato assassinato.

Y: E' l'avvenimento decisivo?

M: Sì, dimostra che il governo è in crisi e non può negoziare. La pallottola che uccide Colosio uccide la possibilità di un accordo di pace con l'E.Z.L.N.. Non possiamo firmare un patto con qualcuno che non è nemmeno in grado di garantire la vita del suo successore. Come poteva garantire quella del suo nemico? Del resto, questo rispecchiava una crisi politica talmente profonda che non si poteva ottenere alcun risultato.

Y: Avete deciso in quel momento di aspettare le elezioni di agosto?

M: Di aspettare e di preparare la resistenza.

Y: Con questa decisione, avete ucciso Camacho dal punto di vista politico, no? Se aveste accettato il progetto di accordo, la sua posizione si sarebbe consolidata?

M: No, era impossibile. Il 23 marzo, assassinando Colosio, hanno assassinato politicamente anche Camacho.

Y: E voi gli avete dato il colpo di grazia!

M: Per noi non era questo il problema. Non potevamo firmare perché di fronte non avevamo nessuno in condizione di firmare. In quel momento, il problema non era più se accettare o respingere gli accordi: siamo stati obbligati a rifiutare. Il Comitato poneva un altro problema: che cosa fare dopo? Attaccare? Aspettare?
Secondo me, in quel momento nemmeno Camacho aveva più la minima speranza di far fruttare l'accordo dal punto di vista politico. Chi ha ucciso Colosio era pronto a uccidere chiunque, il secondo della lista era Camacho, questo pensavamo.
No, il nostro problema era che ci trovavamo in una situazione del tutto imprevista e non sapevamo che cosa fare.

Y: A questo punto ormai entrate in uno stato di grande incertezza. Secondo l'interpretazione di Jorge Castaneda [71], in quel momento Marcos aveva l'occasione di entrare nel gioco politico; l'ha persa, e da allora è incominciato il riflusso, che non è più cessato. E' vero che in quel momento lo zapatismo aveva l'occasione di trasformare la sua forza politico-militare simbolica in forza politica?

M: Può darsi, ma non ce ne siamo accorti. Non ce ne siamo accorti perché improvvisavamo, e il nostro problema era decidere la mossa successiva. La questione era di sapere come comportarci con quelli che avevano chiesto di cessare la guerra. Erano disposti a fare qualcosa? E che cosa? Dovevamo incontrarli e parlare. Erano gli stessi che mandavano aiuti umanitari, avevano continuato anche dopo il dialogo nella cattedrale.
Non ci eravamo mai proposti di accedere al potere, non era quello il nostro obiettivo. Dovevano essere altri a prendere il potere e a soddisfare le nostre richieste. Magari un'alternativa di sinistra, o di centro come C rdenas, o qualcuno del P.R.I. in grado di farlo, in grado di risolvere questi problemi. Dopo, magari, avremmo riflettuto su una partecipazione politica. Non abbiamo pensato nemmeno per un attimo che fosse la nostra occasione.
Del resto penso che abbiamo avuto ragione, perché hanno fallito anche quelli con maggiori possibilità. Persino il gruppo di Castaneda, il gruppo San Angel, come gruppo di pressione ha fallito. Come poteva avere successo un ex guerrigliero? Credo che fosse impossibile; e comunque non rientrava nei nostri progetti.

Y: Quali erano i vostri pronostici sulle elezioni del '94, pensavate che il cardenismo potesse vincere, o no?

M: Pensavamo che avrebbe vinto il P.R.I., con brogli talmente gravi che la gente si sarebbe ribellata. Non dico al punto da prendere le armi, ma con un grande movimento di protesta. Abbiamo pensato che bisognasse aspettare le elezioni: la gente si sarebbe resa conto che il P.R.I., il sistema del partito di Stato, non intendeva suicidarsi. Noi gli chiedevamo di suicidarsi, certo, ma non l'avrebbe fatto.
Perciò dovevamo aspettare, e lasciare che le elezioni si svolgessero come aveva previsto il governo, così non avrebbero potuto dire che le avevamo disturbate. Alcune persone ci passavano informazioni su quello che stavano tramando nell'apparato statale, e abbiamo avvertito C rdenas che il governo aveva intenzione di relegarlo al terzo posto. Non puntavano a batterlo, ma volevamo privarlo di qualsiasi possibilità di protestare. Glielo abbiamo detto il 15 maggio e glielo abbiamo ripetuto alla Convenzione, tramite dona Rosario [72], credo. Se credeva di arrivare secondo e di potersi battere per la presidenza si sbagliava, sarebbe stato terzo, quella era la manovra.
Non ci ha creduto. C rdenas diceva che era impossibile, che il PAN non aveva la minima possibilità, che il P.R.I. gonfiava apposta le cifre. E' logico, al suo posto avrei pensato la stessa cosa; era convinto di vincere, altrimenti non si sarebbe buttato. Se non ci credi, non ne vale la pena [73].
Molti dicono che il movimento zapatista ha creato difficoltà a C rdenas, ma secondo me invece l'ha aiutato, perché lo faceva apparire come l'espressione della possibilità di una transizione pacifica. In contrasto con l'opposizione violenta proposta da noi.

Y: Il voto non è forse stato in parte dettato dalla paura, gruppi che hanno votato per Zedillo temendo la destabilizzazione del regime?

M: E' una lettura possibile. Non ne sono tanto sicuro, il risultato elettorale del 1994 è stato talmente perfetto da far riflettere. Guarda le percentuali, per esempio: danno più o meno il 50 per cento al P.R.I., il 30 al PAN, il 15 al P.R.D. e il 2 al P.T. [74]. Dappertutto. Per le elezioni presidenziali, si ha lo stesso risultato nelle "lomas" di Chapultepec o a Polanco, dove risiedono persone molto agiate, e nella Lagunilla, per esempio, nel Chiapas, nel Guerrero, posti sperduti dove la gente riesce appena a sopravvivere. Le stesse percentuali, che invece variano per le elezioni dei deputati, per le elezioni locali.
Questo vorrebbe dire trovarsi davanti a gente molto politicizzata, che vuole un uomo del P.R.I. alla presidenza, ma non come deputato o senatore, o come sindaco. Per le presidenziali le percentuali si ripetono in tutti i posti, in tutte le fasce sociali, con una precisione stupefacente.
A parte questo, c'era una disparità finanziaria palese, dimostrata. Zedillo ha speso molto più degli altri, l'ha ammesso anche lui. Anche i mezzi di informazione gli hanno dato più spazio. Ma sono convinto che, a parte il resto, ci siano stati dei brogli. La gente non aveva paura, soprattutto non aveva paura dello zapatismo. Nessuno ha mai fatto manifestazioni di sostegno per il governo, quando esso voleva liquidarci. Anzi, la gente manifestava per impedirglielo, non parlo dei militanti, degli operai, parlo della classe media, della gente agiata, gli artisti, gli intellettuali.

Y: Lo zapatismo magari no, ma l'assassinio di Colosio non faceva paura?

M: Certo ha avuto il suo peso, la gente ha pensato che se il regime era capace di una cosa simile era capace di tutto.
Comunque le elezioni dimostrano diverse cose. Per la prima volta il P.R.I. non ottiene la maggioranza. La maggior parte dei votanti si è schierata contro il P.R.I., anche se i voti vanno ripartiti fra astenuti, P.T., PAN, P.R.D. e persino zapatisti; c'è stato un discreto numero di voti annullati, che erano per l'E.Z.L.N. E' un voto contro il P.R.I., ma disperso fra astensionismo e le diverse forze all'opposizione.

Y: Ciò nonostante, non c'è stata la protesta di massa in cui speravate.

M: Su questo ci siamo di nuovo sbagliati, come nel gennaio del '94. E si poneva la stessa domanda: e adesso? Non c'è stata protesta di massa, e la Convenzione nazionale, che era il nostro punto di contatto con l'esterno, è entrata in un periodo di crisi a causa della sconfitta elettorale. Ormai potevamo solo aspettare che Salinas se ne andasse, per vedere che cosa avrebbe proposto il nuovo presidente. Il Comitato ha deciso proprio questo. Il dialogo era a un punto morto; nel momento in cui Ruiz Massieu è stato assassinato [75], abbiamo interrotto il dialogo con Salinas e abbiamo aspettato per vedere che cosa avrebbe fatto Zedillo. Zedillo si è messo in contatto con noi per lettera, e ci ha promesso di risolvere la questione appena assunta la carica. Noi gli abbiamo detto che per il momento non potevamo trattare con lui, che saremmo stati disposti a intavolare il dialogo quando fosse diventato presidente.
Una volta presidente, la prima cosa che fa è di sostenere Robledo Rincòn [76]. Nel caso delle elezioni presidenziali era impossibile dimostrare i brogli, ma quelli fatti per l'elezione di Rincòn a governatore del Chiapas saltavano veramente agli occhi. C'erano le prove, si è riunito un tribunale di diversi osservatori, che è riuscito a dimostrare i brogli. Nonostante tutto, la prima decisione di Zedillo arrivando al governo è stata quella di andare ad assistere all'insediamento di Robledo. Per noi era chiaro. Bisognava fare qualcosa per ricordare che c'eravamo ancora. Allora, nel dicembre del '94, abbiamo deciso di rompere l'accerchiamento.
L'obiettivo era di dire a Zedillo quello che avevamo detto a Salinas: «Ricordati che nel Sudest hai un movimento di guerriglia, e sarai costretto a trovare una soluzione, militare o politica». Perciò facciamo l'atto di rompere l'assedio [77], e il governo decide allora di scatenare una crisi economica che, come abbiamo saputo dopo, covava già, per imputarcene la responsabilità. Il peso va in malora, la Borsa chiude, si verifica una fuga di capitali e tutto il resto...

Y: Magari la vostra azione ha fatto davvero da detonatore alla crisi, no?... la crisi finanziaria, nazionale e forse internazionale. Il governatore della Banque de France ha dichiarato che il sistema finanziario internazionale è debole al punto che un pugno di indios del Chiapas, nel cuore del Messico, può farlo tremare pericolosamente.

M: Dei poeti, un pugno di poeti, come direbbe l'E.P.R.! Comunque vuol dire che la crisi covava già. Credo che la nostra azione abbia aperto un buchino in una pentola a pressione e che sia scoppiato tutto. Di colpo, la miseria degli indios si estende bruscamente a milioni di messicani. Tutto cambia. Il governo, davanti a un vero focolaio d'agitazione, decide di liquidarlo. Sceglie il tradimento [78]. Capisci, non era più una lotta di indios, che si può sostenere da lontano; c'era il rischio che molta gente, trovandosi d'un tratto nella stessa situazione di miseria, ci considerasse possibili compagni di lotta. Perciò c'è stato il colpo di mano del febbraio del '95.

- Nello zapatismo ci sono molti zapatismi.
N: E' stato allora che avete sviluppato la concezione di società civile organizzata, di nuove forme politiche?

M: No, non ancora. Pensavamo ancora allo zapatismo, allo zapatismo dell'E.Z.L.N., e a niente di più. Non ci eravamo ancora resi conto che lo zapatismo incominciava a trasformarsi grazie al rapporto fra zapatismo armato e zapatismo civile. Chi ritiene che la Convenzione nazionale democratica sia stata un fallimento non lo capisce. Un fallimento perché? Perché C rdenas non ha vinto? Perché la C.N.D. non è diventata una forza politica? In realtà, solo con la Convenzione si può incominciare a parlare di uno zapatismo civile accanto allo zapatismo armato. Per consolidare questo rapporto l'E.Z.L.N. inizia addirittura a modificare i suoi discorsi e le sue iniziative. Così incomincia a maturare quello che diventerà il dialogo di San Andrés [79], cui il movimento di guerriglia inviterà tutti a partecipare. E' l'inizio di quello che in seguito darà origine alla Consultazione, la quarta Dichiarazione, poi i Forum e gli Incontri [80]. A partire dalla C.N.D. si incomincia a parlare di uno zapatismo che non è più limitato esclusivamente all'E.Z.L.N..

Y: Sorge dunque la domanda: che cos'è lo zapatismo? Il neozapatismo? La mia ipotesi è che ci siano tre componenti, una componente militare, erede di tutto ciò di cui si è parlato precedentemente al primo gennaio, una componente che potremmo definire sociale e una componente politica. Lei è d'accordo?

M: Secondo me c'è una serie di intersezioni. C'è lo zapatismo dell'E.Z.L.N., con le comunità e i combattenti. Distinguo le due cose perché le comunità instaurano rapporti con l'esterno attraverso il loro esercito, l'E.Z.L.N., che è una struttura militare. E' importante, il discorso e la pratica zapatista sono ancora molto caratterizzati da un certo autoritarismo militare, una certa impazienza, diciamo.

Y: Economia di guerra, società di guerra...

M: Sì, ma anche l'abitudine a un'immediata realizzazione delle iniziative, e l'esasperazione al minimo ritardo: abbiamo preso la tale decisione, perché non reagiscono subito, siamo in guerra! C è dunque l'E.Z.L.N. propriamente detto, con le comunità indie, lo zapatismo delle origini, insomma. Poi lo zapatismo civile, che nasce con il dialogo di San Cristòbal, e che è presente nella Convenzione nazionale democratica e cerca di organizzarsi. Intendo dire che ha inizio come una specie di comitato di solidarietà molto esteso, incentrato su quanto accade qui, e si evolve per diventare un'organizzazione politica.

N: Il Fronte zapatista?

M: Speriamo, vedremo... Possiamo dire che incomincia a svilupparsi uno zapatismo civile organizzato. L'E.Z.L.N. prevede di unirsi a questa organizzazione, un giorno, se ci saranno le condizioni perché possa continuare a evolversi in tale direzione. Poi c'è il terzo zapatismo, più diffuso, più disperso, fatto da quelli che provano simpatia per l'E.Z.L.N. e sono pronti a sostenerlo ma non hanno intenzione di organizzarsi, oppure fanno già parte di altre organizzazioni politiche o sociali.
A livello nazionale sono queste le tre grandi componenti dello zapatismo: lo zapatismo armato, lo zapatismo civile e uno zapatismo sociale.

- La nebulosa internazionale.
Inoltre, dal febbraio del '95, con gli Incontri, incomincia a comparire uno zapatismo internazionale. Nel '94 non interessava a molti, comunque non come oggi. C'è voluto del tempo perché lo zapatismo si facesse conoscere all'esterno, fosse digerito, assimilato, la gente si è ricordata di noi solo dopo il tradimento del '95. Poi il movimento è decollato, e ha preso forma con la preparazione dell'Incontro intercontinentale.
Poco fa chiacchieravo con dei tipi della tivù turca, a quanto pare c'è un'edizione turca di tutti i nostri comunicati e in Turchia esistono quattro o cinque comitati di solidarietà! Lo zapatismo internazionale sembra comprendere meglio il carattere indio dell'E.Z.L.N., ha colto il carattere universale della posizione del neozapatismo originale, l'unità dell'organizzazione militare e delle comunità indie.
Non possiamo chiamarlo realmente zapatismo, lo zapatismo è il punto in comune, o il pretesto per una convergenza. Ciascuno ha la sua propria logica, ma si riconosce in alcune affermazioni dello zapatismo. Non vedo alcuna somiglianza fra gli zapatisti baschi, catalani, greci, curdi, svedesi, giapponesi, a parte il fatto di venire tutti qui e avere ciascuno la propria idea su che cosa sia o che cosa dovrebbe essere lo zapatismo. Comunque è un fenomeno che esiste e, al di là della solidarietà con il movimento indio, mira sempre di più a ritrovare una serie di valori universali che possano servire altrettanto bene all'australiano, al giapponese, al greco, al curdo, al catalano, al "chicano" e all'indio dell'Equatore, per esempio, o al "mapuche" [81].

N: In sostanza, dopo quindici anni di crisi della sinistra, di disgregazione, la gente vi considera un punto di partenza per riaggregarsi. Non è soltanto una proiezione di sogni o di desideri...

M: Forse lo zapatismo li ha solo aiutati a ricordarsi che vale la pena di lottare, che è necessario. Per noi è importante essere molto lucidi su questo punto: non dobbiamo tentare di creare una dottrina universale, di metterci alla guida di una nuova internazionale o cose del genere. Ma soprattutto credo che in questo senso sia particolarmente importante e vada mantenuto l'elemento di generalità, di indeterminatezza dello zapatismo. Quanto alle comunità, bisogna capire che il contatto con questo «zapatismo internazionale» rappresenta soprattutto una protezione grazie alla quale esse sono in grado di resistere. E' una protezione più efficace dell'E.Z.L.N., l'organizzazione civile o lo zapatismo nazionale perché, nella logica del neoliberismo messicano, si punta moltissimo sull'immagine internazionale. C'è una specie di tacito accordo, chi viene da fuori trova qui un punto d'appoggio, lo stimolo di cui aveva bisogno per riprendere slancio, e le comunità ottengono il sostegno che permette loro di sopravvivere.

Y: E' un modo di vedere interessante: se l'attenzione internazionale avesse soltanto la funzione di fare da scudo, potrebbe nascere la tentazione di assumere atteggiamenti un po' paternalistici, di protezione e di assistenza, ma io credo che lo zapatismo possa evitare questo rischio in quanto crea una possibilità di ricomposizione.

M: Francamente, non ho visto paternalismo. Le critiche che ci fanno quelli degli accampamenti per la pace [82] o dell'Incontro intercontinentale sono critiche molto severe, dirette ma fraterne, di persone che ti chiedono conto da pari a pari. Talvolta anche critiche ingiuste, si dimenticano che siamo ancora in guerra, e che questo come minimo limita le possibilità di incontro e di discussione. Ecco, grosso modo, come la vediamo noi. Credo che l'E.Z.L.N. dovrà definire i suoi rapporti con queste quattro componenti: lo zapatismo militare, ovvero l'E.Z.L.N. stesso e le comunità, lo zapatismo organizzato del Fronte, lo zapatismo sociale e lo zapatismo internazionale. Tutto sta nel sapere quando guardare il dito e quando la stella, come diceva il vecchio Antonio [83]. Alain Touraine diceva di non confondere i vari livelli, universale, internazionale, nazionale e indio: la sua è una versione più sociologica, il vecchio Antonio lo esprimeva in forma poetica; in questo momento è il problema più grave dello zapatismo. Sarà questo a decidere del suo avvenire, più che i soldati, la rottura del dialogo, gli aeroplani e i tank. Tentando di definirsi, lo zapatismo corre il rischio di diventare un'organizzazione fra le tante, o invece può introdurre qualcosa di veramente nuovo.

ETICA, COMUNITA' E DEMOCRAZIA
- Lo zapatismo e la questione del potere (Zapata, il Che, eccetera).

Y: Quando lei dice che non avete rinunciato ad andare a Città del Messico, parla di entrarvi nel modo di Emiliano Zapata, dell'insurrezione del primo gennaio, o pensa a un altro sistema, un altro obiettivo?

M: Innanzitutto è un modo per riaffermare il carattere nazionale della nostra lotta. Le nostre richieste riguardano il centro del potere politico ed economico di questo paese, e noi non rinunciamo ad andare a Città del Messico per difenderle. L'E.Z.L.N. rifiuta di considerarsi un movimento territorialmente limitato, e indio dal punto di vista sociale.
Significa anche che non abbiamo rinunciato alla lotta armata. La porta di una transizione pacifica non è costantemente aperta, le armi devono sempre fare la loro parte, non fosse altro che per obbligare la controparte al dialogo. Il governo tratta con noi che siamo armati, ma non ha mai accettato di dialogare con le forze politiche, con le forze sociali urbane.
La marcia su Città del Messico, con o senza armi, è innanzitutto un simbolo. L'idea è di uscire dalla questione strettamente chiapaneca e strettamente india, allargare la prospettiva alla questione nazionale. Il progetto coincide con quello del Fronte zapatista di liberazione nazionale: formare un'organizzazione che non sia più a maggioranza india, che abbracci altri settori sociali, soprattutto lavoratori della campagna e della città, insegnanti, intellettuali, studenti, artisti, tutto lo zapatismo civile che conosciamo. Il simbolo evoca questo incontro, attraverso il quale lo zapatismo può diventare, produrre, qualcosa di nuovo.

Y: In fondo, si tratta più di prendere lo Zòcalo [84] che di prendere il Palazzo nazionale?

M: Certo. C'è un solo problema: metti che andiamo a Città del Messico, ci presentiamo allo Zòcalo, riempiamo la piazza (oppure no); e poi? Che cosa diciamo? Fare come ha fatto a inizio secolo l'esercito di Zapata, arrivare a Città del Messico, visitarla e ritirarsi poi in montagna senza alcuna alternativa politica? Sarebbe molto bello, molto romantico, ma completamente inutile...

Y: Belle immagini nella storia del paese.

M: Fotografie per gli archivi e per la stampa, che ne sarebbe entusiasta... Resta da calcolare se per l'E.Z.L.N. e i partecipanti valga la pena di correre questo rischio politico e fisico. Che cosa ci guadagneremmo? Una manifestazione di massa per dire che ci siamo, gridare degli slogan, senza alcuna conseguenza politica? Il gioco non vale la candela. Comunque, per tornare alla tua domanda, non pensavamo a prendere il potere ma ad affermare la nostra presenza nel centro nevralgico della politica, dell'economia e della lotta sociale in Messico.

Y: Se non vi interessa prendere il potere, come va interpretato il fatto che continuate a rivendicare la vostra discendenza dalla lotta di Che Guevara? L'altro giorno, lei ha risposto a un giornalista che se tornasse il Che gli lascerebbe il posto. Non pare molto coerente con il cambiamento di cui abbiamo parlato; in realtà il Che e tutti i movimenti guerriglieri che si richiamano a lui, in sostanza si definiscono tramite questo punto essenziale: la presa del potere attraverso la lotta armata.

M: E' uno degli aspetti del Che, ma l'Esercito zapatista di liberazione nazionale fa riferimento piuttosto al Che che lascia Cuba e va in Bolivia. Il Che che continua la lotta, che sceglie di continuare a essere ribelle, che decide di abbandonare tutto e di ricominciare da zero, altrove, nonostante le difficoltà, le sconfitte e gli errori. Per noi il lato umano - la resistenza, la ribellione, la percezione del «tutto per tutti, niente per noi» presente nel progetto di Che Guevara - è più importante del suo programma politico o del suo manuale sulla presa del potere [85]. Il nostro rispetto per il Che viene da lontano, da dieci anni di vita in montagna: era il nostro riferimento storico. Non tanto su come impostare la guerriglia, ovviamente. Noi volevamo arrivare a un esercito regolare; e ci siamo allontanati ancora di più quando lo zapatismo è diventato un cocktail, la mistura che oggi chiamiamo neozapatismo... No, del Che noi rispettiamo il lato umano, lo spirito di sacrificio, la devozione a una causa, e soprattutto la coerenza, la fede. Era un uomo che viveva in armonia con quello che pensava. Non se ne trovano tanto spesso. Che le idee siano giuste o no, persino con idee sbagliate... è difficile incontrare persone coerenti. Non penso soltanto alle persone note, ma anche ai normali cittadini come ce ne sono dappertutto, gli specchi che lo zapatismo trova nel resto del mondo, esseri umani come gli altri che vivono in accordo con quello che pensano. Guevara è uno di loro, il più noto, e poi è un guerrigliero come noi, un guerrigliero che, quando tutto è contro di lui, si dedica a difendere un sogno, un'utopia.

Y: Ma finisce male.

M: Sì, e il problema è proprio questo. Ma sarebbe difficile trovare al mondo un movimento rivoluzionario che non sia finito male. Nel caso di Guevara, la sconfitta finale è la morte, il 9 ottobre del '67. Ma per noi l'etica è più importante dell'efficacia politica. La nostra ammirazione per Guevara non dipende dalle sue vittorie politiche e nemmeno dai suoi successi militari, anche se la presa di Santa Clara [86] è un capolavoro come operazione militare portata a buon fine con un effettivo ridotto. Noi ammiriamo quei valori etici che sembrano dover restare nei libri, in una dottrina religiosa, e invece diventano realtà negli esseri umani, e vengono vissuti in modo coerente.
Per gli zapatisti, i valori etici sono un riferimento fondamentale, molto più importante della Realpolitik. Le scelte compiute fanno perdere molte occasioni agli zapatisti dal punto di vista della Realpolitik, perché accordano maggior valore alle implicazioni morali.

- Il sacrificio e la disperazione.
Y: Ha citato la parola sacrificio, e anche quanto ha detto del primo gennaio si iscriveva in questa logica. Capisco la dimensione umana, etica, ma non è pericoloso anche per la popolazione? Pensavate che il peso della violenza sarebbe ricaduto su di voi, ma poteva ricadere anche sulle comunità: in questi ultimi decenni, penso soprattutto al Guatemala, le strategie antinsurrezionali hanno sempre preso di mira più i civili dei combattenti, e la popolazione civile ha pagato un prezzo terribile.

M: Tutto quello che dici è vero. Nel 1993 anche noi abbiamo espresso la stessa valutazione, ma devi capire che la logica delle comunità era dettata dalla disperazione. Anche altri ci hanno detto la stessa cosa che hai appena detto tu: non dovevamo, era necessario aspettare o incominciare più in sordina, non in un modo così stravagante, così folle come quello che abbiamo scelto il primo gennaio del '94. Ma avevamo di fronte una disperazione assoluta, mortale, di tutto un settore della popolazione, gli indios. Nella logica della disperazione non c'è spazio per la vita, rimane solo da scegliere la morte: se morire in silenzio o morire da eroi. Era la logica del gennaio 1994. Nel '96 non è più così, ma all'epoca avevamo davanti decine di migliaia di persone condannate alla morte del silenzio, la morte dell'oblio, persone che hanno deciso di farsi ammazzare, sì, ma in un altro modo. Ci aspettavamo una reazione militare sul genere del Guatemala, comunità rase al suolo... c'era soltanto una cosa da fare, tentare di ritardare il più a lungo possibile l'impatto sulle comunità, e provocare molto rumore, per farla pagare quanto più cara possibile allo Stato, sul piano sociale e politico. Non avevamo scelta. Le comunità dicevano: «In tutti i casi moriamo già, nessuno se ne accorge, nessuno dice niente. Almeno non moriremo solo noi. E a loro procureremo guai seri».

Y: La violenza antinsurrezionale serve anche a dividere le comunità e a isolare il movimento di guerriglia. In seguito, nel Guatemala, i guerriglieri non sono più riusciti a ristabilire i contatti. Quando non si riesce a proteggere la popolazione, oltre al costo umano c'è anche un costo politico.

M: Nel caso dell'E.Z.L.N. non abbiamo la forza combattente da un lato e la popolazione dall'altro, sono una cosa e una cosa soltanto. In questo momento, per esempio, come esercito l'E.Z.L.N. non esiste, è disperso nelle comunità. Si riunisce e si ristruttura militarmente per le operazioni militari o per alcuni lavori, come costruire le Aguascalientes. E' esattamente la concezione dell'Ejército Libertador del Sur di Zapata: nell'esercito c'è una percentuale minima di professionisti, solo alcuni ufficiali che radunano i combattenti al momento di agire e poi li disperdono. E' un esercito povero, ma non costa quasi niente, perché i suoi soldati sono anche produttori. Produttori in crisi, ovviamente, come tutti gli altri!

- Intolleranze ed errori zapatisti.
Per quanto riguarda il prezzo politico, abbiamo dovuto pagare soprattutto quello dei nostri errori: quando decidiamo di attaccare nel momento in cui si dovrebbe trattare, anche se non ce ne accorgiamo subito, la nostra decisione produce effetti che si ripercuotono sui villaggi, e la gente ne chiede conto ai dirigenti. Quando abbiamo avuto problemi nei villaggi, essi derivavano assai più dai nostri errori che dalle strategie antinsurrezionali del governo. Non capisco perché, forse ci disprezzano troppo per fare bene le cose. Oppure la rete della corruzione è talmente fitta che nessuna iniziativa seria arriva mai a buon fine. Per esempio, gli scontri causati in questo momento dai gruppi paramilitari nel Nord del Chiapas secondo me non derivano tanto da un'offensiva pianificata quanto dal caos che regna all'interno del governo, dalla sua incapacità di mantenere il controllo. Il governo gira totalmente a vuoto, l'esercito federale si comporta qui come un esercito d'occupazione con una popolazione nemica e il suo esercito. Una popolazione nemica, soprattutto. Non dico che non abbiano cercato di dividere la gente, in un modo o nell'altro, ma senza alcun successo. O ha funzionato la resistenza delle comunità, o lo sforzo del governo è stato insufficiente; oppure, non gliene importa niente.
No, nella maggior parte dei casi i nostri problemi dipendevano da errori dell'Esercito zapatista e dalle sue strutture di comando civile. Per esempio, alcuni capi delle comunità tollerano poco le critiche provenienti dall'interno; talvolta la struttura direttiva, il C.C.R.I., è influenzata da questioni religiose; e poi, alcuni problemi si individuano troppo tardi e finiscono per esplodere quando hanno ormai assunto dimensioni enormi, oppure si manifesta la tendenza a risolvere questioni politiche nello stile militare, invece che cercando soluzioni di mediazione, di conciliazione. Francamente, i problemi che possiamo avere nei villaggi della Selva, del Nord o degli Altos dipendono soprattutto da noi. Dall'esterno, attraverso la stampa o quello che colgono le ONG, logicamente possono essere interpretati come una campagna orchestrata per creare divisioni, ma la nostra struttura interna ci pone direttamente nelle comunità, a contatto con i problemi. Noi la vediamo così.
Nel '94, quando in pratica abbiamo governato la zona per tutto l'anno, appariva ancora più evidente. Molti conflitti erano causati dall'intolleranza dei dirigenti locali verso chi non era d'accordo, faceva proposte diverse dalle loro, avanzava critiche o semplicemente non voleva partecipare. Il problema trae origine da una struttura organizzativa che è nata durante la resistenza e non è pronta a trasformarsi in governo. E' stato molto difficile per lo zapatismo diventare un governo davvero pluralista, un governo delle comunità con tutte le loro componenti.

- La democrazia o le armi.
Y: E adesso la transizione è compiuta? Siete in una situazione molto incerta, una specie di pace armata, di semiguerra, che in realtà non è compatibile con una democrazia pluralista, con la democrazia pura e semplice.

M: Non si discute nello stesso modo di differenze politiche - non parlo neanche di decisioni di governo, solo di differenze politiche - con una persona armata: il rapporto cambia. Anche se non ti servi delle armi come argomento, le armi esistono. Nel caso specifico, quando gli zapatisti parlano con altri gruppi politici nelle comunità, possono essere tolleranti e comprensivi, ma le armi hanno comunque il loro peso. E' la contraddizione di un'organizzazione armata, su cui insistiamo sin dall'inizio: se lo scopo è la democrazia, lo zapatismo armato non è un'alternativa di governo. Se volessimo la dittatura del proletariato o l'omogeneità di un'etnia o di una razza, sarebbe semplice. Ma lo zapatismo ha l'obiettivo opposto.
Perciò dobbiamo affrontare questa contraddizione. Dal punto di vista del programma politico è evidente, come esercito dobbiamo sparire, evolvere verso la via pacifica. Ma se si guarda all'atteggiamento del governo, tutto indica che dobbiamo rimanere armati, che se passiamo alla via politica ci faremo ammazzare o saremo digeriti. E' questo a trattenerci, non tanto la paura di farci ammazzare quanto quella di farci digerire, di essere trasformati in «politici», una connotazione ancora più negativa in Messico che altrove.

Y: Senza avere cambiato il sistema politico.

M: Esatto, senza niente in cambio. Per passare alla lotta pacifica, abbiamo bisogno di condizioni di minima che consentano all'E.Z.L.N. di trasformarsi in una forza politica in modo dignitoso. Ma questo il governo non lo vuole.

Y: Alla lunga, non esiste il rischio di una militarizazione delle istituzioni comunitarie? In una società di guerra, un'economia di guerra, anche la tradizione del consenso, dell'unanimità, vigente nelle comunità, può militarizzarsi, no? Gli zapatisti sono tutti convinti che lo zapatismo debba diventare un attore democratico? Davvero nessuno pensa di militarizzare le comunità per un progetto più a lungo termine?

M: Non è impossibile, non lo so, non ne abbiamo mai avuto sentore... Ma rispondo prima all'altra domanda. Siamo un esercito indio, e perciò molto interessato alla vita civile, un esercito i cui membri non hanno voglia di trasformarsi in militari di carriera. Non abbiamo intenzione di diventare l'esercito che difenderà il nuovo Stato dopo la presa del potere...

Y: Però all'inizio dicevate proprio questo.

M: Che dopo aver distrutto l'esercito federale avremmo formato, insieme ad altre forze, l'esercito incaricato di difendere le conquiste della rivoluzione eccetera eccetera... sì. Per noi l'esercito zapatista dovrà continuare a esistere per garantire che le richieste delle comunità siano soddisfatte, che il governo mantenga la parola. Ma anche in questo caso, supponendo che conservi il ruolo di garante, di autorità per controllare che le cose vengano fatte, i combattenti non avranno più un'attività militare, resteranno nelle loro comunità, come prima. Nel caso in cui si manifestasse la tendenza alla militarizzazione di cui parlavi, non credo che funzionerebbe, perché l'influenza dei combattenti di professione è minima rispetto alla massa di combattenti dei villaggi. Un progetto di questo tipo non avrebbe la forza, la potenza di fuoco per imporsi alle comunità, che non l'accetterebbero.
Resta comunque il fatto che nei rapporti con la popolazione civile si manifestano atteggiamenti militaristi. Il problema mi sembra tocchi soprattutto il rapporto fra lo zapatismo militare e lo zapatismo civile. Le comunità, dal canto loro, hanno cinghie di trasmissione proprie per favorire od ostacolare il flusso di informazioni, le iniziative; hanno un controllo più efficace. Inoltre concepiscono diversamente la propria capacità di dibattito. Per esempio, nel suo villaggio Tacho non è un personaggio, è Tacho il contadino, tutti lo conoscono, lo criticano. Lo stesso David, negli Altos, non è il comandante David...
Per la società civile siamo l'Esercito zapatista, il subcomandante Marcos, il comandante Tacho... Spesso, quando lanciamo delle iniziative, le esprimiamo come ordini, o comunque la gente le sente così. Annunciamo la nostra intenzione di fare una certa cosa, senza discutere su quale sia l'approccio migliore. Poi, quando arrivano le critiche, abbiamo la tendenza a reagire da soldati, a irrigidirci. Abbiamo bisogno di tempo per assimilarle.

- Lo zapatismo divide le comunità.
Y: Un altro pericolo deriva dalla tendenza delle comunità a essere omogenee. Anche le comunità zapatiste risultano relativamente omogenee, tutti sono zapatisti. La democrazia è diversità, conflitto, disaccordo. Voi stessi siete nati da divergenze, divisioni, e le vostre azioni hanno prodotto altre divergenze. Come incanalare tutto questo verso una democrazia pluralista del tipo che auspicate?

M: Il progetto democratico dell'E.Z.L.N. è nuovo, dopo il gennaio del '94 si articola con la comparsa di concetti come tolleranza e capacità di includere diverse realtà, che fino a quel momento quasi non comparivano nel discorso zapatista. Si struttura nel confronto con l'esterno. Le comunità apportano la loro pratica, la risoluzione dei problemi collettivi per mezzo del consenso, con tutti i suoi limiti. Si discute in assemblea, e non si prende una decisione fino a quando tutti non sono d'accordo. Non si vota nemmeno. Nella maggior parte dei villaggi non si vota, non si decide a maggioranza, o si raggiunge l'unanimità o niente. Questo comporta una certa logica di discussione interna, e funziona per i problemi che riguardano davvero tutti. Per esempio, decidere dove collocare le latrine, tracciare la linea di demarcazione tra i terreni di due villaggi eccetera. Su queste cose tutti si esprimono, è normale. Ma esistono problemi diversi, per i quali si dovrebbe tenere conto di quello che pensa la maggioranza, ma anche di quello che pensa la minoranza. E' un'esperienza nuova per le comunità, perché finora tutti i problemi che dovevano risolvere riguardavano la sopravvivenza. Di fronte al rischio di annientamento da cui sono minacciate da anni, l'unico modo di sopravvivere era unirsi e rendere quanto più forte possibile il collettivo.
In un conflitto fra l'individuo e il gruppo, il gruppo l'aveva vinta per forza, e se l'individuo non accettava, il gruppo lo espelleva. Non soltanto a Chamula o in altri villaggi tzotzil degli Altos, la stessa cosa si verificava anche nei villaggi tzeltal della Selva: era l'unica possibilità di sopravvivenza. Le comunità non avrebbero potuto resistere se ci fossero state divergenze, critiche dall'interno. Per esempio, quasi tutta la regione della Selva è cattolica e chi non era cattolico veniva accusato di stregoneria. Era impossibile avere un'altra religione, non te lo permettevano. Fra l'87 e l'88 l'unica organizzazione politica era la Quiptic ta lecubtesel, la Uniòn de Uniones. L'unico dialetto era lo tzeltal, e gli integralisti della Uniòn de Uniones avevano questa parola d'ordine: «Una sola religione, quella cattolica, una sola lingua, lo tzeltal, una sola organizzazione, la Quiptic». Quando siamo arrivati noi, hanno aggiunto: «un solo esercito, l'Esercito zapatista di liberazione nazionale». Non c'era altra possibilità, si sono formati così. E' quello che abbiamo trovato quando siamo arrivati. Tuttavia, all'interno della Quiptic c'erano discussioni vere e proprie. Nessuno monopolizzava la rappresentanza del gruppo per imporla ai singoli individui, davvero era il collettivo a decidere, a operare contro gli individui e a giudicarli.
Con l'E.Z.L.N. la faccenda si è complicata: le decisioni da prendere riguardavano diverse comunità, bisognava portare la discussione a livello di regioni che comprendevano numerose vallate, o più tardi a livello di zone etniche. In quel caso era chiaro che c'erano zapatisti e non zapatisti. Lo zapatismo attraversava tutta la struttura da cima a fondo, fino alla comunità, si produceva una divisione di fatto, anche in assenza di conflittualità: c'era una chiesa zapatista e una non zapatista, battesimi zapatisti e altri che non lo erano; c'erano diaconi, agenti sanitari zapatisti... tutta la struttura era divisa. E questo tracciava una linea di demarcazione che ha spezzato, dico sul serio, la struttura comunitaria di cui ti ho parlato. Contrariamente a quanto accadeva con la religione cattolica o la Quiptic, chi la pensava diversamente non veniva perseguitato, ma la divisione c'era. Per noi non era normale, i problemi di sanità, di religione, di istruzione, le decisioni della comunità non riguardavano lo zapatismo, potevano essere risolti come sempre, ma i compagni lavoravano così. Parlo di prima del '93, prima della guerra. Dalle parti di Amador ci sono stati persino dei casi in cui la comunità si è divisa concretamente, i non zapatisti da una parte del fiume e gli zapatisti dall'altra. La gente si incontrava, si sposava, ma in realtà erano due villaggi distinti.
Lo zapatismo divideva, è vero, ma non creava scontri. A questo riguardo l'accusa della diocesi, della Chiesa, è ingiusta. Qui molta gente è stata uccisa in nome della religione. Noi non abbiamo ucciso nessuno in nome dello zapatismo. I villaggi litigano, se ne dicono di tutti i colori, ma gli zapatisti non hanno mai provocato scontri armati all'interno delle comunità.

- La questione delle «espulsioni».
Y: Però dicono che nel '93, quando si è deciso di insorgere, ci sono state delle espulsioni.

M: E' una bugia. Quando le comunità hanno deciso la guerra e fissato il limite di tempo, i non zapatisti l'hanno saputo e hanno detto che non erano d'accordo. Gli zapatisti hanno risposto loro che la guerra si sarebbe fatta comunque, e gli altri hanno spiegato che non era giusto, perché ne avrebbero subito le conseguenze come gli altri. Gli zapatisti hanno detto che si trattava della decisione della maggioranza e che perciò il discorso era chiuso. Allora quelli che non erano d'accordo se ne sono andati. Dove c'erano gli zapatisti la gente sapeva che la repressione si sarebbe riversata su tutto il villaggio indistintamente, e quelli che non erano d'accordo si riunivano da un'altra parte, costituivano villaggi formati esclusivamente da non zapatisti. Non abbiamo mai espulso nessuno, né obbligato nessuno a entrare nell'organizzazione, al contrario di quanto dice la Chiesa. Ci limitavamo a dire la verità: chi restava nei villaggi zapatisti, che lo volesse o no doveva affrontare la guerra. Chi non voleva se ne andava, e durante l'offensiva militare del gennaio del '94, e soprattutto quella del febbraio del '95, metteva un telo bianco sul villaggio o sulla propria casa perché i soldati non bombardassero, perché si limitassero a bombardare le case senza telo bianco. Proprio secondo la logica della Quiptic.
Le leggi di guerra che abbiamo emanato prevedevano anche un controllo molto rigoroso sull'economia, soprattutto sul commercio al minuto. C'erano prezzi fissi, uguali in tutta la zona, e se una bottega li superava, gli zapatisti la facevano chiudere. Molti piccoli commercianti si sono sentiti danneggiati, e se ne sono andati.
Del resto era un buon affare: il governo sfruttava la questione degli «sfollati» a scopo di propaganda, si offriva di mantenerli, e pagava addirittura l'affitto per le terre che abbandonavano. Gli sfollati stringevano un accordo con la comunità. Dicevano: «Intendo diventare sfollato, non sono zapatista ma non voglio litigare, voi curate i miei affari e io vi passo una parte di quello che mi spetta come sfollato». Quando il governo ha visto che la propaganda sugli «sfollati» non dava i risultati sperati, li ha abbandonati...
Paradossalmente la stampa, che aveva gridato allo scandalo riguardo agli «sfollati» del '94, non ha detto una parola su quelli del '95. Nessuno parla della gente di Guadalupe Tepeyac [87]. Nel corso di tutto il '94, mentre il governo manteneva quelli dell'ARIC che avevano lasciato la Selva, ci sono stati grandi servizi giornalistici, lettere di protesta, gli intellettuali messicani erano completamente sconvolti...

Y: Si parlava di ventimila persone...

M: ... di venticinquemila. Ma nessuno parla di chi se n'è andato da Guadalupe Tepeyac, e ormai è più di un anno: quelli il governo non li nutre, e non paga nemmeno l'affitto per le loro terre.

Y: Ci sono stati davvero ventimila «sfollati»?

M: No, la cifra è gonfiata, ma soprattutto nei primi mesi se n'è andata molta gente, quindicimila persone e più durante gli allarmi. Nel momento peggiore, nel periodo di allarme rosso seguito all'assassinio di Colosio, secondo i nostri calcoli erano diciottomila. In seguito la cifra è scesa di nuovo a dodicimila, poi è risalita verso i quindicimila nel giugno del '94, dopo la Consultazione, quando sono stati respinti gli accordi ed è stata convocata la Convenzione. Per finire, altre persone sono sfollate, dopo l'arrivo dell'esercito, nel febbraio del '95, ma il governo le ha costrette a rientrare volenti o nolenti, per evitare che si dicesse che era l'esercito federale a provocare l'esodo. Non volevano tornare, avevano paura della guerra che arrivava con i soldati. Ma il governo li ha costretti.
La storia degli sfollati è interessante. Il governo l'ha sfruttata in modo molto perverso, ma essa riflette anche le contraddizioni degli zapatisti con funzioni direttive nelle comunità, i loro rapporti con i dissidenti. Si comportano come zapatisti, come un'organizzazione politico-militare, democratica e tutto quello che vuoi, ma omogenea, come qualsiasi altra organizzazione. E invece chi governa non dovrebbe tendere all'omogeneità e imporre le proprie risposte politiche con la forza, dovrebbe inglobare le opposizioni e le minoranze.

- Democrazia, consenso ed elezioni.
N: Secondo alcuni, la democrazia della comunità, del consenso, è quanto c'è di più sano in Messico in materia di democrazia, e bisognerebbe seguirne l'esempio a tutti i livelli, anche per lo Stato. Sul piano locale offre dei vantaggi, ma quando si tratta di governare crea anche degli inconvenienti.

M: Credo che sia una forma di democrazia possibile soltanto nella vita comunitaria. Funziona nelle comunità indie perché la loro organizzazione sociale lo consente, ma non può essere generalizzata, trasferita altrove come modello, per esempio in città, e nemmeno a livello di uno Stato o di tutto il paese. Secondo noi va conservato il principio del controllo della collettività sull'autorità.
Nel caso delle comunità, il controllo funziona ventiquattr'ore su ventiquattro. Nessuno può arricchirsi senza che gli altri lo sappiano. Se un dirigente della comunità incominciasse ad avere soldi, tutti andrebbero a chiedergliene conto. E chi non fa bene il suo lavoro viene sostituito. Ovviamente funziona perché si tratta di un villaggio. Ma bisogna trovare dei meccanismi che consentano alla società in generale di controllare i suoi governanti e confermarli in carica, decidere se possono continuare o no, ed eventualmente punirli. Dovrebbe essere la società a controllare il governo e non il governo a controllare la società, come affermano i teorici del salinismo che hanno già dimenticato il «salinismo»... [88]. Secondo loro, la società tende naturalmente verso il caos e il governo deve vegliare affinché non si disgreghi. Ci vuole perciò un governo forte, che la controlli. Per noi, invece, è il governo a tendere spontaneamente verso il caos, verso la dittatura, l'autoritarismo, le pratiche antidemocratiche e la corruzione, ed è la società che deve costringerlo a renderne conto. Obbligarlo a comandare obbedendo, come diciamo noi.
Ma per esperienza, non consiglierei di trasferire i metodi dell'assemblea comunitaria ad altre sfere, per esempio un'università. Conosco le assemblee studentesche...

Y: Non si arriverebbe mai a una decisione!

N: Il discorso zapatista parla anche di democrazia diretta, sociale, di democrazia di partecipazione; ma come? A che livello? E in che rapporto con la democrazia rappresentativa?

M: Per l'E.Z.L.N. la democrazia non può essere solo elettorale; la democrazia elettorale ci vuole, ma non è sufficiente. L'idea di democrazia deve comprendere molti altri aspetti della vita democratica del paese. Ci vuole di sicuro una riforma elettorale, o piuttosto una vera rivoluzione che apra sul serio lo spazio elettorale. Ma bisogna anche riconoscere l'esistenza di forme di democrazia non rappresentative che svolgono una funzione di controllo e di governo nelle comunità. Le leggi messicane non riconoscono la democrazia comunitaria. Ci sono altri tipi di democrazia, che si praticano nei sindacati, nelle università, nei quartieri, nei villaggi... Lo Stato deve riconoscere che non esiste un tipo di democrazia superiore, ma molte forme diverse, ci vuole un concetto di democrazia aperto, ampio. Per il governo, la democrazia rappresentativa è politicamente superiore alla democrazia diretta o alla democrazia assembleare.

N: Perché rappresenta l'interesse generale.

M: Secondo noi la democrazia rappresentativa funziona a certi livelli... anzi, funzionerebbe, se esistesse davvero. Ad altri livelli, ci vuole invece la democrazia comunitaria, la democrazia diretta o la democrazia sociale.

- Ma la democrazia è compatibile con la comunità?
Y: Nella comunità esistono forme non democratiche, per non dire antidemocratiche. Le autorità tradizionali non sono esattamente democratiche, costituiscono una struttura gerontocratica. Non sono nemmeno convinto che l'«accordo», il consenso, sia un metodo democratico, può diventare anche molto autoritario, è l'autorità del gruppo, della comunità sugli individui. La democrazia non può esistere senza i diritti dell'individuo.

M: Sì, su questo siamo d'accordo. Io intendo dire che questo genere di democrazia è utile per certi problemi, non per tutti, mentre la comunità lo applica fino all'esasperazione a ogni livello. Ti faccio un esempio: Rich si sposa con una ragazza del villaggio. Innanzitutto deve chiedere il permesso all'assemblea del villaggio prima di parlarne con lei. Nell'attesa che l'assemblea decida, tutti sanno che è innamorato, salvo la ragazza. Poi parla alla famiglia, gli danno il permesso e finalmente può parlarne a lei... funziona così.
E' un esempio comico, ma ce ne sono altri più complessi in cui, effettivamente, questo tipo di democrazia lede, a mio avviso, la libertà individuale. E' così in tutti i casi, quando si prendono decisioni che riguardano la comunità, per esempio le questioni sanitarie, contro le epidemie. Quando c'è stata l'epidemia di colera, l'accordo della comunità obbligava tutti a costruire latrine, al momento della tubercolosi era necessario il vaccino: sono decisioni imposte dalla comunità, perché si tratta di sopravvivenza. Lo stesso in caso di carestia per ripartire le provviste che arrivano, o per fissare il prezzo del caffè e portarlo in città. E' utile per certe cose, per altre no. Le comunità, come tutto il paese, devono imparare che altrove esistono e funzionano altre forme di democrazia. Alcune hanno incominciato a nascere nel momento in cui il Comitato ha introdotto la democrazia rappresentativa nello zapatismo: sono i villaggi a eleggere un rappresentante, l'autorità del villaggio, l'autorità zapatista; poi le autorità di diversi villaggi eleggono il rappresentante regionale, quindi svariate regioni eleggono quello di zona, poi di etnia, e i rappresentanti di etnia nominano chi deve andare al Comitato. Poiché comunque ci sono rapporti fra molte etnie, il Comitato affronta problemi che non sono quelli dei singoli villaggi, anche se hanno conseguenze per tutti. E' difficile da imparare, ci si può riuscire solo perché l'orizzonte delle comunità si amplia a mano a mano che esse conoscono altre esperienze. Quando vengono gli elettricisti e gli operai dei telefoni, essi parlano delle loro esperienze, della democrazia sindacale, della lotta fra liste rivali. Ci sono contatti con i sindacati operai agricoli, le organizzazioni studentesche, i sindacati degli insegnanti, e tutto questo costituisce un arricchimento.

Y: Si impara a conoscere l'eterogeneità e la diversità di forme?

M: Soprattutto il dibattito politico. Nella comunità il confronto politico è un rapporto personale. Qualcuno si alza e parla, poi qualcun altro, e tutti sanno chi è. Quando tutti si conoscono, la tua idea politica viene recepita in funzione della tua storia personale. Il tuo discorso può essere giusto, ma vieni valutato prima di tutto dal punto di vista morale, e non sul piano politico: ti ascoltano in modo diverso a seconda se sei un ubriacone, un donnaiolo, se sei stato in prigione. Una buona idea politica può essere scartata per questo motivo, ecco perché ti dicevo che nello zapatismo esiste un'interconnessione fra morale e politica, e spesso la prima è dominante. Credo che le aperture del '94, del '95, del '96 siano servite ai compagni delle comunità per comprendere i vantaggi, ma soprattutto i limiti, del loro tipo di democrazia.
Quanto alla forma di autorità vigente nelle comunità, in origine essa era rappresentata dal consiglio degli anziani, ma quella generazione sta scomparendo. Da otto anni, cinque anni diciamo, non è più la Chiesa a nominare l'autorità religiosa, è la comunità che sceglie qualcuno, poi avverte il parroco, o il vescovo, affinché la persona designata venga istruita. Prima era diverso. Erano i notabili, i "capitanes" [89] della Chiesa e altri a decidere; nella zona tzeltal funziona ancora così, ma fra i tojolabal no. E' la comunità a nominare il responsabile religioso, è un compito importante, non come essere il responsabile zapatista ma importante. Quanto alla responsabilità civile, agente municipale o «commissario dell'"ejido"» sono posizioni instabili peggio che in Borsa, alcuni durano appena tre giorni, poi la comunità nomina qualcun altro che regge sei mesi, o tre... è un incubo essere nominato commissario dell'"ejido" o agente municipale, ti sorvegliano ininterrottamente, in pratica è una punizione. Se vogliono punirti ti danno queste cariche.

Y: L'ho visto anche in altre comunità, in Guatemala era la stessa cosa, dovevano andare a cercarli in montagna e riportarli a forza...

M: L'autorità zapatista può essere criticata presso i suoi superiori: se la comunità non è soddisfatta del suo responsabile locale, lo denuncia al responsabile regionale. Viene fatta un'inchiesta, lo destituiscono, si fa un'assemblea e se ne nomina un altro. Lo stesso avviene se sono gli eletti locali che hanno dei problemi con l'autorità regionale, e così via fino al vertice.

Y: Insisto perché è molto importante. Nel mondo esistono diverse forme di resistenza al neoliberismo, quasi tutte autoritarie. Il rifiuto non solo del neoliberismo, ma della forma rappresentativa «occidentale» esiste a Singapore, fra i fondamentalisti islamici, fra gli indù integralisti. Le contrappongono un autoritarismo comunitario. Fra le cose importanti dello zapatismo c'è il fatto che tenta di abbinare forme comunitarie con elementi di democrazia rappresentativa o partecipativa. Fa propri alcuni elementi culturali, religiosi, etici, non per difendere la comunità contro l'Occidente, ma per tentare di inventare nuove forme di politica che siano democratiche. Che, in realtà, fanno la democrazia.

M: Sì, penso che sia un problema fondamentale, anche per la sopravvivenza dello zapatismo nelle comunità. Questo processo di omogeneizzazione interna che comporta il predominio dell'interesse collettivo sull'individuo, sulla minoranza, ha permesso alle comunità di sopravvivere, ma effettivamente oggi può divenire la loro tomba. Credo tuttavia che l'apertura rappresentata dalla guerra abbia ampliato l'orizzonte della gente, che siano pronti a lasciarsi permeare da idee di questo tipo. Il problema centrale oggi è la tolleranza dell'altro, quando l'altro è una minoranza. Non ha ancora trovato soluzione all'interno delle comunità, ma tutti stanno facendo uno sforzo. Prima dicevano: «Chi non è d'accordo, fuori». In questi ultimi tempi chi non è d'accordo resta con il suo disaccordo, e si cerca un modo per integrarlo. E' avvenuto un processo lento e davvero meraviglioso, e lo si deve in larga parte agli influssi esterni. La gente venuta da fuori, dall'estero, ma anche dal resto del paese, ha parlato delle proprie esperienze e ha manifestato alcune critiche al modo in cui funziona lo zapatismo. Gli zapatisti sono molto sensibili alle critiche, non dico che reagiscano bene e nemmeno che ringrazino, ma le prendono sul serio, le analizzano e cercano di cambiare.
Negli ultimi tempi ho notato questa evoluzione. Quando li ho conosciuti, all'inizio degli anni Ottanta, c'era ancora la Quiptic, che era un'organizzazione omogenea, e attraverso la Quiptic la Chiesa. In montagna siamo venuti a sapere dei crimini, i crimini religiosi commessi dall'organizzazione contro i dissidenti. In seguito, con il nostro arrivo, hanno incominciato ad ammettere che uno poteva anche non essere d'accordo ma restare, non essere un compagno ma nemmeno un nemico. Dopo il '94 è diventato possibile cercare il modo per integrare chi dissente, per tentare di mettersi d'accordo con lui su questioni diverse dal punto iniziale di disaccordo. E' un sistema per includere l'altro quando è in minoranza, perché quando è in maggioranza non ci sono problemi. Se hai di fronte la maggioranza peggio per te, la maggioranza ha parlato, si obbedisce. E' quando l'altro è in minoranza che bisogna dargli spazio. Non solo per un individuo, è lo stesso per un gruppo minoritario.
Dobbiamo imparare. Speriamo che la guerra ce ne dia il tempo... Sono comunità in guerra, e in guerra per sopravvivere; è la guerra che fissa il livello di tolleranza, per forza. Il contatto con gente di fuori deve essere calcolato secondo i momenti. Poi bisogna sapere chi si ha davanti, controllare che non entrino poliziotti. Le comunità non hanno un contatto diretto nemmeno con quelli degli accampamenti. E' l'apartheid, sono in una parte del villaggio e non escono, non possono andare dove vogliono. Soltanto alcuni sono accettati dalla comunità, dopo mesi. Tutti gli altri restano estranei. Anche questa è una camicia di forza per l'avanzata del movimento.

- Maggiore Moisés: la vita delle comunità in tempo di «né guerra né pace».
N: Da oltre due anni c'è una situazione di «né guerra né pace», con un certo spazio per fare politica, e la possibilità di organizzare le comunità in modo diverso. Che cambiamenti ci sono nella vita quotidiana, nell'economia, nella produzione delle comunità organizzate dallo zapatismo?
Maggiore Moisés: Il livello economico no, non è cambiato. E' lo stesso perché il governo si occupa soltanto di chi collabora, quelli dell'ARIC ufficiale [90]. Come se volesse creare un problema interno. E' prodigo solo con i suoi alleati. Il governo cerca un modo per far ricominciare la guerra, i combattimenti. Per i nostri il miglioramento consiste nel fatto che si aiutano fra loro, tutti danno qualcosa a quelli che non hanno niente, e in tal modo sono riusciti a resistere fino a oggi.

Y: Il governo vi ha sottratto della gente con questo sistema, dando aiuti a chi passa dalla sua parte?

M.M.: No, no. I compagni sono restati. Anzi, arrivano sempre nuove adesioni. Perché il governo si concentra su questa zona, su quelli che sono dalla sua parte qui nella Selva. E intanto dimentica gli altri, i contadini indios della C.N.C. [91] delle altre zone. La gente si rende conto che in realtà il governo non si interessa al suo destino. Arrivano nuovi combattenti, e un numero sempre crescente di zapatisti. E' questo il problema del governo: gli zapatisti sono sempre di più. ll guaio è che non vogliono essere zapatisti per dover uccidere e morire. Non vogliono la guerra, lo dicono chiaro e tondo. Ma quel signore che si chiama Zedillo, non si riesce a farlo ragionare, a farlo cedere. Fanno come hanno sempre fatto. Di buono, i nostri hanno ottenuto la libertà di organizzarsi come vogliono. Non interviene più nessuno, né il giudice, né il procuratore, né il sindaco, né il governatore, né il governo federale: nessuno interviene negli affari civili, qui.

Y: Chi si occupa della giustizia, della scuola, della sanità?

M.M.: I compagni consiglieri municipali. Si sono organizzati per adempiere il mandato conferito dalla comunità. E' molto bello il modo in cui esercitano la democrazia. Nelle comunità si riuniscono in assemblea ed eleggono un rappresentante, la persona che vogliono. Quando lo hanno nominato, gli chiedono di manifestare la sua volontà. Se il compagno, o la compagna, accetta la carica, registrano l'accordo della comunità secondo cui in avvenire il compagno dirigerà, ma obbedendo all'assemblea. In questo modo si rendono conto dell'esistenza di alcune cose che riguardano anche altre comunità...

Y: Sì, ma i soldi? Il governo i soldi li ha, ma voi?

M.M.: Noi abbiamo la collaborazione... Per esempio, qui, in questo momento, c'è un gruppo per la formazione di istruttori. Hanno un laboratorio di conceria, perché muoiono delle bestie e bisogna recuperarne le pelli. Un laboratorio di sartoria. C'è un gruppo di apprendisti, e una volta che hanno imparato, portano quello che sanno fare in un'altra regione. Si va avanti così.

Y: D'accordo, ma non è pericoloso non accettare alcun servizio che provenga dallo Stato? Le comunità sono piuttosto povere. Per loro è un prezzo molto alto... per esempio, chi paga i maestri? I servizi sanitari? Non è chiedere uno sforzo eccessivo alle comunità?

M.M.: Sono state le comunità a decidere. La gente ha detto: i nostri compagni combattenti sono andati a battersi, e noi dobbiamo lottare per dimostrare che siamo ribelli. Quindi non accetteremo niente da loro.
E hanno mantenuto la parola. Una volta detto che intendevano dichiarare la resistenza l'hanno fatto, e se arriva un progetto qualsiasi dal governo, rifiutano. Quando gli inviati del governo tornano per chiedere loro «non accettate?» rifiutano sempre.

Y: Non sarebbe più logico chiedere al governo che fornisca i servizi affidandone il controllo alla comunità?

M.M.: Sì, è esattamente questo il punto. Nell'accordo di San Andrés... che tra l'altro è stato firmato... E' quello che vogliamo, proprio quello che diciamo noi. Ma non hanno fatto niente. La gente vede bene che il governo non vuole risolvere niente, dare niente.

Y: Dà qualcosa a condizione che si entri nel suo gioco.

M.M.: Vuole mantenere il controllo. E la gente dice: perché? Hanno già visto, hanno già detto di sì, hanno già accettato. E poi non si tratta solo di noi, è per tutto il Messico. A San Andrés abbiamo stabilito che cosa ci vuole per lo Stato del Chiapas, e che va bene anche a livello nazionale.

Y: In una situazione del genere, le comunità possono reggere un anno, due, ma alla lunga la gente si stanca. Si stanca e si isola. Non correte il rischio di restare tagliati completamente fuori dalla società e di mantenere soltanto delle piccole sacche zapatiste isolate dal resto del paese, e sostenute solo dagli aiuti internazionali, dalle ONG e organismi simili?...

M.M.: L'eventuale pericolo è che il governo agisca in modo brutale, se non vuole davvero cedere niente. Il rischio è che dia l'ordine al suo esercito di agire, è facile, si trova già sul posto. Forse accadrà presto, perché qui l'esercito sta facendo molti danni, e quando i soldati cambiano un po' vengono sostituiti. Ci sono posizioni molto diverse, e la decisione dei compagni dipenderà da questo...

Comandante Tacho: sulla «democrazia comunitaria».
Y: Volete anche, immagino, che vengano riconosciute le forme di elezione specifiche delle comunità.
Comandante Tacho: Sì. Nei villaggi gli indios nominano davvero i loro dirigenti, si fa l'assemblea di uomini e donne, e l'elezione è democratica. Hanno la loro tradizione. Secondo noi è l'unica ancora viva, sana, reale del Messico. Le altre non esistono più. E' l'unica forma sana che resta in questo paese, anche se non è contemplata dalla legge.

Y: Questo modo di scegliere i responsabili esiste ancora qui nella Selva?

T: Sì, soprattutto nella zona zapatista, in questa zona della Selva. E' così in tutti i villaggi zapatisti, dove ci siamo formati noi. Faccio parte di una comunità insieme alla quale ho vissuto questo modo di eleggere e questo modo di rispettare: è una cultura politica, che si tramanda da molto tempo. Il nemico non può distruggerla, come non è riuscito a distruggere noi, gli indios. E' sempre viva. Questa ricca cultura democratica si conserva nei villaggi e da essa si deve attingere per altre zone, per i comuni. Diciamo anche che le autorità devono rendere conto al popolo, qui si fa così. Questa cultura politica viene dalla base dei villaggi indigeni.

Y: Nella tradizione però esistono forme non molto democratiche di eleggere i capi e di amministrare il potere.

T: Sì, è vero. Ma quando nei villaggi arriva lo zapatismo si incomincia a far partecipare le compagne, per esempio. Prima non prendevano parte alle decisioni. Lo zapatismo comprende tutti, le donne, i giovani. Prima gli uomini erano i soli a governare, e tutti dovevano obbedire alle loro decisioni. Ora non più. Adesso il rappresentante rappresenta gli altri, per esempio di fronte alle istituzioni, ma nel villaggio il suo unico lavoro è di organizzare quello che va fatto, non comanda.

Y: Come don Tacho quando ha organizzato l'Incontro intergalattico!

T: Organizzare le cose perché gli altri vengano, stiano bene, possano riposarsi... Esattamente. Le autorità ci sono per gestire, per proporre al popolo: «Bisognerebbe fare una scuola, avremmo bisogno di una stanza, d'accordo?». Propongono, ma è la gente a decidere, a dire se l'edificio deve essere costruito a nord o a sud. Noi vediamo le necessità e proponiamo, ma poi deve decidere il popolo.

Y: Ci sono villaggi in cui a decidere, a comandare, sono invece gli anziani o i cacicchi? [92].

T: In ogni regione, in ogni zona, abbiamo diverse forme di organizzazione e di governo. Una negli Altos, un'altra nel Nord, una nella Selva di Ocosingo e un'altra ancora nella Selva de Las Margaritas. In certi luoghi ci sono ancora le maggiordomie degli anziani [93]. Rispettiamo anche queste forme, è una cultura diversa, e non si può imporre loro di cambiare. Se funziona va benissimo, facciano pure a modo loro. Noi rispettiamo le loro scelte. Per noi, l'importante è che l'autorità sia eletta e si metta al servizio del popolo; e che lo informi. Abbiamo l'abitudine di dare una piccola somma per le esigenze della collettività, la chiamiamo «contributo» e la paghiamo tutti i mesi per i servizi, per i trasporti... C'è un tesoriere, un commissario, un segretario, un consiglio di sorveglianza. Devono comunicare se questo mese abbiamo speso quattromila pesos o tremila, giustificare le spese. E' un modo per evitare la corruzione. Bisogna diffondere questa forma di democrazia dei villaggi, allargarla alla vita nazionale del paese, rispettando le diverse forme di organizzazione, di decisione, i modi diversi di fare politica. Teniamo conto di queste cose. Non vogliamo essere l'avanguardia, soltanto diventare una forza politica in più nella vita del paese, dare il nostro contributo.

Y: Tuttavia possono esserci dei problemi. Per esempio con i tradizionalisti. Prendiamo il caso di San Juan Chamula: lì hanno le proprie usanze religiose e politiche, respingono ed espellono chiunque la pensi diversamente. Che cosa si fa in una situazione di conflitto come quella?

T: Il problema è che in quel comune hanno certa gente... come posso dire, è un villaggio indio molto corrotto, sono cacicchi che hanno imparato dal sistema. Non cambiano. Quest'idea è penetrata nella loro testa, nel loro cuore. Ci sono pochi villaggi simili. Se fossero tutti così non sapremmo che cosa fare. Ma la maggior parte non si comporta in questo modo.
Secondo noi bisogna estendere la democrazia comunitaria alla vita nazionale. Ci sono altre forme, certo, c'è la forma elettorale. La rispettiamo, non siamo contrari. Il nostro obiettivo è unirci e far rispettare le nostre diversità. Solo così potremo arrivare tutti insieme alla democrazia senza escludere nessuno. Unirsi, ecco l'importante. Durante la trattativa su «democrazia e giustizia» abbiamo fatto un Forum cui hanno partecipato parecchi partiti politici e organizzazioni, per proporre le loro idee [94]. Quel che vogliamo è costruire davvero questa democrazia tutti insieme, che sia pluralista, che sia inclusiva, che combini molti modi diversi per arrivare alla democrazia. Una democrazia possibile fra tutti, perché la democrazia solo di alcuni la conosciamo già. Non vedo come potremmo arrivarci per mezzo di un partito politico, se i partiti non ci sono arrivati in tutta la storia del Messico...

LO ZAPATISMO OGGI: URGENZA DI UNA DEFINIZIONE
- La classe politica e la società.

Marcos: L'idea di democrazia non deve essere subordinata alla dinamica interna della classe politica: la società dovrebbe avere un ruolo preponderante, che oggi è detenuto dal governo e dai partiti politici. I partiti fissano le proprie regole fra loro, si spartiscono il potere e soltanto dopo entrano in rapporto con la società. E' cambiata soltanto una cosa: prima il governo decideva autonomamente che cosa fosse la democrazia, che cosa fossero le elezioni. Recentemente ha concesso un po' di spazio ai partiti politici, ma la società è sempre assente. La classe politica fa ancora la parte del leone. E le cose devono cambiare.
Perché se la società incomincia a procedere in una direzione, e lo Stato, il sistema politico, in un'altra, le linee divergono anziché convergere. Al punto che si parla di due paesi, il Messico virtuale della classe politica con i suoi grandi successi economici e la sua crescita del 7,5 per cento, e il resto della società che non vede la minima traccia di crescita economica.

Y: In questo contesto che cosa pensa degli accordi di Bucareli? [95] Sono un modo per chiudere ulteriormente il gioco ed escludere gli esclusi?

M: Sì. Il governo allarga un po' il cerchio di quelli che decidono, conglobando quattro partiti politici e altri elementi «satellitari». Se si vuole fare politica in Messico bisogna farla con loro, accettandone le regole, e chi non entra nel gioco non viene ammesso.

Y: Fuori Marcos, fuori Camacho...

M: Fuori il centro, le forze sociali, le organizzazioni non governative, l'Alleanza civica [96], tutto quello che non fa il loro gioco. Fuori tutto quello che non si può cooptare. In questo senso, la riforma politica è una riforma del potere per il potere, dove la società resta assente. Non soltanto è antidemocratica, ma nella situazione di crisi attuale è anche inefficace. Il governo e il sistema politico, compresi i partiti, vivranno in un paese che non esiste, costruiranno la propria realtà politica mentre il resto del paese si muoverà in un'altra direzione. E secondo noi il resto del paese tenderà spontaneamente o verso il caos - ciascuno per sé, tutti contro tutti - o verso la costruzione di forme di governo proprie. Fra il caos e il sistema esistente, noi proponiamo di costruire altre forme di governo; c'è l'esperienza dell'Esercito zapatista che può ampliarsi, per organizzare non più la guerra, quanto piuttosto la resistenza.

Y: E in questa ricomposizione, non escludete il sistema rappresentativo, il voto individuale, i partiti politici?

M: Certo che no. Ma vediamo che i partiti imboccano una direzione e la gente un'altra. E comunque ci sono le elezioni. Nel processo elettorale, il sistema politico deve confrontarsi con la società per legittimarsi, i partiti sono obbligati a rivolgersi alla gente. Sono previste delle elezioni nel '97, poi le presidenziali nel 2000, se nel 2000 il paese esisterà ancora! E' un momento di convergenza obbligata, in cui la società dovrà esigere che vengano prese in considerazione queste forze politiche, esigere l'apertura di uno spazio per le forme di democrazia che pur non avendo un calendario elettorale esistono, le forme di democrazia che dobbiamo sostenere se non vogliamo il caos. Alleanza civica, per esempio, è un fenomeno molto interessante. E' un'organizzazione nata per sorvegliare lo svolgimento delle elezioni e si è guadagnata un'autorità morale impressionante. Quando fa il bilancio delle elezioni, la gente le crede. Non crede al governo, ma crede ad Alleanza civica. E' riuscita anche a organizzare consultazioni e referendum su diversi aspetti della vita nazionale, e anche a dialogare con un'organizzazione armata. E' l'unica alleanza dell'E.Z.L.N. con un'organizzazione esterna che abbia dato risultati. Con il P.R.D., il P.T., le ONG, ci siamo visti non so quante volte, ci hanno fotografati insieme, ma non c'è nulla di concreto. Con Alleanza civica non abbiamo mai fatto foto, ma abbiamo fatto insieme la Consultazione [97].

- «Siamo un casino».
Y: Lei sta toccando un punto molto interessante: come cambiare il potere senza prendere il potere? Forse la risposta è che siete un movimento per i diritti civili, un po' come Martin Luther King, che in certa misura ha mutato i rapporti di potere senza proporsi di prendere il potere. In altre parole, un movimento certamente politico, ma non di «politica da politici» come dicono in Francia, né un partito politico. Quanto ha detto su Alleanza civica mi ha fatto pensare che potrebbe essere una buona definizione per voi: non soltanto un movimento sociale, non più un movimento guerrigliero ortodosso, e non certo un partito politico: possiamo dire che siete un movimento politico senza essere nulla di tutto questo?

M: Noi diciamo che siamo un allegro casino! Rispetto alla nostra composizione sociale siamo un movimento armato indio, o a maggioranza india; politicamente, siamo un movimento armato di cittadini con esigenze da cittadini. Quando un cittadino si lamenta della polizia non si propone di diventare poliziotto, chiede solo che la polizia faccia il proprio lavoro. E' un po' l'idea dell'E.Z.L.N.. Noi critichiamo il potere ma non per soppiantarlo, vogliamo semplicemente un potere che faccia il suo lavoro, che sia al servizio della società come i pompieri o i dipendenti di una pubblica amministrazione. Quando la gente protesta contro un impiegato a uno sportello, non pensa «datemi il suo posto», ma «metteteci qualcuno che faccia il suo lavoro». Sono esigenze civiche, ma molto radicali.
Intendevo dire proprio questo con l'esempio di Alleanza civica: è un'organizzazione civica, uno spazio organizzato di lotta civile e pacifica. Ci sono altri movimenti non governativi che organizzano la gente. Non per commettere crimini o per fare la guerra, ma ciò nonostante non viene loro riconosciuto alcuno spazio nella politica messicana. Incominciano appena a conquistarsi un posto nell'opinione pubblica, nei mezzi di informazione e in misura inferiore nella classe politica, ma non hanno uno spazio di partecipazione politica. Per esempio, il gruppo di Jorge Castaneda, che è un gruppo di opinione, di impegno per la nazione, o il gruppo di Camacho: a meno che non entrino in una logica di partito, non hanno alcuna possibilità, pur rivestendo una funzione molto importante oggi in Messico.
Tutte queste forze politiche, come pure lo zapatismo o l'E.P.R. o qualsiasi altra organizzazione politica radicale, di sinistra, di centro, di destra o di quello che vuoi, hanno bisogno di spazio perché altrimenti soffocano, e se soffocano la società si smaglia. Secondo noi il potere tira in una direzione, e la società in un'altra. Ci stiamo avviando a un processo di disgregazione sociale prossimo a una guerra civile; e forse ci siamo già in mezzo. Secondo noi, anche se la guerra fredda non era una guerra in senso classico, di fatto è stata la terza guerra mondiale. Nello stesso modo noi siamo nel pieno di una guerra civile, abbiamo un livello di disgregazione sociale paragonabile a una guerra civile.
La società deve organizzarsi per resistere. E' l'esempio di Juarez di fronte all'invasione francese: sceglie di non colpire frontalmente l'esercito francese, di resistere, di attendere che sia stremato e che il processo di logoramento in Francia lo costringa a ritirarsi. E' la stessa idea, ci richiamiamo spesso a questo esempio. Juarez, in fondo, si è limitato a far sì che il paese restasse organizzato in condizioni molto difficili, a impedire che si disgregasse. Noi diciamo: in questo momento la gente va organizzata per resistere, e in seguito dovrà essere organizzata per esercitare il potere. Per ora non c'è nulla da esercitare, e dopo la riforma elettorale ancora meno di prima. Il fatto di votare non permetterà di risolvere i problemi di disgregazione sociale, e poiché il governo continua a seguire la stessa logica, le cose non cambieranno. E' il motivo per cui, secondo noi, bisogna organizzare la società: non per chiedere qualcosa al governo (e in questo prendo le distanze dal populismo), ma per risolvere i problemi anche se il governo non lo fa. Vogliamo la terra, la casa, la sanità, l'istruzione e tutto il resto, il governo ha il dovere di assicurarli al popolo, ma che lo faccia o no, le comunità zapatiste lavorano per risolvere il problema con i propri mezzi. E' il tipo di cose che dovrebbe fare il resto della società, organizzarsi per resistere al processo di disgregazione prima che diventi irrimediabile. Prima dell'incubo.

- Resistenza e apertura.
Y: Resistere d'accordo, ma per ora la forza dello zapatismo è anche quella di proporre iniziative, e non solo di resistere. Lo zapatismo può anche logorarsi nella resistenza.

M: Lo zapatismo, come qualsiasi altra forza, deve prendere continuamente iniziative per conservare la propria presenza politica e ampliare il proprio orizzonte. Resistere non significa «chiudersi e aspettare». Resistere isolati significa rinunciare alla vita. Noi non possiamo obbligare il governo a comandare obbedendo, ma possiamo prendere iniziative, e per farlo bisogna allargare lo spettro delle forze politiche. Régis Debray ci diceva che qualsiasi forza politica, tanto in Messico quanto altrove, deve aprirsi a rapporti con tutto l'arco politico, inclusi i suoi nemici, perché questo le dà la possibilità di resistere. Ha perfettamente ragione. Non si tratta di abbandonare una linea politica, ma di costruire dei rapporti.
Penso che la sinistra debba affrontare il medesimo problema a livello mondiale: ovunque si osserva lo stesso settarismo, tutti diffidano di tutti, temono le tentazioni di egemonia, di farsi rubare il primo posto, di farsi strumentalizzare. Noi riteniamo di poter parlare di qualsiasi cosa con i partiti o le altre forze sociali, a condizione che ciò avvenga in modo onesto e che ci rispettino. Non se ci trattano come dei poveri miseri indios assediati che vanno soccorsi. Devono riconoscerci in quanto forza politica, e parlare francamente. Noi non limitiamo i nostri rapporti a chi ci avvicina con buone intenzioni, siamo pronti a parlare anche con chi vuole servirsi di noi. Purché lo dica.

- Una «locanda spagnola».
Y: Lei ha detto che lo zapatismo è un allegro casino, mi chiedo se non sta rischiando di diventare una «locanda spagnola», come diciamo in Francia, un ristorante dove ciascuno si porta da mangiare. Lo zapatismo non ha bisogno di definirsi?

M: Sì, ma bisogna pensare al processo avvenuto nel '94, all'incontro fra lo zapatismo armato e lo zapatismo civile, fra lo zapatismo e il mondo nuovo che abbiamo scoperto nel '94. All'epoca abbiamo ritenuto fosse necessario dare accesso a idee di tutti i generi perché non capivamo che cosa stesse succedendo. Ripetevamo a dieci anni di distanza quello che avevamo fatto nel 1984 di fronte alla realtà india: non capiamo, dobbiamo imparare. E per imparare bisogna aprirsi a tutti. Ovviamente questa indeterminatezza non può durare molto a lungo.
Anche se fossimo più definiti, dovremmo riuscire a mantenere il dialogo con tutte le correnti della sinistra e anche del centro. Oggi la gente cerca di avvicinarci perché si riconosce in noi: gli anarchici considerano l'E.Z.L.N. un movimento anarchico, i trotzkisti individuano chiaramente l'influenza di Trotzki, i maoisti riconoscono le posizioni maoiste portate alle estreme conseguenze, i leninisti leggono una concezione leninista, insomma, ciascuno vede un aspetto, una forma dello zapatismo che lo rispecchia e lo attira.
Arriverà il momento in cui l'E.Z.L.N. dovrà acquisire il proprio volto, senza però perdere l'apertura verso un mondo pluralista, tollerante, multicomprensivo. Il passamontagna troverà il suo limite, non parlo del passamontagna materiale, ma dello zapatismo inafferrabile che in un modo o nell'altro deve concretizzarsi. L'altro giorno sono rimasto molto colpito quando alcuni francesi mi hanno detto che è la nostra indeterminatezza a permetterci di sopravvivere.

Y: E' una posizione estetica difficile da sostenere politicamente.

M: Impossibile! Sono cose che non durano a lungo. Mi ricordo come nell'ottobre del '94 dicevo a Carmen Castillo che quello che vedeva, il territorio zapatista protetto, non poteva durare. Non potevamo mantenere il potere su un frammento di territorio all'interno dello Stato messicano. O ci facevano a pezzi, o si sarebbe diffuso altrove... e non sembrava doversi diffondere. Attualmente abbiamo questa indeterminatezza che non può durare in eterno: una forza armata clandestina che fa un lavoro politico; un esercito che non fa la guerra, impegnato nel processo di pace; un'organizzazione con un piede nell'illegalità e l'altro nella legalità grazie alla legge per il dialogo [98], un piede nella clandestinità con l'E.Z.L.N. e l'altro nella lotta aperta con il Fronte zapatista. E' così. Solo che le due barche incominciano ad allontanarsi l'una dall'altra. Dovremo scegliere, passare in una delle barche o finire in acqua.
Secondo alcune persone che conosco esiste una contraddizione fra il discorso democratico, tollerante, multicomprensivo dell'E.Z.L.N. e i suoi metodi autoritari, militaristi. Ma anche nel discorso dell'E.Z.L.N. ci sono aspetti molto duri, dogmatici, dottrinali, e altri molto aperti, molto semplici... Ripetiamo che bisogna essere tolleranti, che non siamo l'avanguardia, ma nelle nostre critiche ad altre forze politiche talvolta diamo l'impressione di considerarci tali.
L'E.Z.L.N. è attraversato da contraddizioni a tutti i livelli... Credo che queste siano le principali. Forse proprio l'indeterminatezza ha permesso l'esistenza del mondo caotico ma veramente ricco in cui abbiamo vissuto nel '95 e nel '96. Ma se continua a lungo, lo zapatismo può diventare indefinito al punto che nessuno si riconoscerà più in esso.

Y: Praticamente tutti, dentro e fuori, vi chiedono di definirvi! Nel «tutti» includo l'estrema sinistra, e anche la ricomparsa di gruppi come l'E.P.R. vi impone di definirvi.

M: Sì, tutto indica che dobbiamo definirci, ma nulla ci dice come, per andare dove. La politica seguìta dal governo durante il dialogo ci fa pensare che scegliere la via della lotta politica sia un'illusione, un tranello. E la politica dell'estrema sinistra, dei gruppi armati, ci fa pensare che non dobbiamo nemmeno orientarci verso la lotta armata, che le azioni militari di un tempo non hanno più alcun consenso e alcuna risonanza, a parte lo scalpore immediato. In fondo a fare rumore non sono le prese di posizione dell'E.P.R. rispetto al governo, quanto piuttosto le domande: «Che cosa dice l'E.P.R. dell'E.Z.L.N.?» o «Che cosa dice l'E.Z.L.N. dell'E.P.R.?». Come progetto politico non ha alcun impatto sulla gente. O almeno non ancora, forse bisogna aspettare. In ogni caso, non possiamo scegliere di tornare a essere una forza militare come prima, come l'E.P.R. Non possiamo neanche trasformarci in una forza politica come il P.R.D. E allora che facciamo?
Nell'attesa, cerchiamo di imparare ad ascoltare: chiedere che cosa pensa chi ci è vicino, o chi ci è meno vicino ma ha un'opinione, tracciare una mappa della situazione nazionale e internazionale. Il vecchio Antonio nella sua storia dice che il problema è quando guardare la stella e quando guardare il dito che la indica, e Marcos risponde: «Ho guardato soprattutto il tasso che viene a mangiare il tuo granturco». Gli zapatisti sono sommersi dai problemi immediati, e questo impedisce loro di vedere il resto, di decidere se guardare la stella o guardare il dito. Per esempio, durante l'Incontro intercontinentale, invece di riflettere sul genere di iniziative o di messaggi da proporre, ci preoccupavamo per questioni pratiche e immediate: se la gente restava bloccata troppo a lungo alla frontiera, se era sfinita, se faceva troppo caldo... Quando trattiamo, siamo assorbiti da minuzie militari, ci chiediamo che cosa significhi una data manovra di un elicottero... O per esempio l'atteggiamento dei soldati nella colonna militare che è passata ieri, perché il 13 agosto abbiamo rivisto dei tank, per la prima volta dal febbraio del '95, nel convoglio che attraversava il villaggio... Tutto questo ci impedisce di risolvere il resto, ma non possiamo nemmeno restare così per molto tempo.

- Un movimento, non un partito.
N: Anche la concezione zapatista della democrazia è un po' una «locanda spagnola», sarebbe necessaria una riflessione sul meccanismo istituzionale globale, l'articolazione fra democrazia rappresentativa, democrazia sociale... Mi ricordo che al primo congresso del sindacato polacco Solidarnosc hanno proposto di creare, accanto al parlamento, un senato con rappresentanti eletti dalle fabbriche. E' un esempio di meccanismo istituzionale, voglio dire, al di là dell'apertura di spazi d'opinione e di spazi politici ci vuole un'idea articolata delle diverse forme di democrazia.

Y: Avete tentato di farlo nel Forum sulla riforma dello Stato e anche nel quadro del dialogo, ma forse in modo un po' diluito. No?

M: In modo molto aperto. Abbiamo detto: ecco il tavolo, chi vuole partecipare si accomodi. Non è stato inutile, hanno avanzato proposte nuove, o nuove per noi, ma non abbiamo messo insieme una proposta di accordo, anche perché esiste la paura dell'egemonia, e l'unica forza riconosciuta da tutti come autorità morale è l'E.Z.L.N., che è armato e clandestino. Per le organizzazioni sociali, specialmente le ONG, è un problema: vorrebbero discutere con noi, ma non possono venire a incontrarci, creerebbe loro difficoltà con l'esercito...
Secondo noi in Messico ci sono altre personalità che potrebbero svolgere questo ruolo se rinunciassero esplicitamente agli interessi di partito; ma è proprio quello che esse non sono disposte a fare. Persone come Camacho, come C rdenas... C rdenas potrebbe assumere la guida di un movimento sociale, sociale e politico, ma è troppo legato al P.R.D., e il P.R.D. è quello che è. Marcos è legato all'E.Z.L.N., non lascerà l'E.Z.L.N., e C rdenas non lascerà il P.R.D.
A nostro parere la gente vuole che diciamo la verità, e che apriamo uno spazio di partecipazione. In altre parole che non la strumentalizziamo e che l'ascoltiamo. Noi ci proviamo, ma non possiamo spingerci oltre, il nostro orizzonte è costituito dal passamontagna e dalle armi: è questo il nostro limite.

Y: Il Fronte è un tentativo di superare questo limite?

M: Sì, con lo stesso problema d'indeterminatezza. La posizione fondamentale del Fronte è che non esiste organizzazione politica, bisogna costruirla insieme. Il P.D.R.P., Partito democratico popolare rivoluzionario [99], o l'E.P.R. hanno un progetto, una organizzazione con il suo organigramma, eccetera. Il Fronte invece non dice: «Questa è la nostra dottrina, questi siamo noi. Chi vuole entrare?». Dice: «Noi non vogliamo il potere. Perciò riflettiamo sul tipo di organizzazione che vogliamo e costruiamola tutti insieme». E' di nuovo la «locanda spagnola» che deve definirsi.

Y: Magari un movimento anziché un partito. O no?

M: Esattamente, un movimento che ben presto dovrà definirsi. Per il momento il Fronte sa quello che non è, ma non quello che è. E' alla ricerca della propria identità. Noi pensiamo che in ultima analisi né il Fronte né l'E.Z.L.N. potranno mai avere identità distinte. Uno darà identità all'altro e viceversa, un'identità nuova e congiunta.

Y: Quindi per il momento siete costretti a combinare l'elemento militare, il fatto di essere armati, con quello sociale e politico. Sul piano militare siete una forza simbolica, le armi e i passamontagna vi conferiscono una certa legittimità di fronte al paese. Sul piano sociale non sembra che le battaglie sociali siano confluite verso lo zapatismo, e sul piano politico c'è l'indeterminatezza di cui parlavamo. Non potete rinunciare a nessuno dei tre aspetti.

M: No, e con il passare del tempo diventerà anche peggio. Per esempio, c'è stato il Forum; è politica, l'E.Z.L.N. riesce a dialogare con forze sociali di tutto il ventaglio, con il centro e tutta la sinistra. Anche la destra ha parlato con noi, alcuni deputati del P.R.I. e del PAN, ma non hanno reso pubblica la questione. Sono venuti a vedere perché erano interessati alla transizione, alla democrazia... Poi c'è San Andrés, dove il governo riprende la sua politica del disprezzo, come se ripartissimo da zero. Non presenta alcuna proposta sulla questione della democrazia, adducendo il pretesto che l'E.Z.L.N. è un'organizzazione «locale». Nemmeno una proposta per risolvere i problemi del Chiapas o dei comuni della «zona di guerra», niente.
Dopo si arriva a un punto morto. C'è l'intermezzo dell'Incontro intercontinentale, di cui dobbiamo ancora fare il bilancio. Dal punto di vista della partecipazione è stato un successo, ma quanto ai risultati politici non lo sappiamo ancora. Subito dopo, nuova sessione a San Andrés. E' il momento in cui si decide la riforma elettorale. Perciò i partiti incominciano a concentrarsi sulla scelta dei candidati per le legislative del '97, per il governatore del D.F. [100] e così via.
E l'E.Z.L.N. si ritrova solo. Ma se resistiamo fino al '97 ci sarà per forza un'altra convergenza. Perché nel frattempo l'E.Z.L.N. mantiene la propria autorità morale e rimane il punto di riferimento morale, etico, politico, per molta gente. Torneranno tutti a parlarci, perché sarà nel loro interesse. Se esisteremo ancora.
Nell'attesa, non possiamo fare nulla con i politici, sono assorti dai problemi interni, la cucina elettorale. Dal canto loro, anche la società, le organizzazioni sociali e politiche apartitiche incominceranno ad andare avanti da sole. Nell'imminenza del luglio '97 i partiti politici riprenderanno a cercarle. Il nostro ruolo è di gettare dei ponti. A livello nazionale e internazionale, è l'unica cosa da fare. Per sopravvivere, l'E.Z.L.N. deve gettare ponti in tutte le direzioni.

QUALI CAMBIAMENTI?
- Il movimento sociale in panne.

N: Dall'esterno ho l'impressione che la mobilitazione sociale e politica si sia un po' indebolita negli ultimi due anni. E' vero?

M: Credo di sì. Si è indebolita perché non ha ottenuto alcun risultato. Le forme d'azione sono sempre le stesse, manifestazioni, marce, comizi, occupazioni, lettere, dichiarazioni alla stampa. Il governo ha sviluppato una specie di cinismo, possono esserci migliaia di persone in piazza e lascia correre, non le reprime ma le ignora. In fondo queste mobilitazioni vengono organizzate per presentare richieste al governo, e se il governo non ascolta o non ne tiene conto si esauriscono. In due anni e mezzo il movimento sociale ha subito un logoramento enorme. La società civile, secondo me, è sempre scontenta come prima, altrettanto insoddisfatta e ancora meno fiduciosa. Non si è ancora fatta luce sull'assassinio di Colosio, hanno detto un sacco di bugie riguardo alla crescita economica e al resto... Mancano iniziative che approdino a qualcosa, che ottengano un risultato concreto. Almeno qualcosa che dia la vera misura del malcontento sociale, un referendum contro il neoliberismo, una consultazione in cui ciascuno possa esprimersi sulla politica neoliberista.

- Rivendicazioni e volontà d'autonomia.
Y: Anche per voi sarebbero necessari dei risultati nel Chiapas, no? Vi criticano perché non avete dato impulso, come per esempio la COCEI
[101], a una politica socioeconomica per lo sviluppo; alcuni zapatisti affermano che la prossima iniziativa non deve essere intergalattica ma chiapaneca... A questo proposito, vorrei parlare della vostra decisione di rifiutare tutto ciò che proviene dal governo. Non è pericoloso? C'è il governo, d'accordo, ma lo Stato? La sanità, per esempio, è un diritto, potreste esigere dallo Stato la fornitura dei vaccini; lo stesso vale per la scuola. Sul piano politico non mi pare molto efficace la vostra scelta di basarvi soltanto sulla comunità e sugli aiuti internazionali, gli aiuti umanitari.

M: Ma noi non rifiutiamo quello che proviene dal governo: sappiamo però che non arriverà niente. Il governo ci darà soltanto quello che riusciremo a strappargli per mezzo della pressione sociale. E' il motivo per cui dialoghiamo: dare impulso allo sviluppo di un movimento che lo obblighi a cedere, per esempio su programmi relativi alla sanità. Non rifiutiamo niente, ci limitiamo a servirci della resistenza come strumento di pressione, secondo la tradizione che abbiamo ereditato. In fondo sono sessant'anni che sopravviviamo senza programmi sanitari; siamo sempre sopravvissuti, non solo in questi ultimi tre anni di guerra, e abbiamo resistito. E' vero che il tasso di mortalità non è calato, salvo forse nel '94, quando gestivamo le cose direttamente. Negli ultimi tre anni la mortalità infantile non è diminuita, ma non si è nemmeno aggravata... possiamo mantenerla stabile. Quel che è certo è che il governo non darà niente alle comunità indie se non ci è costretto. Perché non sono redditizie. Costruisce l'ospedale di Guadalupe Tepeyac, ma nel momento in cui Salinas conclude l'inaugurazione, tutte le attrezzature ripartono... Perché se si cura la gente di qui i giornali non ne parlano e non se ne ricava nulla. Che senso avrebbe per il governo investire in programmi sociali se il destino della Selva è lo sfruttamento petrolifero o l'apertura di miniere di uranio?

Y: Per ottenere voti, hanno sempre fatto una politica clientelare...

M: Sì, ma dato che ragionano, sanno che se non firmano un accordo con gli zapatisti possono perdere le elezioni anche se spendono tutti i soldi del mondo, perché la popolazione è zapatista. Perciò ci vuole un movimento sociale che imponga al governo di investire, di spendere in servizi sociali pur sapendo fin dall'inizio che non ne otterrà alcun vantaggio economico o elettorale. Ci vogliono programmi sanitari e di approvvigionamento efficaci, ma tutto dipende dalla pressione sociale. Per il momento, spendono milioni, ma ogni funzionario preleva la sua parte, e quando i fondi arrivano ai villaggi, in pratica non è rimasto niente.

Y: Tuttavia, benché abbiate imboccato la strada opposta rispetto ai guatemaltechi, rischiate di ricadere nella trappola delle «comunità delle popolazioni in resistenza» [102] dell'Ixc n, dall'altra parte della frontiera, ed è molto pericoloso. Rifiutando di dipendere dallo Stato si rimane isolati e si finisce per dipendere dagli aiuti internazionali, ma questo non risolve niente perché la soluzione politica sarebbe quella di rivendicare i propri diritti.

M: La resistenza mira soprattutto a fare pressione sulla società perché essa faccia a sua volta pressione sul governo. Direttamente, il governo non cederà niente.
Ricordati che il dialogo di San Andrés incomincia nell'aprile del '95. Già allora Bernal, che all'epoca dirigeva la delegazione governativa, ci minacciava: se non avessimo firmato in fretta gli accordi, avrebbe messo a punto un sistema di aiuti sociali senza gli zapatisti. Nove mesi dopo, al momento di fissare il calendario dei negoziati, il governo non ha voluto che il primo punto fosse «Benessere e sviluppo»; lo ha relegato all'ultimo posto, il terzo, dopo la questione dei diritti degli indios e quella della democrazia. Ancora non era prevista la quarta parte, sulla questione femminile; l'abbiamo ottenuta dopo, quasi a forza. Insistiamo finché possiamo, loro riprendono a minacciare di gestire programmi sociali senza di noi. Stiamo ancora aspettando... Non l'hanno fatto perché se ne fregano, il capitale finanziario internazionale non darà loro del denaro per mantenere gli indios... a meno che non sia la situazione politica a imporlo.
Se avessero voluto, in un anno avrebbero avuto il tempo. E potrebbero anche adesso, l'esercito è qui, non possono nemmeno dire che siamo noi a bloccarli... Non fanno niente, nemmeno per i villaggi che sono dalla loro parte.
Certo che è un dovere dello Stato fornire a tutti i cittadini servizi come la sanità, le strade, una rete produttiva e commerciale. Le comunità indie ne hanno diritto come gli altri. Ma gli indios sono cittadini particolari. Non rendono. L'unica ragione per occuparsene sarebbe riconquistare il controllo politico, ma questo comporta innanzitutto la liquidazione dello zapatismo come organizzazione.
Perché il governo si decida, bisogna creare un movimento sociale. In realtà il movimento di resistenza preme non tanto sul governo quanto sulla società, ma... la società resiste!

- Lontano dal mondo operaio.
N: C'è un settore che per il momento resta escluso anche dal discorso zapatista, il settore delle "maquiladoras" [103]. Dipende da particolari difficoltà?

M: Lo zapatismo fatica ad attecchire sul movimento operaio in generale, non solo sulle "maquiladoras". Ha un forte impatto nelle comunità indie, fra gli impiegati, gli insegnanti, gli intellettuali, gli artisti, ma non nella classe operaia messicana. Immagino che ciò dipenda dalla mancanza di una tradizione operaia nello zapatismo. Abbiamo radici indie e radici urbane, manca invece l'eredità operaia, non possiamo costruire un discorso artificiale per la classe operaia. Non abbiamo mai trovato il modo di entrare in contatto con la classe operaia, né con i settori regolari né tantomeno con gli altri, dissidenti, radicali, disorganizzati o supersfruttati come le "maquiladoras". E' un fallimento evidente.

N: Magari dipende dal fatto che il discorso zapatista è postclassista? Nazione, umanità, società civile, un nuovo tipo di gruppi sociali.

M: Non siamo nemmeno riusciti a fare in modo che i soldati riprendessero quella parte del discorso che li riguarda, le idee della patria, della nazione.
La distanza è sempre la stessa, forse si potrebbe spiegare con la situazione degli operai in Messico, ma equivarrebbe a dare la colpa agli operai. Io credo invece che tutto dipenda proprio dal discorso zapatista. Non sappiamo come rivolgerci agli operai perché non li conosciamo, non abbiamo operai. E' chiaro fin dall'inizio, dal gennaio del '94. Pochissimi operai sono venuti alla Convenzione. I sindacati hanno sempre tenuto le distanze con noi, anche i sindacati indipendenti.

Y: Anche Ruta 100? [104].

M: Soprattutto Ruta 100. E' uno dei sindacati che ci criticano più aspramente. Fa parte dell'M.P.I. [105]., non gradivano affatto i nostri rapporti con C rdenas. Ci accusavano di essere dei riformisti...

N: Anche gli elettricisti?

M: Il sindacato degli elettricisti ci ha fornito questo generatore, sono venuti loro a installare l'elettricità. E' il nostro primo contatto, ma non passa attraverso l'E.Z.L.N., proviene dal Fronte zapatista. Alcuni comitati di elettricisti, di operai dei telefoni, si organizzano nel tempo libero per venire a lavorare all'infrastruttura produttiva delle comunità. Installano le linee di comunicazione, le linee elettriche, ci forniscono un supporto tecnico, riparano i motori. E' un'iniziativa del sindacato, non dei singoli individui. Ma è il risultato del lavoro del Fronte, passa per suo tramite.

- La rivolta delle donne.
N: Qual è stato il ruolo della Legge delle donne? Sono problemi completamente nuovi, suppongo.

M: Per prima cosa i compagni hanno dovuto ammettere che le donne sono diverse, che hanno esigenze diverse, particolari. All'inizio, nel '90, nel '92, le richieste zapatiste erano generali, i bisogni delle donne erano assimilati a quelli degli uomini. Nel momento in cui si è votato in favore della guerra, nel '92, abbiamo deciso di creare delle leggi, le «leggi rivoluzionarie di guerra», e il Comitato, al massimo livello, ha chiesto alle donne di fare una proposta. E' il risultato di una lotta intestina condotta dagli ufficiali zapatisti-donne. E' la prima scaramuccia al vertice. Gli uomini non ne vedevano la necessità, ma le donne avevano validi motivi. Dicevano: «Quante volte hai avuto le mestruazioni? Quante volte hai partorito? Lo vedi che non è la stessa cosa? E' così, abbiamo problemi diversi». C'erano anche argomentazioni più complesse: facevamo raccontare a ciascuno come fosse arrivato a decidere di entrare nella lotta, e abbiamo constatato che le donne avevano seguito un percorso completamente diverso. Quindi per prima cosa hanno ottenuto il riconoscimento del diritto di avere rivendicazioni proprie, poi hanno aperto una consultazione. Era molto difficile, non solo bisognava che le donne si riunissero in ogni villaggio per discutere questi problemi, ma a fare la consultazione dovevano andare per forza loro; e poi era continuamente una rissa per lasciarle uscire dal villaggio e andare in altre comunità. Una donna che esce è malvista, è equivoca, è una puttana.
Nonostante tutto ci sono riuscite, e hanno preparato gli articoli della Legge delle donne. Ho partecipato alla redazione perché bisognava tradurre i dialetti. Prima che presentassero il disegno di legge al Comitato, ho tentato di spiegare a Susana, Ramona, Ana Marìa che questo documento avrebbe creato dei problemi, che molti uomini se ne sarebbero andati. La cosa le ha lasciate del tutto indifferenti. Lo scontro successivo è meno duro, avviene nel marzo del '93, nel momento in cui si votano le leggi di guerra. Abbiamo fatto una grande riunione di tutti i responsabili locali e regionali, e lì la maggioranza degli uomini era molto riluttante. Le leggi proposte dalle donne colpivano la struttura religiosa della comunità, il controllo della Chiesa. Soprattutto i problemi di pianificazione familiare, il diritto di uscire, i diritti dei giovani.
Poiché la Legge delle donne era presentata insieme a un gruppo di altre, fra cui anche la riforma agraria, gli uomini non hanno fatto storie, hanno votato anche quella per essere sicuri che le leggi cui tenevano passassero. Comunque, poiché il testo era in spagnolo, lingua che in generale le donne non capiscono, gli uomini speravano che non sarebbe cambiato niente. Allora le donne hanno deciso di organizzarsi, hanno tradotto la legge in tutti i dialetti e hanno incominciato a diffonderla, mentre gli uomini facevano di tutto perché circolasse il meno possibile.
Ma il '93 è stato un anno molto intenso, molto movimentato, e malgrado l'opposizione dei compagni del Comitato le leggi sono arrivate nei villaggi e si è incominciato ad applicarle. Questo ha creato problemi, attriti, disaccordi, soprattutto nelle comunità della Chiesa. Riguardo al controllo delle nascite abbiamo sentito argomenti a sfavore di tutti i generi: che induce alla promiscuità e all'irresponsabilità sessuale... gli stessi argomenti utilizzati dal PAN contro i preservativi; per loro, la migliore prevenzione contro l'AIDS è l'astinenza, e da noi succedeva lo stesso, per limitare le nascite il sistema era l'astinenza, o il metodo Ogino-Knaus...

UNA VANDEA PROGRESSISTA?
- Gli zapatisti e le Chiese.

Y: Ora tocchiamo un punto che a quanto pare siete riluttanti ad affrontare. Il Chiapas è una regione molto religiosa, l'ateismo non esiste - soprattutto fra la popolazione maya l'ateismo non esiste -, c'è una forte religiosità popolare. La Chiesa cattolica ha un peso istituzionale considerevole nella regione, le Chiese evangeliche anche. Negli Altos è evidente che i conflitti hanno una forte componente religiosa, ma in certa misura lo stesso vale anche per il resto dello Stato. Talvolta a Città del Messico gli avvenimenti del Chiapas sono interpretati come una specie di anti-"cristiada"
[106]., una "cristiada" progressista, una specie di rivincita della Chiesa... I personaggi ci sono tutti, Samuel Ruiz viene dalla parte centroccidentale del paese, Patrocinio Gonz les Garrido appartiene a una famiglia di leader anticlericali degli anni Venti e Trenta... Che cosa ne pensa di questa interpretazione? [107]..

M: Permetti innanzitutto che ti spieghi la riluttanza degli zapatisti e di Marcos ad affrontare la questione religiosa.
Nel Chiapas, e soprattutto nella storia degli indios maya, la religione è servita a nascondere tutta una serie di conflitti estremamente cruenti. Per la popolazione india, sarebbe molto grave se un esercito come il nostro si pronunciasse su problemi di religione, a favore dei cattolici, degli evangelisti o per criticare gli uni o gli altri. Anche in questo caso correremmo il rischio, che l'E.Z.L.N. ha già evitato diverse volte, di diventare un movimento integralista. Da qui la nostra riluttanza.
Evidentemente lo zapatismo non si è sviluppato su un terreno vergine dal punto di vista politico, c'era un vuoto lasciato dall'assenza dello Stato, un vuoto che era stato riempito dalla Chiesa e dalle organizzazioni cristiane. Gli indios non sono isolati dal resto del mondo, ma soltanto dal potere politico. Lo spazio è occupato dalla Chiesa, e nel caso degli Altos, del Nord e della Selva, dalla Chiesa progressista. Le comunità ricevono e filtrano questa influenza, e ciò che producono non ha niente a che vedere con la diocesi di San Cristòbal e neppure con la parrocchia del capoluogo.

Y: Gli indios lo hanno sempre fatto, dalla Conquista in poi.

M: Esatto. La religiosità è vissuta così, e accade lo stesso con gli evangelici, i Testimoni di Geova, gli avventisti e gli altri. Prima la regione era totalmente, esclusivamente cattolica, poi si sono creati degli spiragli che sono stati occupati dagli evangelici e da altre sette protestanti. Soprattutto i testimoni di Geova, la Chiesa del settimo giorno, gli avventisti... Con l'eccezione degli Altos, dove sono più chiusi, là ci sono soltanto i cattolici e gli evangelisti.

Y: I cattolici tradizionalisti.

M: Ormai non più... Nella parte zapatista degli Altos, verso Bochil, Pantelhò, Simojovel, San Andrés, i cattolici sono divisi fra tradizionalisti e liberali. I liberali sono zapatisti, i tradizionalisti sono legati ai cacicchi, alle autorità.
Insomma, per attenerci a una descrizione dall'esterno, il panorama religioso è diventato più complesso. Un movimento politico come lo zapatismo, che nasce in questo brodo di cultura, ha necessariamente degli elementi religiosi. Per esempio, alcuni suoi dirigenti sono anche capi religiosi del proprio villaggio.
Ma soprattutto, essendo un movimento armato, deve fare molta attenzione, perché esiste sempre il rischio di una guerra di religione, il rischio che alcuni si servano delle armi per combattere la religione degli altri, di altri indios, come forse se ne sono serviti, per esempio, gli zapatisti dell'ARIC indipendente contro gli aderenti all'ARIC ufficiale...
Perciò la questione religiosa è un terreno molto scivoloso, molto intricato e complesso... La Chiesa cattolica, ovviamente, ha i suoi interessi; esattamente come il P.R.D. o il P.T. ha un suo progetto per far fruttare a proprio vantaggio il movimento zapatista. Questo spiega alcuni attriti dei delegati zapatisti con la CONAI [108].. Talvolta essi avevano l'impressione che la CONAI sconfinasse dal suo ruolo di mediatrice e trattasse al posto loro. Per ora siamo riusciti a risolvere i dissidi fissando limiti chiari.
Per Chuayffet [109]., per esempio, a San Andrés il nemico principale era Samuel Ruiz: la delegazione governativa concentrava tutti i propri attacchi contro la diocesi, nella convinzione che indebolendo la CONAI avrebbe indebolito l'E.Z.L.N.
Comunque non si può negare che la Chiesa progressista abbia una forte autorità morale nella Selva, negli Altos e nel Nord, e che tale autorità morale sia dovuta in grandissima misura a Samuel Ruiz. Nelle comunità, in molte comunità, quello che egli dice è ascoltato con grande attenzione, non lo seguono sempre, ma lo ascoltano. E non è solo, ha formato una squadra che tiene contatti molto stretti con i villaggi, contatti assidui quasi quanto quelli degli zapatisti. Questo permette alla Chiesa cattolica di individuare problemi, disaccordi, disagi, differenze che le altre Chiese non percepiscono perché sono troppo lontane. La gente della diocesi invece va in giro, resta molto vicina alle comunità, ed è un'ottima cosa che sia al loro servizio.

- Smetterla con i piagnistei dell'uomo bianco.
Y: Ofelia Medina [110]. ha detto una cosa che mi ha colpito. Secondo lei, lo zapatismo libera dal senso di colpa, dalla colpevolizzazione.

M: Una parte della società messicana si sente in colpa verso lo zapatismo, e vorrebbe aiutare gli indios per espiare il proprio passato. Ma chi entra in contatto con lo zapatismo capisce che le comunità non gli chiedono alcuna espiazione, che non lo considerano colpevole. Per gli indios, i bianchi o i meticci non sono nemici, non hanno un peccato da espiare.
Dal 1994 Ofelia è a stretto contatto con le comunità, e ne è pienamente consapevole. E' un'attrice, si è data la pena di venire e di restare: la gente l'ha accolta, naturalmente nessuno sapeva chi fosse, e lei ha visto che non la trattavano come... come un "conquistador"! E ha capito che il complesso del "conquistador" proviene dal resto della società messicana, perché si sente tremendamente bianca e presume che gli indiani le portino rancore per la Conquista. Invece... sorpresa! Non c'è il minimo rancore...

Y: Lo trovo molto positivo. Speriamo che lo zapatismo riesca a liberare dal senso di colpa anche certi europei...

POPULISMO, NAZIONE, MARXISMO
- Lo zapatismo e il cardenismo.

N: Per tornare al tema delle alleanze politiche, che analisi fate del cardenismo come movimento storico, e del P.R.D. come apparato politico? Non sono la stessa cosa?

M: Certo che no. Senti, per noi il cardenismo, come anche lo zapatismo, è un sintomo... Lo zapatismo non è l'E.Z.L.N., e il cardenismo non è C rdenas. Sono due forme di resistenza civile, di partecipazione della società, due definizioni della stessa cosa, l'esigenza della società civile di avere un ruolo autentico nelle decisioni politiche ed economiche. Il cardenismo ha un apparato politico, il P.R.D., che lotta per il potere, lo zapatismo ha un apparato politico-militare, l'E.Z.L.N., che ha una sua logica anch'esso; secondo me questi due apparati portano loro rispettivamente più problemi che vantaggi. La gente del P.R.D. vede che il cardenismo esiste, lo zapatismo anche, e che bisogna farli convergere. Secondo noi non convergeranno, perché sono la stessa identica cosa sotto due nomi diversi. Gli uni guardano a C rdenas, gli altri all'E.Z.L.N., ma hanno uguali esigenze e uguali forme di lotta.
Gli stessi gruppi sociali sono in fermento nel Michoac n, nel Chiapas, a Tijuana, si tratta della stessa sollevazione civile. Che si esprimano attraverso il P.R.D. o il Fronte zapatista, l'importante è che continuino. Condividiamo la stessa base sociale, la gente è cardenista o zapatista, oppure favorevole contemporaneamente al P.R.D. e allo zapatismo, facciamo leva sulla stessa sensibilità. L'incontro dei due apparati, invece, mi sembra molto difficile. Fin dall'inizio il rapporto fra il P.R.D. e l'E.Z.L.N. è molto complesso, carico di tensioni... noi diffidiamo perché ci sentiamo strumentalizzati, e loro non sono tranquilli. La loro base preme per un avvicinamento, ma è un partito politico legale, non vogliono compromettersi troppo, devono salvaguardare la propria immagine di forma di lotta non violenta, legale, istituzionale.
E' un rapporto molto difficile.

Y: Intende dire che le richieste popolari hanno parecchi punti in comune ma le risposte politiche si differenziano molto? La cultura politica del cardenismo si mantiene nei limiti del sistema politico ereditato dall'istituzionalizzazione della Rivoluzione...

M: Sì, secondo noi le nostre strade divergono, pur coincidendo per quanto riguarda la base sociale, o piuttosto in questo sintomo, questa «malattia» della protesta, della rivolta, della resistenza della società messicana. L'E.Z.L.N. o il cardenismo hanno successo quando sanno interpretarla.

N: Il nuovo gruppo dirigente del P.R.D. forse renderà possibile trasformare questo rapporto fra voi.

M: Non credo. Il rapporto con l'E.Z.L.N. cambia per forza se qualcuno che è dirigente regionale, o leader di un movimento sociale, diventa dirigente di un partito istituzionale. L'apparato di partito plasma le persone. Lòpez Obrador [111], presidente del P.R.D., non è più il Lòpez Obrador che dirigeva l'occupazione dei pozzi di petrolio nel Tabasco. Deve tenere conto di altri fattori, stringere altri rapporti. Deve stabilire rapporti diretti con il potere, non più come oppositore, ma come capo di un partito politico che è almeno il terzo del paese e tutto questo lo trasformerà. E' comunque meglio di Porfirio Munoz Ledo... ma non conto molto su un riavvicinamento fra l'E.Z.L.N. e il P.R.D., hanno progetti politici diversi.

Y: Nella prima dichiarazione della Selva Lacandona parlavate di «settant'anni di dittatura», includendovi perciò anche il governo di L zaro C rdenas, 1934-1940. Nello zapatismo si riscontra una critica abbastanza radicale a una certa cultura politica verticistica, statalista, corporativa, ma in alcuni comunicati talvolta si trovano tracce di populismo. Penso a una frase...

N: ... «Nella nostra concezione della democrazia, quando qualcuno vince, vuol dire che ha promesso qualcosa e deve tener fede all'impegno.» Credo che sia nel discorso di chiusura del Forum sulla riforma dello Stato. Non è un po' clientelare?

M: Se l'ho detto, avevo torto... non credo di aver detto così. L'idea era che il potere, e nel caso specifico il governo, deve fare quello che la società esige da lui. Mi sono espresso male, o c'è stato un errore di trascrizione, non parlavo di promesse materiali. Semplicemente, chiunque arrivi al potere deve rispettare i voleri della società, deve renderle conto. Deve governare obbedendo alla società. Non intendevo dire che se ha promesso di costruire una strada deve fare una strada, sarebbe un modo di vedere clientelare.
Comunque ci sono molti argomenti, soprattutto la questione elettorale, su cui l'E.Z.L.N. non ha ancora una posizione chiaramente definita. Per esempio, noi non chiediamo di votare, e nemmeno di non votare... E' un risultato dell'improvvisazione incominciata dopo la guerra, quando abbiamo dovuto affrontare la realtà.
Per esempio, alle elezioni di ottobre del '95 [112] non sapevamo che cosa fare, e quindi hanno deciso i comitati di zona, ciascuno di testa sua. Alcuni hanno deciso di astenersi, altri di votare. Dopo le elezioni, il P.R.D. ci ha accusati di aver fatto perdere i suoi candidati. Era colpa mia, sarei stato io a dare l'ordine di astenersi. E' una versione che non sta in piedi: se avessimo dato l'ordine sarebbe stata la stessa cosa dappertutto, e il P.R.D. non avrebbe ottenuto nemmeno la nomina di un sindaco o di un deputato; si sarebbe preso tutto il P.R.I.. In realtà il comitato di zona di Altamirano ha scelto di votare, e lì il P.R.D. ha vinto; nella zona di Ocosingo, il comitato si è messo d'accordo con il P.R.D. e le elezioni sono state sospese. Negli Altos, hanno deciso di procedere secondo le usanze tradizionali: non si vota, decidono le assemblee. E nel Nord dello Stato hanno scelto di astenersi per protestare contro la guerra non dichiarata che subivano. Abbiamo rispettato l'autonomia di ciascun comitato ed ecco qui... Per noi è un terreno molto scivoloso, non puoi immaginare la quantità di scemenze che si possono fare...

Y: E' un terreno scivoloso anche a livello latinoamericano? Il gruppo di Sao Paulo si è appena riunito a San Salvador [113]. Nemmeno il loro rapporto con lo zapatismo è molto chiaro... C'è una cultura populista latinoamericana che si sente giudicata dallo zapatismo, che non vi si riconosce, ma che gradirebbe molto attirarlo a sé per fare una cura di giovinezza...

M: Una dose di sangue fresco a un cadavere!

Y: Ma talvolta si può morire...

M: ... contenti!

Y: ... soffocati dai propri amici...

M: Si può morire contenti, si può morire tristi, come dicono da noi!

- Che nazione in un mondo globale?
Y: C'è un tema importante che non abbiamo ancora affrontato, il tema della nazione. Voi vi siete insediati in una zona che è un po' ai margini della nazione messicana. La rivoluzione messicana non ha creato grande mobilitazione nel Chiapas: Zapata non era particolarmente ammirato, se non in qualche ambiente ristretto. E' una zona maya in cui le comunità non hanno condiviso per nulla il sentimento di appartenenza alla nazione messicana. Siete venuti a insegnare la storia del Messico... Come se la cava con il problema del mondo esterno il vostro movimento, che a volte si propone di essere una prosecuzione della Rivoluzione messicana?

M: Paradossalmente, il gruppo di indios molto politicizzati di cui abbiamo parlato e la maggior parte dei capi indigeni delle comunità non guardavano all'America centrale ma al centro, a Città del Messico. Il gruppo indio con cui abbiamo incominciato a lavorare aveva aspirazioni messicane, non centroamericane. In quanto maya avrebbe dovuto intendersi con gli altri maya, invece il suo punto di riferimento era il Messico. Nella zona settentrionale, chol e tzotzil, spesso gli uomini vanno a lavorare per qualche anno nel Tabasco come braccianti agricoli o anche come operai della Pemex [114], è una cultura politica più aperta. Quelli degli Altos che non hanno terra devono prenderla in affitto, cedono una parte del raccolto e si portano a casa l'altra, è gente abituata a uscire dai villaggi. Nella zona più isolata, che è la Selva, c'era già la Quiptic e c'era soprattutto la minaccia di espulsione. Il governo aveva decretato l'esproprio della Selva Lacandona e l'esercito federale stava per cacciarli, avevano dei problemi con il governo federale, non con l'America centrale, e dovevano difendersi...
Quando siamo arrivati, abbiamo trovato una popolazione india molto aperta all'idea della nazione messicana.

Y: Non c'è stata soluzione di continuità? Siete dei meticci, venite dal Messico settentrionale... Incontrate il gruppo che fa da ponte...

M: Ricordati che il nostro gruppo non viene dal Nord e nemmeno dalla città. Arriva nelle comunità attraverso la montagna. Questo ha facilitato le cose.

Y: E voi vi definireste ancora una rivoluzione nazionale? Firmereste di nuovo quella lettera a Carlos Fuentes in cui salutate «il messicano»? Vi considerate portatori del valore della «nazione»?

M: Ci consideriamo piuttosto il sintomo della necessità urgente di ridefinire questo concetto nel processo di globalizzazione. Siamo di fronte a un paradosso: per sopravvivere, le nazioni devono mondializzarsi, e quindi cessare di essere nazioni. Questo implica una perdita di identità culturale e un costo sociale enormi. Nel corso del processo le nazioni devono ridefinire la propria storia, e lo zapatismo segnala che la gente si preoccupa per il Messico perché teme che il paese scompaia a causa della globalizzazione. Non è solo una questione culturale, ma anche sociale e politica, il paese rischia di cessare di esistere, di trasformarsi in un frammento perduto fra una miriade di frammenti schierati gli uni contro gli altri. La nostra storia ha reso i messicani molto sensibili all'idea di nazione, che è stata seriamente intaccata negli ultimi anni. Gli eroi sono nei musei e nelle scuole; e la storia nazionale insegnata nelle scuole era ridicola.

N: Quando si leggono i documenti zapatisti, si ha l'impressione che il concetto di nazione, di patria, abbia un ruolo strategico. Appare come uno scenario su cui articolare le diverse lotte, una bandiera per chiamare a raccolta la gente in un mondo che sta frammentandosi, in cui i movimenti sociali non possono più raggrupparsi come prima intorno all'asse della classe operaia. La nazione come spazio di resistenza, quest'espressione ricorre diverse volte.

M: Credo di sì. Ricordati che si tratta di un movimento indio che aspira a cessare di essere tale, un movimento fiero di essere a maggioranza india, ma che rifiuta di essere limitato a questo. Il concetto di nazione è il suo modo di aprirsi, di diventare nazionale, di allargarsi, è fondamentale per gli zapatisti. E' quello che accomuna l'operaio di Città del Messico o del porto di Veracruz, il clandestino che attraversa la frontiera a Tijuana, l'indio dello Yucat n, l'impiegato di un'agenzia turistica di Canc£n, o la lavorante di un salone di bellezza di Città del Messico... parlo di persone che esistono realmente, che ci scrivono. Che cosa le chiama a raccolta intorno a noi? Un ponte, un punto in comune, la speranza di partecipare. Non dicono «poveri indios, hanno ragione», ma «anche noi vogliamo costruire questo paese insieme, accoglieteci perché dite che in questo progetto di nazione anche noi abbiamo il nostro posto. Non vogliamo più restare spettatori della storia, vogliamo fare la nostra parte». E' questo che attira la gente di diversi ambienti sociali. Tutto richiama continuamente il carattere indio dello zapatismo, quindi lo zapatismo deve insistere continuamente sulla questione nazionale.

- Zapatismo e marxismo.
N: Con questi concetti, nazione, umanità, siamo lontanissimi dal marxismo ortodosso.

M: Sì, ma era una cosa che stava maturando da molto tempo, da quando è incominciato il processo di traduzione del marxismo-leninismo universitario nella cultura india. Una traduzione che andrebbe chiamata piuttosto trasformazione. Ho letto da qualche parte che chi traduce poesia in realtà è un poeta; nel nostro caso, i veri creatori dello zapatismo sono stati i traduttori. I teorici dello zapatismo sono persone come il maggiore Mario, il maggiore Moisés, il maggiore Ana Marìa, tutti coloro che hanno dovuto tradurre in dialetto, Tacho, David, Zevedeo... Hanno costruito un nuovo modo di vedere il mondo.

Y: L'ex professore di filosofia di un certo Rafael Guillén dice che Marcos non ha più nulla di marxista, o comunque di un marxista althusseriano, che non ha più nulla di rivoluzionario... che ne pensa Marcos?

M: Magari Marcos non è più marxista, ma non so se bisogna rimproverarglielo o ascriverglielo a merito. Penso che Marcos, sempre il personaggio, per ora sia riuscito a essere uno strumento al servizio delle comunità, che sia stato utile perché le comunità potessero esporre i loro problemi e portare a buon fine l'impegnativa traversata avviata con la guerra del 1994. Il problema riguardo a Marcos è di sapere se egli può restare uno strumento, e per quanto tempo. O se sta arrivando il momento in cui il personaggio dovrà sparire.
Quanto alla tua domanda, penso che tutto il pensiero della sinistra abbia subito una trasformazione, e non soltanto Marcos. Non dico che essere marxisti sia un peccato, ma se essere di sinistra, o rivoluzionari, significa essere sempre in movimento e rinnovarsi continuamente, credo che lo zapatismo sia rivoluzionario e coerente con se stesso. Lo si può chiamare come si vuole, marxismo, antimarxismo, revisionismo, riformismo, come dice Castaneda...

Y: Castaneda dice «riformismo armato»...

M: Pubblica "La utopia desarmada" e, zac!, arriva l'E.Z.L.N.. Aggiunge un postscriptum, «d'accordo, sono riformisti armati» e zac! arriva l'E.P.R. che dice: «Noi siamo rivoluzionari, vogliamo prendere il potere e siamo armati!». Secondo me è tutta una campagna contro il libro di Castaneda, per far calare le vendite. Altrimenti è inspiegabile!

LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO E CUBA, VISTE DAL DESERTO DELLA SOLITUDINE
Y: In questa trasformazione ideologica, che ruolo ha avuto la caduta del muro di Berlino? Qual è stata la reazione degli zapatisti quando avete saputo la notizia? E la reazione personale di Marcos?

M: Per noi significava il deserto assoluto. Eravamo in montagna, in totale solitudine. Ci ha costretti a mettere in discussione l'idea che una concezione del mondo potesse imporsi pur senza essere costantemente messa in discussione da quanti erano destinati a beneficiarne. A colpirci nella caduta del muro di Berlino, anzi di tutto il blocco socialista, era soprattutto il beneplacito delle popolazioni che in teoria il socialismo aveva liberato e che ora venivano liberate dal socialismo. Era un grave ammonimento... Non potevamo spiegarlo semplicemente, da lontano, come i mezzi di informazione, accontentarci di dire: è un palese fallimento, la gente era asservita...
Qualcosa non aveva funzionato bene. Certo, i paesi socialisti avevano ricevuto colpi molto duri durante la guerra fredda, ma il punto fondamentale è che la gente non aveva difeso un patrimonio che in teoria le apparteneva. Per noi questo significava che fosse impossibile imporre un modello economico con le armi.
Ma il peggio era quello che veniva dopo, i muri innalzati dal capitalismo mondiale sulle rovine di quello di Berlino: il mondo unipolare, globale, le frontiere che si abbattono per il capitale e le merci e si moltiplicano per gli esseri umani, fino a creare situazioni grottesche e tristi come la Jugoslavia, le guerre razziali della fine del ventesimo secolo, guerre in cui il sangue che ti scorre nelle vene può costarti la vita, queste assurdità...
Questo mondo era stato costruito su una menzogna. Ma ciò non significava che il pensiero di sinistra fosse fallito, con il muro di Berlino era caduta soltanto una proposta di organizzazione politica della sinistra. Non si deve dimenticare che il muro, il blocco socialista, aveva ricevuto critiche molto dure anche dalla sinistra, non l'aveva attaccato soltanto la destra, anche la sinistra diceva che c'erano molte cose da cambiare. Ma con l'idea che le critiche fanno sempre e comunque il gioco del nemico, i paesi socialisti non accettavano alcun appunto, lo consideravano subito tradimento, revisionismo e altri insulti... Quindi tutti gli errori, le carenze, le incapacità si sono amplificati e accumulati fino a che le cose non sono imputridite dall'interno.
Per noi la lezione era questa: qualsiasi sistema politico, se vuole sopravvivere, deve poggiare sull'elemento sociale, deve confrontarsi con la società. Inoltre era necessario imparare ad accettare anche le critiche, e non credere che se qualcuno ti critica sia necessariamente tuo nemico...
Ma a parte il fatto di dover rimettere tutto in discussione, la cosa più pesante era il senso di solitudine. Non avevamo più alcun punto di appoggio, nemmeno sul piano morale. Prima sentivamo che il mondo per cui combattevamo esisteva, era reale. D'un tratto non lo era più, e per giunta era stato distrutto.

Y: E Cuba?

M: Cuba è un'altra storia: il governo cubano segue verso l'E.Z.L.N. la stessa politica dei movimenti di liberazione nazionale latinoamericani, ma in peggio, perché è un governo e tiene particolarmente ai suoi rapporti con il Messico. Quindi, non ci pensa nemmeno ad aiutare un movimento in Messico, e nel caso specifico non noi. L'idea era sempre la stessa, il Messico aveva la funzione di sostenere la Rivoluzione cubana. Ma per molti compagni Cuba era, e per alcuni è ancora, un'isola solitaria di dignità. Nonostante tutto, secondo loro, che lo si voglia o no, il governo ha il sostegno della maggior parte della popolazione, c'è una guerra interna e devono essere i cubani ad attuare il processo di decantazione, di trasformazione, di cui la società cubana ha bisogno.
Lo zapatismo osserva Cuba a rispettosa distanza, ma non supinamente: non siamo fanatici del regime cubano. Va detto però che non sappiamo esattamente quanto accade laggiù, e che qualsiasi cosa diciamo, a favore o contro, ricadrebbe su di noi. I mezzi di informazione direbbero che siamo sostenuti dai cubani, oppure dai "gusanos" - scusa, non si dice più "gusanos"
[115] -, dai dissidenti cubani. In queste condizioni è difficile esprimersi pubblicamente.

N: Un partito unico, niente sindacati liberi, sono problemi di principio, no? Forse la rivoluzione cubana è un'altra cosa ma il regime attuale di Cuba è in piena contraddizione con tutto quello che dite sulla democrazia, il pluralismo, i movimenti sociali.

M: Per forza. Qualsiasi forma di potere è in contraddizione con quello che diciamo. Non c'è paese al mondo che corrisponda alle aspettative degli zapatisti... Ma nel caso specifico, con la scelta dell'isolamento, abbiamo deciso di mantenere le distanze, esattamente come i cubani hanno fatto con noi. Non parlano di noi, né in bene né in male, noi facciamo lo stesso. Diciamo che ci osserviamo... a buona distanza socialista, e nulla più.

N: Per tornare alla caduta del blocco cosiddetto socialista, oggi l'analizzate come una sconfitta o come un'apertura? Senza la caduta del muro, lo zapatismo sarebbe stato possibile? M. Non lo so. Per noi è una sconfitta perché lo analizziamo dal punto di vista militare, intendo dire in termini di conflitto politico. Si affrontavano due grandi forze, e una delle due ha perso. Perché? Evidentemente perché l'altra era più forte. Bisognerebbe sapere perché il blocco socialista non è riuscito a farle fronte, e comunque la prova che si tratta proprio di una sconfitta la fornisce quanto è accaduto dopo: un'ascesa generale della destra in tutto il mondo. Con la scomparsa dell'Unione Sovietica non si instaura un potere democratico e aperto, ma Eltsin, e subito dopo scoppia la guerra in Cecenia. In altre parole, dopo la caduta del muro si verifica una serie di altre guerre e frammentazioni, anziché la comparsa di un mondo aperto, più pluralistico. Non voglio dire che quanto è scomparso fosse buono, ma che la sua scomparsa non ha risolto niente. Inoltre, la sinistra mondiale è prostrata dal pentimento, dal senso di colpa, oppure sceglie il cinismo, la fuga a destra, tutto questo processo di decomposizione...
Senza alcun dubbio per la sinistra è una sconfitta politica, militare, sociale, culturale, e soprattutto morale.

Y: Ma forse il neozapatismo non sarebbe stato possibile in una situazione di scontro fra i due blocchi. Sarebbe stato possibile inventare qualcosa di nuovo?

M: No, non credo. Lo zapatismo non sarebbe esistito. Avrebbe seguito la via degli altri movimenti di guerriglia tradizionale e avrebbe fallito, o saremmo ancora in montagna ad aspettare il momento propizio. No, di certo lo zapatismo non esisterebbe, e nemmeno Marcos, niente. Una buona ragione di più per dispiacersi! Maledetti socialisti! Non saremmo a La Realidad a chiacchierare di tutte queste cose e a sopportare il fango, la pioggia e le zanzare...

- Il marxismo-leninismo può essere accolto nello zapatismo?
Y: Lo zapatismo è servito a distruggere molti schemi, non in modo intellettuale ma attraverso il movimento, l'azione. Ne vedo una prova nei libri ceduti alla biblioteca di qui. Ci sono le opere complete di Mao Tse-tung, di Enver Hoxha... li regalano e partono alleggeriti per una vita nuova!

M: Mi ricordo che la biblioteca di Aguascalientes, a Guadalupe Tepeyac, che era molto più grande di questa, aveva una collezione estremamente ricca di marxismo-leninismo. La gente ci mandava tutto quello che non voleva più, le opere complete di Engels, di Marx, Lenin, Mao, Castro, c'era tutto... ma in pratica niente romanzi, poesia o teatro...

Y: Non c'è molto nemmeno sullo zapatismo.

M: Sparisce tutto! Scherzavo con le ragazze che facevano le bibliotecarie: «Quando arriverà l'esercito, andrà sul sicuro!», c'erano gli scaffali pieni, nient'altro che libri logori e talvolta vecchi di vent'anni... La gente se ne sbarazzava, ne arrivano ancora.

Y: I servizi segreti hanno dedotto sicuramente che eravate degli «albanesi»!

M: Probabilmente si arrovellano per capire se siamo trotzkisti, castristi, maoisti, guevaristi, stalinisti di Tirana... Avevamo anche le opere complete del compagno e grande dirigente Kim Il Sung...

LA GUERRA DEI SIMBOLI E DELL'INFORMAZIONE
Y: Il ministro degli Esteri un giorno ha dichiarato che lo zapatismo era una guerra di carta e di Internet.

M: Gurrìa, sì, il commesso viaggiatore del governo messicano...

Y: E' vero che la comunicazione è molto importante, la comunicazione, le immagini, i simboli, è anche per questo che si è parlato di guerriglia postmoderna. Non è una guerra di pallottole, quanto piuttosto una guerra di comunicati, di parole. Che ne pensa? - Una guerriglia postmoderna?
M: E' questa la guerra che perde il governo messicano. Preferisce la guerra delle pallottole, perché la vincerebbe; invece questa la perde. Nella comparsa dell'E.Z.L.N. e nella costruzione dello zapatismo, l'uso dei simboli è un contributo della componente india, mentre l'organizzazione politico-militare urbana apporta i simboli storici. Ma non possiamo averli senza lottare, non arriviamo su un terreno vergine, abbiamo dovuto strappare al governo messicano alcuni simboli della storia nazionale. Zapata, per esempio. Ogni presidente del Messico sceglie un eroe nazionale, e paradossalmente Salinas, che avrebbe poi decretato la morte dell'articolo 27, aveva scelto Emiliano Zapata.

Y: Uno dei suoi figli si chiama Emiliano...

M: E il suo aereo si chiamava Emiliano Zapata... Perciò insorge subito una disputa sull'immagine storica di Zapata, che consente un primo incontro grazie al quale l'E.Z.L.N. ripensa il suo linguaggio politico. Non si tratta di inventare una lingua nuova, ma di dare un senso nuovo alle parole, e soprattutto alla storia, all'interno del discorso politico. Per questo rinnovamento torniamo indietro, attingiamo alla tradizione culturale india per ritrovare antichi personaggi, antiche idee, e confrontarli con quelli nuovi costruendo così il nuovo linguaggio zapatista. Una lingua postmoderna, possiamo dire, che paradossalmente si alimenta di premodernità storica. Cerca i propri terreni di lotta, la stampa, i simboli, e occupa gli spazi a mano a mano che compaiono.
C'era uno spazio nuovo, talmente nuovo che nessuno aveva immaginato fosse utilizzabile da parte di un movimento di guerriglia: Internet, la superautostrada informatica... Era una rete destinata ad agevolare il commercio, il flusso di capitali, attraverso i computer e i satelliti di un mondo globale. L'aspetto umano sta appena emergendo, ma possiamo collegarci, andare nelle università o nei musei, viaggiare dal nostro ufficio attraverso un modem.
Qualcuno ci ha messi su Internet, e lo zapatismo ha occupato questo spazio cui nessuno aveva pensato, e dove quasi non ci sono controlli. Il regime messicano ha conquistato il suo prestigio internazionale nei media grazie al controllo della produzione di informazione, della stampa, dei telegiornali, e anche al controllo dei giornalisti per mezzo della corruzione, della minaccia o dell'assassinio. In questo paese i giornalisti vengono assassinati molto spesso. Per il governo, una notizia così grave che sfugge all'estero attraverso un canale incontrollabile, rapido, efficace, è un colpo molto duro. Il problema che tormenta Gurrìa è di dover combattere un'immagine che non può controllare direttamente dal Messico, perché l'informazione è già ovunque.
E' una novità: l'E.Z.L.N. è entrato nella comunicazione satellitare, dicono addirittura che da guerriglieri siamo diventati internauti dell'informatica... Ma la novità principale non è questa, è la rielaborazione del discorso politico paradossalmente ancorato a un ritorno al passato.
Evidentemente, dipende dall'esaurimento di un sistema politico che ha sfruttato le parole fino a svuotarle, che le ha totalmente prostituite. Di colpo, recuperando i concetti di nazione, di patria, di libertà, di democrazia, di giustizia, l'E.Z.L.N. si è innestato su una tradizione di lotta, su una cultura, e il suo discorso interessa gruppi sociali molto diversi, dagli intellettuali più illustri alle persone più semplici, compresi gli analfabeti senza alcun bagaglio culturale. Lo zapatismo, diciamo, bussa alla porta del linguaggio politico, scopre che è aperta, che dà su molte vie nuove. E le imbocca... All'inizio l'E.Z.L.N. non aveva questa idea, ma è stato obbligato a improvvisare, e il cocktail molotov maturato prima del '94 ha già diluito il discorso politico schematico interno allo zapatismo, anche se alcuni membri dell'E.Z.L.N., soprattutto all'inizio, non l'hanno apprezzato. Nel '94 l'E.Z.L.N. è un esercito, ma non combatte e non ha nemmeno un'ideologia strutturata, un proprio linguaggio, è obbligato a inventarlo sul momento. In questa invenzione si combinano gli apporti della cultura india e quelli della cultura urbana, e la creazione di questo linguaggio nuovo si alimenta del suo successo. Il discorso zapatista sa di essere ascoltato, è come uno scrittore che sa di essere letto, scrive più liberamente, con maggiore sicurezza.
Questo spiega anche le contraddizioni, gli slittamenti avvenuti talvolta, soprattutto nelle dichiarazioni alla stampa. E' la cosa più difficile, non hai il distacco, la calma consentita dalla lingua scritta. Gli errori, gli slittamenti, sono anche prodotti dall'improvvisazione, e questo ci ha creato molti problemi.

Y: Quali?

M: Per esempio, abbiamo criticato la sinistra in blocco e poi abbiamo dovuto rettificare, sfumare. In politica le sfumature sono importanti, è pericoloso generalizzare. Lo zapatismo è molto brusco, precipitoso, maldestro, non conosce distinzioni, fa di ogni erba un fascio, dà una sola etichetta alla gente per bene e a quella che lo è meno... Per esempio, con il P.R.D., il cardenismo, altre forze sociali...
Siamo abituati a dire le cose come le pensiamo, senza metterci i guanti bianchi, la diplomazia non è il nostro forte, non ci interessa di passare da sinistra beneducata, gradevole e accettabile per la destra. Ma bisogna comunque fare attenzione, è importante che le critiche vadano alle persone cui sono rivolte e non ad altre... Per esempio, avevamo degli screzi con il gruppo dirigente del P.R.D., ma dimenticavamo spesso di precisare che si trattava del gruppo dirigente. E' un partito complesso, buona parte della base ha simpatia per lo zapatismo o lavora addirittura con noi; e a un certo punto le nostre dichiarazioni sul P.R.D. hanno ferito quelli che ci aiutavano.

Y: E' il rischio che si corre, no? Il politichese protegge da questo genere di scivoloni...

M: Sì, gli schemi proteggono da queste cose, tutto sommato. Il discorso zapatista è troppo morbido, questo gli ha permesso di ruotare, ma anche di scivolare...
Nel corso del tempo abbiamo incorporato altri elementi. Il discorso zapatista del gennaio-febbraio '94, nel momento in cui ci siamo lanciati nel dialogo della cattedrale, è diverso da quello della Convenzione, cambia ancora dopo il tradimento del '95, poi al momento della Consultazione nazionale e internazionale, ed è ancora diverso nei contatti internazionali, con le persone degli accampamenti per la pace o le personalità internazionali. La lingua dello zapatismo diventa sempre più densa, più difficile da controllare, come se avesse alle spalle una logica che la trascina.
Mi ricordo di un problema provocato dalla lettera in cui proponevamo ai comitati europei di solidarietà di scegliere Berlino per un incontro. Spiegavo che era necessario andare a Berlino per via del muro, per chiudere i conti con il passato, e concludevo con un postscriptum: «Durito va in Europa, vuole portarmi in una scatola di sardine, io rifiuto perché qualsiasi umidità non femminile mi dà il mal di mare...». Grande scandalo nei movimenti femministi europei, certo. Non ci capivo niente, nessuno mi parlava della proposta (era la prima Dichiarazione da La Realidad), tutte le critiche ruotavano intorno all'umidità femminile, mi accusavano di sessismo. Io pensavo che si potesse scrivere come si parla, ma no, la gente di lì ha una lingua che deve essere rispettosa verso tutti e tutto.
Nella Convenzione del '94, durante una conferenza stampa con dona Rosario, un giornalista mi ha chiesto se avessimo adottato un criterio restrittivo per convocare i partecipanti. Io ho risposto che non vedevo perché: tutti erano invitati salvo i figli di puttana. Dona Rosario mi sussurra all'orecchio: «Rettifica, le femministe si offenderanno...». «E allora? Non sono in campagna elettorale, non cerco di diventare presidente della Repubblica... Se non gradiscono non voteranno per me, me ne frego...»

Il nostro discorso, il discorso zapatista, ha due basi portanti, la tolleranza e la necessità di abbracciare molte componenti diverse. Perciò subisce anche questo genere di pressioni: tutto quello che appare irrispettoso, o intollerante, anche solo nella scelta delle parole, viene subito criticato con durezza.

N: Nella creazione di questa lingua, i postscriptum di Marcos hanno un ruolo a parte; il Comitato non ha mai protestato, criticato alcune pazzie?

M: Certo! Prima del dialogo nella cattedrale c'è stato un postscriptum che chiedeva: «Quanto per un passamontagna? Quanto per la foto segnaletica di Marcos dalla cintura in giù?». Non è piaciuto ai compagni del Comitato. Io non avevo capito, dicevano, che il passamontagna era diventato il simbolo dello zapatismo, che non potevo parlarne così. Per noi, all'inizio, il simbolo era il "paliacate" [116], il passamontagna aveva solo una funzione pratica... Mi hanno convocato per rimproverarmi: «Non hai capito che il passamontagna è diventato il simbolo dello zapatismo al posto del "paliacate". Non puoi svilirlo in questo modo, credi di scherzare su te stesso e invece scherzi sul simbolo dello zapatismo, e noi non siamo d'accordo».

N: E i riferimenti al movimento gay o lesbico - frequenti nei discorsi di Marcos - come vengono accolti?

M: Paradossalmente, nelle comunità indie i gay non vengono perseguitati. Si fanno battute, si scherza, ma non sono né esclusi né perseguitati. Inoltre, sin dal primo momento la gente ha visto che il movimento gay, soprattutto quello messicano, mandava aiuti: si sono fatti spiegare che movimento fosse, e sono rimasti colpiti non tanto dall'aspetto sessuale, quanto dall'emarginazione sociale: «Devono nascondersi per essere ciò che sono, proprio come noi dovevamo nasconderci per essere zapatisti...».
Il culmine è un postscriptum che ha fatto seguito a uno scherzo a una giornalista di San Francisco. Le avevo raccontato di essere vissuto a San Francisco e di aver lavorato in un bar gay, ma che mi avevano cacciato perché rifiutavo le "avances" del proprietario... Lei ha modificato la storia e ha scritto che mi avevano cacciato perché ero gay... Un colpo fatale all'ego messicano! Il simbolo sessuale era omosessuale! L'erede di Villa e di Zapata! Un dirigente guerrigliero gay! Impossibile! Cercavano anche di farci dichiarare che no, «niente affatto, noi siamo veri maschi». A quel punto Marcos se ne esce con il postscriptum: «Sì, sono gay, e anche nero, ebreo, e tutto il resto...». In fondo era questa la domanda: che significato ha Marcos per il nostro movimento? I compagni l'hanno capito molto bene, tanto più che si sentivano molto vicini al movimento gay, era una specie di specchio della loro emarginazione, della loro esclusione.

- Parlare al cuore.
N: Il linguaggio zapatista, o piuttosto i racconti di Marcos, le storie di Durito, hanno un ruolo importante nello smantellamento della vecchia lingua della sinistra. E' una scelta voluta?

M: Quando eravamo in montagna abbiamo dovuto trovare un modo di spiegare le nostre analisi politiche che risultasse comprensibile per un'altra cultura, far capire che cosa vuol dire sistema produttivo, lotta di classe, dittatura del proletariato, gruppo al potere... Non è una questione di analfabetismo. La cultura india assimila tutto attraverso i simboli, ed era impossibile indottrinare la gente senza cadere nel totale dogmatismo, nella militarizzazione, farle imparare a memoria la dottrina marxista-leninista al posto del catechismo. Bisognava creare dei ponti, adattare i simboli. Il discorso si è trasformato senza che ce ne rendessimo conto. Davamo una spiegazione schematica tipica di un'organizzazione politico-militare: noi, i buoni, da una parte, e loro, i cattivi, dall'altra; i combattenti indios la traducevano e quando il discorso arrivava ai villaggi non era più lo stesso, i simboli lo avevano arricchito di elementi nuovi, l'avevano decantato, l'avevano fatto diventare un'altra cosa. Nel '94, quando abbiamo incominciato a parlare, abbiamo usato lo stesso sistema, ma in senso opposto. Il vecchio Antonio aveva tradotto il mondo indigeno per Marcos, e Marcos riprendeva il suo linguaggio per trasmetterlo al mondo esterno.
Quanto a Durito, tutto è incominciato con una storia che ho scritto per una bambina di dieci anni da cui avevo ricevuto una lettera. Una vecchia storia che risaliva all'epoca solitaria del movimento di guerriglia, quando eravamo otto o dieci, la storia dello scarabeo... La lettera è stata pubblicata e ha avuto successo... Nel febbraio del '95, al momento dell'offensiva, siamo stati costretti a ritirarci nella zona dove eravamo allora, e abbiamo ritrovato gli stessi scarabei. Assomigliano a quelli che ci sono qui, ma Durito è un po' più grande, con un corno, sembra un rinoceronte... Allora ho deciso di ricorrere a Durito per cercare di spiegare attraverso il cuore idee destinate alla testa. Cercavo un modo di spiegare che cosa eravamo e che cosa pensavamo senza ricadere negli stessi errori. Durito, come il vecchio Antonio o i bambini zapatisti che compaiono nei racconti, era un personaggio che, invece di spiegare, faceva intuire la situazione in cui ci trovavamo.
Non avevamo niente da vendere, non potevamo prendere la gente per il portafoglio, né per il cervello, perché non avevamo niente da aggiungere alle analisi esistenti, ma potevamo prenderla per il cuore, dimenticato da tutti. Non per i sentimenti, non volevamo costruire un discorso sentimentale, apolitico o antiteorico, cercavamo soltanto di riportare la teoria al livello dell'essere umano, della vita, di condividere esperienze vissute su cui riflettere. Ne approfittavo per scherzare su me stesso, sul passato, quando in teoria avevamo una risposta a tutto: è esattamente quello che Durito fa continuamente. Mette in ridicolo lo schematismo del Marcos urbano, universitario, che a un certo punto si è infranto contro una realtà completamente nuova. In un dato momento, Durito ha avuto lo scopo di purificare lo zapatismo, riportarlo sulla terra, dissipare le nebbie dei nugoli di fotografi dei riflettori, del sex appeal, e tutto il resto... riportarlo alla realtà.
Insomma, c'è questa doppia intenzione: rompere con un discorso politico astratto che in fondo si rivolge solo a un'élite, e scherzare su di noi: non prenderci troppo sul serio.

Y: E' una critica al «guerrigliero eroico»...

M: Sì, quando Durito racconta come cado nel fango, quando il vecchio Antonio ride a proposito delle nostre manovre in montagna... La derisione serve anche a mostrare che non siamo così eroici, che non siamo poi dei superuomini... E' il lavoro di Durito, impedire che gli zapatisti si considerino quello che a volte qualcuno ha detto di loro... Ci sono persone che ci considerano dei modelli, dei grandi eroi, chissà che altro... E' importante ricordare che gli zapatisti sono persone come le altre, che il caso li ha messi dove sono ma che non hanno niente di speciale.

«MARCOS DEVE SPARIRE»

Maggiore Moisés: quali sono le prospettive?

Y: Che alternative ci sono oggi? Togliersi il passamontagna? Continuare come ora? Tornare alla lotta armata? Esistono altre possibilità?
Maggiore Moisés: Il passamontagna no, il problema sarebbe piuttosto la lotta politica civile...

Y: Cioè abbandonare le armi?

M.M.: Le comunità hanno deciso: potremo deporre le armi soltanto quando non ci sarà più niente da fare. Potremo lasciare le armi quando avremo la sanità, gli alloggi, l'istruzione, il lavoro, la terra.

N: E' la garanzia estrema?

M.M.: Sì. Il problema non sono tanto le armi. Le armi spariranno quando non ci sarà più nulla da fare per i contadini, per i fratelli delle città. Ma senza le armi non si ottiene nulla, per questo sono comparse.

Y: Ma con le armi potete gettarvi nella lotta pubblica, nel dibattito, nelle comunità indie, nelle piazze di città e villaggi, in altri Stati?

M.M.: No, certo... Finora abbiamo sempre cercato di mantenere la parola, abbiamo sempre fatto quello che promettevamo: il dialogo nel '94, la Convenzione, la Consultazione, l'Incontro continentale... E' la stessa cosa. Manterremo la parola. Dipenderà dalla situazione.

Y: Non è facile immaginare che riprendiate la via delle armi, un po' come l'E.P.R. Sembra difficile una ripresa della guerra, no?

M.M.: Potrebbe capitare benissimo, perché il governo dimostra in tutte le occasioni di volere proprio questo. Noi diciamo che non vogliamo la guerra, ma che dall'altra parte alcuni la vogliono. Non sarebbe poi così strano, ci provocano continuamente in questo senso.

Y: Ma significherebbe cadere nel tranello.

M.M.: Dipende dalla gravità della situazione, e dalla decisione dei nostri compagni. E' soprattutto questo, se non fai quello che decide il popolo, il popolo ti sfugge di mano... Non tocca a noi soldati decidere. Faremo quello che dirà la gente. E' bello fare quello che dice il popolo.

Y: A parte le manipolazioni e le provocazioni provenienti dallo Stato, si potrebbe pensare che vi provochino anche gruppi come l'E.P.R...

M.M.: Sì, ma come posso dire... Si tratta di vedere come vuole lottare il popolo messicano. Si renderanno conto se il popolo messicano vuole seguirli. Come è successo a noi. Abbiamo visto che con le armi non ci avrebbero seguito. Abbiamo dovuto lavorare con il popolo, è quello che facciamo, e continueremo a farlo. E con esso moriremo, se necessario. Sarà il popolo a dirci se siamo sulla buona strada. Se non rimane altra soluzione. Come dicevamo nei primi giorni: siamo dovuti insorgere perché non c'era più altro sistema. Avevamo tentato di lavorare nelle organizzazioni controllate dal governo, poi siamo passati alle organizzazioni indipendenti, ma in cambio avevamo sempre e soltanto torture, omicidi, incarcerazioni, persone scomparse. E' stato questo a farci decidere di impugnare le nostre lance, come dicevamo, e quel po' di armi che avevamo.

Y: Vorrebbe aggiungere qualcosa?

M.M.: Secondo me su questo pianeta che si chiama Terra esistono due modi di vivere: ci sono gli sfruttati e gli altri, quelli che sfruttano. Molte cose devono cambiare... Tutte le furberie, gli inganni, le cose che permettono loro di mantenere il dominio sui poveri.
Cambiare la vita degli esseri umani nel mondo sarebbe un obiettivo troppo grande, bisognerebbe pensarci parecchio. A quanto pare esistono organizzazioni che se ne occupano, ma nella pratica non cambia niente. Fanno solo discussioni, dichiarazioni, e tutto resta come prima. Per loro è come un gioco, ma non è un gioco quando si soffre, la sofferenza degli esseri umani sfruttati, derubati, traditi, sacrificati. Dobbiamo davvero unirci, nel mondo, per decidere che cosa fare. A volte mi chiedo perché ci vogliano tutti questi morti, le pallottole, le bombe, le granate, quelli che se ne servono... Siamo tutti esseri umani. Supponiamo che io sia l'uomo più ricco del mondo. Un giorno, prima o poi, dovrò morire. Bisognerebbe che tutti gli esseri umani capissero come fare, come organizzarsi... Sapendo che muoiono anche i ricchi, e non sono molti. Ci vuole un cambiamento. Bisogna organizzarsi, riflettere, analizzare, studiare, e realizzare un lavoro davvero concreto sulle cose da cambiare su questa terra, in questa vita. Senza pensare a noi, ma agli esseri umani che continueranno a nascere, a venire al mondo.

N: E' consapevole della responsabilità che vi siete assunti verso tutti quelli che vedono in voi una speranza per il loro avvenire?

M.M.: Il problema è che noi zapatisti non siamo in molti. Essere zapatista è semplicissimo, vuol dire soltanto essere cosciente. Capire che cosa succede e che cosa vogliamo. La responsabilità consiste nel prendere le cose sul serio. Lavorare per davvero. Quelli che saccheggiano i paesi lo fanno sul serio. Allora anche noi dobbiamo fare le cose seriamente. Fare tutto il possibile perché la vita sia giusta, degna e pulita.

- Che cosa diventerà lo zapatismo dopo Marcos?
Y: Che cosa diventerà lo zapatismo se per disgrazia Marcos restasse ucciso?
Marcos: Secondo le previsioni, le unità e le regioni incomincerebbero a funzionare in modo autonomo, sia sul piano politico sia su quello militare. L'E.Z.L.N. frammenterebbe la sua attività fino al momento in cui il suo successore non assumerà il potere. Per l'E.Z.L.N. è semplice: all'esterno non lo so, penso che sarebbe un sollievo per diversa gente. Non so quale sarebbe la reazione, a preoccuparci è soprattutto l'impatto interno.
Perché... [lunga pausa] sarò sincero, non voglio raccontarti delle storie, il peso di Marcos nell'organizzazione è maggiore di quello che si percepisce dal di fuori. Il suo rapporto stretto con le comunità, l'importanza che riveste per loro... Nonostante quello che abbiamo detto sulla solitudine... Quelli delle comunità considerano Marcos una loro creatura, l'hanno fatto loro, è come un figlio, lo amano come un figlio... In un certo senso è un rapporto più sentimentale che pratico.

Y: Avete previsto l'aspetto pratico, ma dal punto di vista simbolico, politico, che succede se lo zapatismo perde il suo ponte verso l'esterno?

M: Sì, capisco. Senti, abbiamo tentato di preparare altre persone per mantenere questo ponte, i delegati al dialogo di San Andrés, quelli che fanno dichiarazioni pubbliche, che concedono interviste. E' come la distruzione di Aguascalientes: ne hanno raso al suolo uno, ne abbiamo ricostruiti cinque. Se distruggono Marcos, che è un portavoce, ci saranno cinque, dieci portavoce diversi che parleranno contemporaneamente della stessa cosa. Tacho, David, Zevedeo. Dovranno far cadere molte teste per liquidare lo zapatismo.
Ci vorrà un po' di tempo, prima si dovrà assorbire il colpo, ma credo che i compagni lo faranno altrettanto bene, o anche meglio. Avranno il vantaggio di essere molti, in molti posti diversi allo stesso tempo. E' anche un problema, ovviamente: quando c'è una sola voce, è uno solo a contraddirsi, se parlano in molti contemporaneamente possono entrare in contraddizione, e in un movimento come il nostro la coerenza è molto importante.

N: Ci sarebbe un rischio di balcanizzazione del movimento...

M: Se pensi al rischio di scontri interni no, ma potremmo veder nascere iniziative differenziate, questo sì. Per etnie, per esempio: potrebbe esserci un esercito chol, un esercito tzotzil, un esercito tzeltal, o un esercito tojolabal e ciascuno prenderebbe iniziative autonome su come condurre i negoziati, e decisioni politiche o militari. Potrebbe accadere. Abbiamo tentato di controllare questo rischio attraverso i comitati, il Comitato principale è interetnico. Ma il rischio c'è.

- Che cosa diventerà Marcos dopo Marcos?
Y: In questo caso Marcos diventerebbe un martire, una figura come quella del Che. Ma uno dei contributi nuovi dello zapatismo, mi sembra, consiste nell'essersi sbarazzato dell'idea del martirio. In questo senso è meglio che Marcos viva, no?

M: Sì, non ci tengo affatto a diventare un martire. Preferisco vivere. Preferiamo tutti Marcos vivo, giusto? Quando facciamo qualcosa, in generale, cerchiamo di farlo bene, che non ci siano né morti né feriti. La temerarietà non serve a niente; azioni coraggiose sì, ma ben fatte.

Y: L'ipotesi migliore, ed è quello che desideriamo anche noi, è che Marcos resti vivo. Ma quando Marcos non sarà più Marcos, che personaggio vorrebbe essere? Rafael Guillén, un filosofo, un gesuita, un antropologo, un giornalista, il figlio "desaparecido" della Rosario Ibarra, un alto funzionario?... O, come ha detto un giorno, qualcuno che resterebbe nelle comunità con i suoi, con quelli che hanno creato Marcos? O qualcos'altro ancora?

M: Ritengo che Marcos, il personaggio Marcos, debba morire, non so quando, ma è certo che morirà. Se resta vivo, dovrà trasformarsi in una cosa completamente diversa, confrontarsi con il personaggio e decidere. O meglio, le comunità, i compagni dovranno decidere con lui. Quando verrà il momento, se possibile vorrei tornare alla vita in comunità. Non credo che potrei riprendere la mia vita di prima della montagna, ma mi piacerebbe ritrovare, se non l'anonimato, almeno la vita quotidiana di prima del '94... un contatto più diretto con la gente, senza questo gioco di simboli con tutte le sue implicazioni. E fare quello che facevo prima, scrivere, chiacchierare, imparare. Ma non ritornare in città, non credo che sarebbe possibile.

Y: Lo preferirebbe?

M: No, a dire la verità no. Quello che ho visto fuori non mi è piaciuto. Il sistema si impadronisce di tutto e lo riplasma, si sente subito, tutto quello che gli può servire. Il clima è molto... parlo del clima politico, è difficile immaginare Marcos che torna alla vita civile per ritirarsi nel privato, non credo che glielo permetterebbero. In città dovrebbe entrare in politica, e a quanto ho visto puzza; o quanto meno il sistema politico messicano: puzza di marcio.

Y: Comunque lei si è assunto certi impegni, e poi Marcos è un animale politico, mi riesce difficile immaginarlo rinunciare all'ambizione di cambiare la politica.

M: Vuoi dire alla maledizione! Dovrà decidere come. Non penso che cadrà nell'errore di tentare di cambiare la politica dall'interno. E' un'illusione. Credo che la politica si cambi facendo un'altra politica. E in questo senso è importante l'attività politica delle personalità, dell'élite, di vertice, che ha tentato di integrare Marcos.
Comunque mi sembrate molto ottimisti. A me la cosa non preoccupa affatto, francamente, non ci ho riflettuto sul serio. Non riesco a immaginare Marcos in questa situazione, non ci sono le condizioni. Perché le cose cambino, probabilmente Marcos dovrà morire, e così altri come Marcos. Non credo che vedrò il risultato. L'avvenire lontano non mi turba, quello che mi preoccupa è che le comunità ottengano lo spazio a cui hanno diritto, e che Marcos possa servire a questo scopo. Oltre non vedo, non riesco a immaginare. Tutto fa pensare che il problema non si porrà nemmeno.

Y: Diciamo che gli zapatisti ci hanno reso ottimisti, penso che abbiate fatto molto e che potrete fare ancora di più in questo senso.

M: Anch'io credo che abbiamo fatto molto, ma il potere ce la farà pagare. Un giorno ci presenteranno il conto. E se Marcos concentra su di sé riflettori e microfoni, concentra anche i mirini telescopici. Il potere non lascerà impunito questo affronto. Noi non offriremo i nostri petti valorosi alle pallottole degli assassini! Ci nasconderemo con cura!

Y: E' di nuovo la sindrome di Chinameca e di Tlatelolco. La storia messicana non può sfuggire alla tragedia?

M: La dissidenza messicana non ancora... facciamo tutto quello che possiamo. Non aspiriamo a fecondare con il nostro sangue la liberazione del Messico. Francamente preferiremmo fecondarla vivendo! Recentemente qualcuno, ma non un combattente, ha scritto su un giornale: «Gli zapatisti si batteranno fino all'ultimo uomo»; abbiamo riso di gusto io e il maggiore: che ne sa, lui, pensavamo!
Faremo del nostro meglio perché Chinameca non si ripeta. La nostra morte non è indispensabile per la libertà del Messico, faremo tutto quello che potremo per restare vivi. Ma bisogna anche impedire che si ripeta l'inganno, da cui derivano le nostre riluttanze, la nostra diffidenza. Siamo costretti a essere diffidenti, a calcolare ogni mossa, a impedire che il governo ci inganni un'altra volta.

- L'ultima domanda...
Y: Solo una domanda, per concludere. Perché fino a oggi ha sempre rifiutato l'identificazione con Rafael Guillén, che in fondo sembra quasi altrettanto simpatico di Marcos?

M: Perché non sono io... Intanto è un problema estetico, non ricevo più lettere dalle donne! E' vero, non scherzo, avevo molto più successo prima che venisse fuori questa storia. La campagna di stampa ha fatto dei danni, ricevo sempre lettere, ma non più lettere d'amore come nel '94!
Da un altro punto di vista è allettante, ha un curriculum interessante, verrebbe quasi voglia di essere lui. Ma è una questione di principio. Devo convincere le mie ammiratrici che non sono così brutto! La campagna è stata terribile, e non sono riuscito a recuperare il mio sex appeal, guarda, non ho ricevuto neanche una lettera da Brigitte Bardot...

Y: La Brigitte Bardot da cui aspetta una lettera non esiste più da molto tempo...

M: Allora da Jane Fonda... NOTE

1. La Rivoluzione messicana (1910-1920).

2. Miguel Hidalgo, José Marìa Morelos e Vicente Guerrero sono eroi dell'Indipendenza messicana.

3. Il gruppo di guerriglieri diretto da Arturo G miz fu decimato all'epoca dell'attacco alla caserma Madera, nello Stato di Chihuahua, il 23 settembre 1965. In seguito uno dei molti gruppi politico- militari messicani degli anni Settanta ha scelto come nome questa data.

4. Napoleòn Glockner, membro delle Fuerzas de Liberaciòn Nacional, fu arrestato nel 1974, poco prima che la polizia e l'esercito incominciassero le operazioni contro le basi di questa organizzazione a Nepantla, nello Stato del Messico, nel territorio El Diamante e nello Stato del Chiapas. Nel 1976 Napoleòn Glockner e la sua compagna, Nora Rivera, furono assassinati a Città del Messico in circostanze rimaste oscure. In "La rebeliòn de las Canadas" (Ciudad de México, Cal y Arena, 1995) Carlos Tello Dìaz afferma che furono giustiziati dai guerriglieri per tradimento.

5. "Chingado": passivo, umiliato, vessato. «"Chingar" comporta l'idea della sconfitta, dello scherno e dell'umiliazione, di cui si è vittima» (Octavio Paz, "Il labirinto della solitudine", Milano, Il Saggiatore, 1982).

6. Confronta prima parte, par. "Il Chiapas".

7. L'attuale quartier generale degli zapatisti si chiama La Realidad. Ma contrariamente a La Pesadilla, non hanno scelto loro il nome di questo paese, dove si sono ritirati a seguito dell'offensiva dell'esercito, nel febbraio del 1995.

8. Uniòn Revolucionaria Nacional Guatemalteca; unione delle organizzazioni di guerriglia guatemalteche, costituitasi nel 1982.

9. L'offensiva del fronte sandinista di liberazione nazionale si conclude il 19 luglio con la presa di Managua e la caduta di Somoza.

10. Frente Farabundo Martì de Liberaciòn Nacional: unione delle organizzazioni di guerriglia salvadoregne.

11. L'offensiva lanciata dalla guerriglia salvadoregna fallisce dopo un combattimento all'ultimo sangue nella capitale.

12. Organizaciòn del Pueblo en Armas: una delle componenti dell'U.R.N.G., diretta da Rodrigo Asturias, alias Gaspar Ilom, figlio del premio Nobel per la letteratura Miguel Angel Asturias.

13. Il Comité Clandestino Revolucionario Indìgena (C.C.R.I.) fondato nel 1993: organo direttivo dell'E.Z.L.N.

14. Rangers, marines, seals: unità speciali delle forze armate statunitensi, con il compito di intervenire in altri Stati.

15. Il termine deriva dal nome di Cuauhtémoc C rdenas, figlio di L zaro C rdenas (presidente dal 1934 al 1940) di cui prosegue la tradizione populista.

16. Secondo l'uso messicano, Marcos utilizza il termine «dialetti» per indicare le lingue indie.

17. Polìtica Popular (P.P.), organizzazione maoista che si è scissa in Lìnea de Masas e Lìnea proletaria. I "pepes" si sono insediati nel Chiapas a partire dal 1977, con l'aiuto di gruppi progressisti all'interno della Chiesa cattolica. Vi erano noti come "los de Torreòn" oppure "los Nortenos", perché venivano dal Messico settentrionale. All'inizio degli anni Ottanta sono entrati in urto con la diocesi, e i loro principali dirigenti si sono ritirati dal Chiapas.

18. Nel marzo del 1994 l'E.Z.L.N. ha consultato la propria base sugli esiti del dialogo di pace.

19. Vot n e Ik'al sono figure mitiche maya. Confronta E.Z.L.N., "Documenti e comunicati dal Chiapas insorto", vol. 2, cit., p. 160.

20. Il primo dialogo fra zapatisti e rappresentanti governativi si svolge tra febbraio e marzo del 1994 nella cattedrale di San Cristòbal de Las Casas, in presenza del vescovo, monsignor Samuel Ruiz, che riveste il ruolo di mediatore.

21. "El Sup" o "el Sub", diminutivi di subcomandante.

22. Il Comité Clandestino Revolucionario Indìgena raccoglie i rappresentanti dei comitati di base, composti a loro volta dai rappresentanti delle comunità zapatiste.

23. Questi colloqui avvengono in un momento di intermediazione (siamo nella seconda metà dell'agosto del 1996): gli zapatisti consultano la loro base riguardo al fallimento della fase dei negoziati di San Andrés Larr inzar sulla riforma dello Stato, ed esprimono una valutazione dell'Incontro intercontinentale per l'umanità e contro il neoliberismo (27 luglio - 3 agosto).

24. Vedi "La preistoria", nota 3.

25. Carlos Salinas de Gortari è stato presidente della Repubblica dal 1988 al 1994.

26. Angélica Marìa, cantante messicana di pop-rock molto famosa negli anni Sessanta, oggi attrice di telenovelas. Gloria Trevi, cantante di varietà e sex symbol.

27. Fidel Vel squez, che attualmente ha superato i novantacinque anni di età, dirige da parecchi decenni l'organizzazione sindacale ufficiale (Confederaciòn de los Trabajadores de México, CIM).

28. Ocosingo, una delle città conquistate dagli zapatisti nel gennaio del '94, è stata teatro di scontri cruenti.

29. Il presidente Ernesto Zedillo, eletto il 21 agosto 1994, ha assunto la carica il primo dicembre dello stesso anno.

30. Uniòn de Uniones e Asociaciòn Rural de Interés Colectivo (ARIC), organizzazioni contadine.

31. La distruzione della Selva Lacandona diventa un tema di dibattito pubblico a partire dal 1986, ma è l'amministrazione Salinas che, dal 1988, attuerà i provvedimenti più importanti contro l'abbattimento degli alberi.

32. Confronta prima parte, par. "Il movimento degli indios, dall'unione alla disunione".

33. Adolfo Orive, Marta Orantes, René Gomez, dirigenti maoisti, si sono stabiliti nel Chiapas nella seconda metà degli anni Settanta, alla guida della Uniòn de Ejidos-Quiptic ta lecubtesel, e vi sono rimasti fino al 1983, quando sono stati espulsi.

34. L'E.Z.L.N. distingue tre livelli di partecipazione: gli insorti o truppe regolari, i miliziani, che sono riserve mobilitabili in seno alle comunità, e le basi d'appoggio, costituite dalla popolazione civile delle comunità aderenti allo zapatismo. Ma in questi colloqui, come in altri testi degli zapatisti, i confini fra le categorie restano vaghi e le cifre corrispondenti a ciascuna imprecise.

35. 10 aprile: anniversario dell'assassinio di Emiliano Zapata (1919). 17 novembre: anniversario della fondazione dell'E.Z.L.N. (1983). 16 settembre: festa nazionale messicana, anniversario del «grido di dolore», l'appello all'insurrezione che dà inizio alla Rivoluzione messicana (1810).

36. All'epoca delle elezioni del 1988, Cuauhtémoc C rdenas del Partido de la Revolucion Democr tica mette in difficoltà il candidato ufficiale, Carlos Salinas de Gortari. Quest'ultimo risulta vincitore dopo un «guasto» del sistema computerizzato di conteggio dei voti.

37. Nel 1992 il governo Salinas fa promulgare una rettifica dell'articolo 27 della Costituzione, chiave di volta della riforma agraria dalla Rivoluzione.

38. Comunità priiste: comunità controllate dal P.R.I.

39. Il governo tenta di dividere le comunità e di allontanare la popolazione dallo zapatismo concedendo titoli di proprietà, promettendo servizi e aiuti.

40. Luis Hern ndez Navarro, "Chiapas: La Guerra y la Paz", Ciudad de México, A.D.N., 1995.

41. Sabanilla: comune nel Nord del Chiapas.

42. Aguascalientes: gli zapatisti hanno dato questo nome ai diversi luoghi allestiti per tenervi la Convenzione nazionale democratica (agosto 1994) e l'Incontro intercontinentale di luglio-agosto 1996. Aguascalientes è una città nella parte settentrionale del paese, dove nel 1914 i diversi capi della Rivoluzione tentarono invano di accordarsi e di porre fine alla guerra civile.

43. "Canada": il termine significa valle profonda. Las Canadas formano una regione di colonizzazione, che è diventata la culla dello zapatismo.

44. "Tuhunel" (in tzeltal: «servitore»): diacono, titolo e status concesso dalla Chiesa cattolica ad alcuni catechisti indigeni nati all'interno della comunità.

45. Confronta nota 27 della prima parte.

46. Carlos Tello Dìaz, op. cit.

47. CISEN: Servizio militare di controspionaggio.

48. L'Uniòn del Pueblo è un altro gruppo maoista presente in Chiapas negli anni Settanta.

49. "Coletos" è il termine che indica i bianchi e i meticci di San Cristòbal de Las Casas.

50. La famiglia Castellanos è una delle famiglie più importanti dell'oligarchia chiapaneca. Uno dei suoi membri, Absalòn Castellanos, è stato governatore dello Stato dal 1982 al 1988.

51. E.Z.L.N., "Documenti e comunicati da Chiapas insorto", vol 1., cit., p. 46.

52. Qui come più avanti, nei colloqui, si fa riferimento alla parte settentrionale del Chiapas, e non al Nord del Messico.

53. PROCUP-P.D.L.P.: Partido Revolucionario Obrero Campesino-Uniòn del Pueblo (fondato nel 1971) e Partido de los Pobres (fondato nel 1967 da Lucio Cabanas, che negli anni Sessanta e all'inizio degli anni Settanta era a capo di un movimento di guerriglia nel Guerrero). P.R.D.: Partido de la Revoluciòn Democr tica (fondato nel 1989, raccoglie l'opposizione di sinistra mobilitata intorno alla candidatura alla presidenza di Cuauhtémoc C rdenas); OCEZ: Organizaciòn Campesina Emiliano Zapata.

54. Su insorti e miliziani, confronta sopra la nota 34.

55. Il comandante Tacho dà una versione notevolmente diversa del modo in cui è entrato a far parte dell'organizzazione.

56. Si veda più avanti par. "Finalmente esistiamo".

57. Il For Nacional Indìgena (ottobre 1995 - gennaio 1996) è stato organizzato dall'E.Z.L.N. in concomitanza con le trattative di San Andrés Larr inzar sul tema dei diritti e della cultura degli indios.

58. Alcuni osservatori hanno interpretato la sollevazione zapatista come una reazione indiretta di alcuni ambienti del P.R.I., insoddisfatti per la designazione di Luis Donaldo Colosio a candidato ufficiale per la successione di Carlos Salinas (novembre 1993). Colosio è stato assassinato il 23 marzo del 1994. Le elezioni presidenziali, legislative e dei governatori di diversi Stati, fra cui il Chiapas, si sono svolte il 21 agosto 1994.

59. Il Partido de Acciòn Nacional (PAN), partito di destra fondato nel 1939, è diventato negli ultimi anni il principale gruppo d'opposizione, superando il Partido de la Revoluciòn Democr tica (P.R.D.), partito d'opposizione di sinistra.

60. Il generale Godìnez era comandante della regione militare del Chiapas nel 1993. Patrocinio Gonz lez Garrido, governatore del Chiapas dal 1988 al gennaio del 1993, poi ministro degli Interni del governo federale, è stato silurato immediatamente dopo la sollevazione del gennaio del 1994.

61. Nell'agosto del 1994, per ricevere la Convenzione nazionale democratica, gli zapatisti hanno costruito nei dintorni di Guadalupe Tepeyac, dove era situato in quel periodo il loro quartier generale, un luogo denominato Aguascalientes (vedi sopra nota 42).

62. Alcune settimane dopo questo colloquio, nell'ottobre del 1996, la comandante Ramona si è recata a Città del Messico come rappresentante dell'E.Z.L.N. al Congresso nazionale indigeno.

63. Il comandante Tacho si riferisce alla consultazione in corso nelle comunità al momento in cui si sono svolti questi colloqui (agosto 1996).

64. Il subcomandante Pedro, di cui Marcos parla come di un fratello, era uno dei pochi meticci fondatori dell'E.Z.L.N.

65. Il 10 gennaio, Manuel Camacho Solìs, sconfitto da Colosio nella candidatura alla presidenza e ministro degli Esteri di Salinas, viene nominato da quest'ultimo commissario per la pace nel Chiapas. Il 12 gennaio Salinas decreta unilateralmente il cessate il fuoco.

66. Nell'agosto del 1995 l'E.Z.L.N. ha indetto una grande consultazione nazionale e internazionale riguardo al suo orientamento futuro e al suo avvenire.

67. Fernando Gutiérrez Barrios, uno dei «dinosauri» del P.R.I., a lungo responsabile dei servizi segreti, nel gennaio 1993 è stato sostituito al ministero dell'Interno da Patrocinio Gonz lez. E' considerato uno dei principali fautori di una politica messicana tradizionalmente favorevole al regime castrista e ai movimenti rivoluzionari nel resto dell'America latina.

68. Escuela de las Américas: per decenni, in questa istituzione della zona del canale di Panama, gli Stati Uniti hanno istruito e addestrato alla lotta antinsurrezionale militari di diversi paesi dell'America latina. E' stata chiusa negli anni Ottanta.

69. Nei giorni successivi all'insurrezione zapatista alcuni gruppi di estrema sinistra, fra cui il PROCUP, hanno provocato numerosi attentati in diversi luoghi della capitale.

70. E.P.R.: Ejército Popular Revolucionario, organizzazione guerrigliera nata nello Stato del Guerrero il 28 giugno 1996.

71. Jorge Castaneda, messicano, è un esperto della politica del suo paese.

72. La Convenzione nazionale democratica si è riunita a Guadalupe Tepeyac nell'agosto del 1994 su iniziativa dell'E.Z.L.N. Su Rosario Ibarra confronta la nota 7 della prima parte.

73. Come abbiamo visto, Marcos afferma che alla fine del 1993, sei mesi prima, il P.R.D. non si faceva alcuna illusione sulle proprie possibilità di vittoria.

74. P.T.: Partido del Trabajo, piccolo partito d'opposizione.

75. José Francisco Ruiz Massieu, il segretario generale del P.R.I., viene assassinato il 28 settembre 1994. Ra£l Salinas, fratello del presidente Carlos Salinas, è in carcere dal 1995 perché sospettato, anche se non accusato ufficialmente, di essere il mandante dell'omicidio.

76. Nell'agosto del 1994 Robledo Rincòn è stato eletto ufficialmente governatore del Chiapas.

77. Il 19 dicembre 1994 l'E.Z.L.N. ha sferrato un'offensiva fuori dalla «zona di guerra» che non ha provocato alcuno scontro con le forze armate.

78. Marcos ritiene che l'offensiva sferrata dall'esercito nel febbraio del 1995 costituisca un «tradimento», da parte delle autorità, con cui l'E.Z.L.N. era in trattative.

79. Il dialogo di San Andrés Larr inzar si apre nell'aprile del 1995.

80. Qui Marcos fa riferimento fra l'altro anche alla Consultazione nazionale e internazionale (agosto-settembre 1995), al Forum sui diritti e la cultura degli indios (gennaio 1996), al Forum sulla riforma dello Stato (luglio 1996) e all'Incontro intercontinentale (luglio-agosto 1996).

81. "Chicano", bracciante messicano che emigra negli Stati Uniti; "mapuche", indio cileno.

82. A La Realidad e in altri villaggi zapatisti esistono «accampamenti per la pace» formati da giovani simpatizzanti provenienti da diversi paesi.

83. «El viejo Antonio vuelve a tender la mano hacia la estrella. Se mira la mano el viejo Antonio y dice: "Cuando se suena hay que ver la estrella all arriba, pero cuando se lucha hay que ver la mano que senala la estrella. Eso es vivir. Un continuo sube y baja de la mirada"» («Ponencia a 7 voces 7»). «Il vecchio Antonio tende di nuovo il braccio verso la stella. Il vecchio Antonio si guarda la mano e dice: "Quando si sogna si deve guardare la stella lassù, ma quando si combatte si deve guardare la mano che indica la stella. La vita è questa: un continuo va e vieni dello sguardo"» («Comunicazione a 7 voci 7», letta da Marcos durante l'Incontro intercontinentale nel luglio del 1996).

84. A Città del Messico, il palazzo presidenziale dà sulla piazza centrale, che si chiama Zòcalo.

85. Ernesto Che Guevara, "La guerra di guerriglia e altri scritti politici e militari", trad. it., Milano, Feltrinelli, 1967.

86. La conquista della città di Santa Clara è uno dei principali fatti d'arme della Rivoluzione cubana.

87. Nel febbraio del 1995, nel momento in cui entrava l'esercito, la popolazione dell'ex quartier generale zapatista, Guadalupe Tepeyac, è stata costretta a rifugiarsi in montagna dove ha allestito un accampamento provvisorio.

88. Il termine «salinismo» designa il pensiero politico informato a quella «controrivoluzione liberale» avviata da Carlos Salinas, presidente della Repubblica dal 1988 al 1994.

89. Nel sistema maya-cattolico, i "capitanes" erano incaricati del culto dei santi.

90. La ARIC-Uniòn de Uniones si è scissa in filogovernativi e «indipendenti», più o meno filozapatisti.

91. La Confederatiòn Nacional Campesina (C.N.C.), il centro sindacale ufficiale dei contadini, che è uno degli assi portanti del P.R.I.

92. Confronta nota 28 della prima parte.

93. Come i "capitanes", i "mayordomos" detengono delle cariche nel sistema tradizionale delle comunità, dirette dagli anziani (i "principales").

94. In occasione delle trattative di San Andrés Larr inzar, nel luglio del '96, l'E.Z.L.N. ha organizzato un Forum nazionale sulla riforma dello Stato.

95. Nel luglio del 1996, dopo lunghe trattative, il P.R.I., partito di governo, e i partiti d'opposizione PAN, P.R.D. e P.T. si sono messi d'accordo su una riforma elettorale. In dicembre il governo, forte della maggioranza detenuta dal P.R.I. al Congresso, ha fatto votare un testo respinto dall'opposizione.

96. Confronta la nota 79 della prima parte.

97. Nell'agosto del 1995 Alianza Cìvica ha organizzato, a livello nazionale, la consultazione organizzata dall'E.Z.L.N.

98. Legge per il dialogo fra l'E.Z.L.N. e il governo, votata dal Congresso nel marzo

99. P.D.P.R., che comprende il PROCUP e altre organizzazioni, si presenta come la sezione politica dell'E.P.R..

100. Il Distretto federale (D.F.) è l'unità amministrativa corrispondente alla capitale del paese. Nel luglio del '97 la più alta autorità del D.F. verrà eletta a suffragio universale, anziché nominata dal presidente.

101. Coaliciòn Obrera, Campesina y Estudiantil de Istmo: organizzazione degli indios zapotechi dello Stato di Oaxaca (confinante con il Chiapas) che negli anni Ottanta si è battuta ottenendo riconoscimenti economici, sociali, politici e culturali a livello locale e regionale.

102. Dei C.P.R. facevano parte coloro che si erano rifugiati nelle montagne e nelle foreste all'interno del Guatemala per sfuggire alla repressione.

103. Le "maquiladoras" sono officine di montaggio che lavorano grazie ai subappalti; operano soprattutto per l'esportazione e per la maggior parte sono collocate lungo la frontiera con gli Stati Uniti.

104. Ruta 100: sindacato dei dipendenti degli autotrasporti di Città del Messico, noto per la sua combattività e le sue posizioni radicali.

105. M.P.I.: Movimiento Proletario Independiente.

106. Confronta la nota 33 della prima parte.

107. Garrido Canabal, governatore del Tabasco e negli anni Venti e Trenta capo delle «camicie rosse». Dell'episodio parla il famoso libro di Graham Green "Il potere e la gloria", trad. it. Milano, Mondadori, 1986.

108. La Comisiòn Nacional de Intermediaciòn (CONAI) si occupa della mediazione fra l'E.Z.L.N. e le autorità. E' presieduta da monsignor Samuel Ruiz.

109. Emilio Chuayffet: ministro degli Interni del governo Zedillo.

110. Ofelia Medina: attrice molto nota in Messico, che si è schierata per lo zapatismo.

111. Andrés Manuel Lòpez Obrador è succeduto nel 1996 a Porfirio Munoz Ledo alla testa del P.R.D.

112. Elezioni amministrative del Chiapas.

113. Il Forum di Sao Paulo raccoglie i principali partiti di sinistra e di centrosinistra dell'America latina che, come il P.R.D. in Messico, uniscono spesso elementi populisti a elementi socialisti. Ha tenuto una riunione nel Salvador nello stesso momento in cui si svolgeva l'Incontro intercontinentale organizzato dagli zapatisti.

114. Pemex: Petròleos Mexicanos, società petrolifera nazionale.

115. "Gusano": termine spregiativo (letteralmente «lombrico») con cui le autorità cubane definivano gli oppositori e i dissidenti, specialmente quelli che si rifugiavano all'estero.

116. "Paliacate": fazzoletto di cotone stampato usato da uomini e donne zapatisti per coprirsi il viso, per esempio davanti alle telecamere.

117. Per i messicani Chinameca è un «luogo di memoria» tragico: vi fu assassinato Emiliano Zapata, che era stato attirato in una trappola. Nell'ottobre del 1968 le autorità hanno soffocato il movimento studentesco con la strage della piazza di Tlatelolco o delle Tre Culture.

 


Ultima modifica 12.12.2003