Il libro nero del comunismo

 


INTRODUZIONE: Parte prima.
UNO STATO CONTRO IL SUO POPOLO

Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth).
1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre
2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato»
3. Il Terrore rosso
4. La «sporca guerra»
5. Da Tambov alla grande carestia
6. Dalla tregua alla «grande svolta»
7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione
8. La grande carestia
9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione
10. Il Grande terrore (1936-1938)
11. L'impero dei campi
12. L'altra faccia della vittoria
13. Apogeo e crisi del gulag
14. L'ultimo complotto
15. L'uscita dallo stalinismo
In conclusione:

1. PARADOSSI E MALINTESI DELL'OTTOBRE.

«Con la caduta del comunismo non esiste più la necessità di dimostrare il carattere "storicamente ineluttabile" della "Grande Rivoluzione socialista d'Ottobre". Il 1917 può finalmente diventare un "normale" oggetto storico. Purtroppo né gli storici né, soprattutto, la nostra società sono disposti a rinunciare al mito fondatore dell'anno zero, dell'anno che pare aver segnato il principio di ogni cosa: la fortuna o la disgrazia del popolo russo.»

Il commento che precede, di uno storico russo contemporaneo, è espressione di una costante: a ottant'anni dall'evento, prosegue la «battaglia per raccontare» il 1917.

Per una prima scuola storica, che potrebbe essere definita «liberale», la Rivoluzione d'Ottobre è stata nient'altro che un colpo di Stato imposto con la violenza a una società passiva, il risultato di un'abile congiura ordita da un pugno di fanatici, disciplinati e cinici, privi di qualsiasi radicamento reale nel paese. Oggi la vulgata liberale è stata fatta propria dalla quasi totalità degli storici russi, come pure dalle élite colte e dai dirigenti della Russia postcomunista. La rivoluzione dell'ottobre 1917, privata così di ogni spessore sociale e storico, viene riletta come un incidente che ha distolto la Russia prerivoluzionaria dal suo cammino naturale: una Russia ricca, laboriosa e ben avviata verso la democrazia. La rottura simbolica con la «mostruosa parentesi sovietica» (proclamata a gran voce, nonostante la continuità che perdura tra i vertici dirigenti, tutti usciti dalla nomenklatura comunista) offre un vantaggio notevolissimo, quello di liberare la società russa dal peso della colpa, da un pentimento che ha tanto pesato negli anni della perestrojka, segnati dalla dolorosa riscoperta dello stalinismo. Se il colpo di Stato bolscevico del 1917 è stato un incidente e nient'altro, il popolo russo in fondo può essere considerato una vittima innocente. In contrasto con questa interpretazione, la storiografia sovietica ha tentato di dimostrare che l'Ottobre 1917 fu lo sbocco logico, prevedibile, inevitabile, di un cammino di liberazione intrapreso dalle «masse» coscienti di aderire al bolscevismo. Nelle sue diverse reincarnazioni, questa corrente storiografica ha amalgamato la «battaglia per raccontare» il 19l7 alla questione della legittimità del regime sovietico. Se la Grande Rivoluzione socialista d'Ottobre è stata il compimento del senso della Storia, evento portatore di un messaggio di emancipazione rivolto al mondo intero, allora il sistema politico, le istituzioni, lo Stato che ne erano scaturiti rimanevano legittimi, nonostante e contro tutti gli errori che lo stalinismo avesse potuto commettere. Il crollo del regime sovietico ha avuto come naturale conseguenza la completa delegittimazione della Rivoluzione d'Ottobre e la scomparsa della vulgata marxisteggiante, la quale, per citare una celebre formula bolscevica, è stata rigettata «nelle pattumiere della Storia». Nondimeno, come la memoria della paura, la memoria di questa vulgata rimane viva, in Occidente quanto e forse più che nell'ex URSS.

Una terza corrente storiografica, che respinge tanto la vulgata liberale quanto quella marxisteggiante, ha cercato di «deideologizzare» la storia della Rivoluzione russa, di comprendere, secondo quanto ha scritto Marc Ferro, come «l'insurrezione dell'Ottobre 1917 abbia potuto essere un movimento di massa al quale tuttavia partecipò soltanto un piccolo numero di persone». Molti storici che rifiutano lo schema semplicista della storiografia liberale oggi dominante, fra i numerosi quesiti che sorgono a proposito del 1917 annoverano alcuni problemi cruciali. Quale ruolo hanno avuto la militarizzazione dell'economia e la brutalizzazione dei rapporti sociali seguite all'ingresso dell'impero russo nella prima guerra mondiale? E' emersa una violenza sociale specifica, destinata a seminare quella violenza politica che si è poi rivolta contro la società? Una rivoluzione che era popolare e di popolo, profondamente antiautoritaria e antistatale, come ha potuto portare al potere il gruppo politico più dittatoriale e statalista? Quale nesso si può stabilire tra la radicalizzazione, innegabile, avvenuta nella società russa durante il 1917 e il bolscevismo?

Con il distacco assicurato dal passare del tempo e grazie ai numerosi studi di una storiografia conflittuale, e quindi ricca di stimoli intellettuali, nella rivoluzione dell'ottobre 1917 ci sembrano momentaneamente convergere due movimenti: l'ascesa al potere politico, dovuta a una minuziosa preparazione insurrezionale, di un partito che si distingue da tutti gli altri attori della rivoluzione nel modo più radicale, per la prassi, l'organizzazione e l'ideologia; e una vasta rivoluzione sociale, multiforme e autonoma. Quest'ultima si manifesta con aspetti molto diversi: in primo luogo un immenso ceto ribelle di contadini poveri, un vasto movimento di fondo radicato in una lunga storia, segnata non solo dall'odio nei confronti del proprietario terriero, ma anche dalla profonda diffidenza contadina verso la città, verso il mondo esterno, verso ogni forma di ingerenza dello Stato. L'estate e l'autunno del 1917 appaiono così come il compimento, finalmente vittorioso, di un grande ciclo di sommosse cominciato nel 1902, con un primo momento culminante nel 1905-1907. Il 1917 è la tappa decisiva di una grande rivoluzione agraria, dello scontro fra contadini e latifondisti per l'assegnazione delle terre, l'attuazione tanto attesa della «ripartizione nera», cioè l'assegnazione di tutte le terre in funzione del numero di bocche da sfamare in ogni famiglia. Ma è anche una tappa importante nello scontro fra contadini e Stato, per il rifiuto opposto dalle campagne a ogni forma di tutela imposta dal potere residente nei centri urbani. In questo senso il 1917 non è altro che una fase in un ciclo di scontri destinato a culminare nel 1918-1922, e poi ancora negli anni 1929-1933, per concludersi con la totale disfatta del mondo rurale, troncato alle radici dalla collettivizzazione forzata delle terre.

In parallelo alla rivoluzione contadina, per tutto il 1917 si assiste alla radicale disgregazione dell'esercito, costituito da circa 10 milioni di contadini, arruolati da oltre un triennio per combattere in una guerra di cui non comprendevano affatto il senso. Quasi tutti i generali lamentavano la mancanza di patriottismo dei soldati- contadini, ben poco integrati nella nazione sotto l'aspetto politico, e inseriti in un orizzonte civico rigorosamente limitato entro i confini della loro comunità rurale.

Un terzo movimento di fondo riguarda una minoranza sociale che, pur rappresentando a malapena il 3 per cento della popolazione attiva, agisce tuttavia politicamente e ha la massima concentrazione nelle grandi città: il mondo operaio. Da questo ambiente, in cui si condensano tutte le contraddizioni sociali della modernizzazione economica avviata da non più di una generazione, nasce un movimento di rivendicazione specificamente operaia, coagulato da parole d'ordine di autentico spirito rivoluzionario: il «controllo operaio», il «potere ai soviet».

Un quarto movimento si delinea infine con la rapida emancipazione delle nazionalità e dei popoli allogeni dell'ex impero zarista, i quali chiedono dapprima l'autonomia, poi l'indipendenza.

Ciascuno di questi movimenti ha una propria scansione temporale, una propria dinamica interna e aspirazioni specifiche, che è evidentemente impossibile ridurre agli slogan o all'azione politica dei bolscevichi. Nel corso del 1917 questi movimenti operano come altrettante «forze dissolutrici» che contribuiscono potentemente a distruggere le istituzioni tradizionali e, più in generale, tutte le forme di autorità. In un attimo breve ma decisivo - la fine dell'anno 1917 - l'azione dei bolscevichi, minoranza politica operante nel circostante vuoto istituzionale, procede nel senso delle aspirazioni della maggioranza, anche se gli uni e gli altri, a medio e lungo termine, hanno obiettivi differenti. Per un momento il colpo di Stato politico e la rivoluzione sociale convergono o, per essere più precisi, sommano le loro spinte, prima di divergere verso decenni di dittatura.

I movimenti sociali e nazionali che esplodono nell'autunno del 1917 si sono sviluppati grazie a una particolarissima congiuntura, che a una situazione di guerra totale, di per sé fonte di imbarbarimento e di regresso generalizzati, ha associato crisi economica, sconvolgimento dei rapporti sociali e bancarotta dello Stato.

La prima guerra mondiale è ben lontana dal dare nuovo impulso al regime zarista e dal rafforzare la coesione del corpo sociale, ancora tutt'altro che compiuta. Al contrario, agisce come formidabile rivelatore della fragilità di un regime autocratico già lacerato dalla rivoluzione del 1905-1906 e indebolito dalla scarsa coerenza delle mosse politiche, che alternano concessioni insufficienti a giri di vite in senso conservatore. La guerra accentua inoltre le debolezze dovute alla modernizzazione incompiuta, che rende l'economia dipendente dall'estero per l'afflusso regolare di capitali, specialisti e tecnologie. Con la guerra si riapre la profonda frattura fra una Russia urbana, industriale e di governo, e la Russia rurale, priva di integrazione politica e ancora in gran parte chiusa nelle sue strutture locali e comunitarie.

Come le altre parti in conflitto, il governo zarista aveva dato per scontato che la guerra sarebbe durata poco. La chiusura degli Stretti e il blocco economico della Russia rivelarono in modo brutale quanto l'impero fosse dipendente dai fornitori stranieri. La perdita delle province occidentali, invase fin dal 1915 dalle truppe tedesche e austro-ungariche, impedì alla Russia di accedere ai prodotti dell'industria polacca, una delle più evolute dell'impero. L'economia nazionale non resse a lungo. Già nel 1915 il sistema dei trasporti ferroviari risultava dissestato dalla mancanza di pezzi di ricambio e, con la riconversione di quasi tutte le fabbriche ai fini dello sforzo bellico, il mercato interno andò in pezzi. Dopo pochi mesi, nelle retrovie vennero a mancare i prodotti manifatturieri e il paese fu travolto dall'inflazione. Nelle campagne la situazione precipitò: la drastica cessazione del credito agricolo e il blocco della ricomposizione fondiaria, la mobilitazione in massa degli uomini, le requisizioni di bestiame e cereali, la penuria di beni manifatturieri, l'interruzione dei circuiti di scambio tra città e campagne troncarono da un momento all'altro il processo di ammodernamento delle imprese rurali, che era stato avviato con successo nel 1906 dal primo ministro P‰tr Stolypin, assassinato nel 1910. Tre anni di guerra avevano confermato l'idea che i contadini si facevano dello Stato: una forza ostile ed estranea. Le vessazioni quotidiane, in un esercito dove il soldato era trattato più da schiavo che da cittadino, esacerbarono le tensioni fra i soldati semplici e gli ufficiali, mentre le sconfitte minavano il prestigio superstite di un regime imperiale troppo remoto. Ne usciva rafforzato il vecchio substrato di arcaismo e di violenza, sempre presente nelle campagne, e che si era manifestato con forza nelle immense jacquerie degli anni tra il 1902 e il 1906.

Alla fine del 1915 il potere non era più in grado di controllare la situazione. Di fronte alla passività del regime si andarono organizzando da ogni parte associazioni e comitati decisi ad assumersi l'amministrazione del quotidiano, che lo Stato non pareva più in grado di assicurare: la cura dei feriti, il vettovagliamento delle città e delle truppe. I russi cominciarono a governarsi da soli: si era avviato un grande movimento, nato dalle viscere della società, che nessuno ancora era in grado di valutare. Ma perché un tale movimento potesse sconfiggere le forze dissolutrici che erano anch'esse all'opera, il potere avrebbe dovuto incoraggiarlo, porgergli una mano amica.

Al contrario, invece di gettare un ponte fra il potere e gli elementi più progrediti della società civile, Nicola Secondo si aggrappò all'utopia monarchico-populista del «piccolo padre zar che comanda l'armata del suo bravo popolo contadino»: assunse di persona il comando supremo delle truppe, iniziativa che nel pieno della disfatta nazionale era per l'autocrazia un suicidio. In realtà dall'autunno del 1915 Nicola Secondo, isolato sul treno speciale stazionante nel quartier generale di Mogilev, aveva cessato di dirigere il paese, lasciando mano libera alla consorte, l'imperatrice Alessandra, assai impopolare a causa della sua origine tedesca.

Nel corso del 1916 il potere sembrò dissolversi: la Duma imperiale, unica assemblea elettiva, per quanto dotata di scarsa rappresentatività, si riuniva soltanto poche settimane all'anno; governi e ministri si succedevano, tutti altrettanto incompetenti e impopolari. La voce pubblica accusava la potente cricca capeggiata dall'imperatrice e da Rasputin del deliberato proposito di spalancare le porte della nazione all'invasione nemica. Era ormai palese che l'autocrazia non era più in grado di condurre la guerra; alla fine del 1916 il paese era diventato ingovernabile. Ricominciarono gli scioperi, che dopo lo scoppio del conflitto erano diminuiti a livelli insignificanti, in un clima di crisi politica di cui l'assassinio di Rasputin, avvenuto il 31 dicembre, fu l'indizio più vistoso. Le agitazioni si estesero alle truppe, il totale dissesto dei trasporti paralizzò l'intero sistema delle forniture alimentari. Le giornate del febbraio 1917 sorpresero un regime ormai screditato e indebolito. La caduta del regime zarista, travolto dopo cinque giorni di manifestazioni operaie e dopo l'ammutinamento di alcune migliaia di uomini nella guarnigione di Pietrogrado, rivelò non soltanto la debolezza dello zarismo e lo stato di decomposizione dell'esercito (cui lo Stato maggiore non osò ricorrere per soffocare la sommossa popolare), ma anche l'impreparazione politica di tutte le forze di opposizione, frammentate da divisioni profonde, dai liberali del Partito costituzionaldemocratico fino ai socialdemocratici.

Le forze politiche di opposizione non furono mai alla guida degli avvenimenti, in nessuna fase di questa rivoluzione popolare spontanea, cominciata nelle strade e conclusa nelle stanze felpate del palazzo di Tauride, sede della Duma: i liberali avevano paura della piazza e i partiti socialisti temevano a loro volta la repressione militare. Cominciarono i negoziati (che, dopo lunghe trattative, sarebbero sfociati nell'inedita formula di un potere bicipite) tra i liberali, preoccupati per l'estensione dei disordini, e i socialisti, secondo i quali era evidentemente scoccata l'ora della rivoluzione «borghese», prima tappa di un lungo processo che col tempo avrebbe potuto aprire la strada a una rivoluzione socialista. Da un lato c'era il governo provvisorio, un potere preoccupato dell'ordine, che seguiva la logica del parlamentarismo e aveva l'obiettivo di una Russia capitalista, moderna e liberale, decisamente ancorata agli alleati francesi e britannici. Dall'altro il potere del Soviet di Pietrogrado, appena costituito da un pugno di militanti socialisti, il quale, nel solco della grande tradizione del Soviet di Pietroburgo del 1905, pretendeva di rappresentare le «masse» in modo più diretto, più rivoluzionario. Ma questo «potere dei soviet» era a sua volta una realtà mobile e cangiante, a seconda dell'evoluzione delle sue strutture decentrate ed embrionali, e più ancora dei cambiamenti che intervenivano in una opinione pubblica assai volubile.

I tre governi provvisori che si susseguirono dal 2 marzo al 25 ottobre 1917 si dimostrarono incapaci di risolvere i problemi ereditati dal vecchio regime: crisi economica, proseguimento della guerra, questione operaia, problema agrario. Gli uomini nuovi saliti al potere (sia i liberali del Partito costituzionaldemocratico, in maggioranza nei primi due governi, sia i socialisti rivoluzionari, in maggioranza nel terzo) appartenevano tutti all'élite urbana colta, agli elementi progrediti della società civile, divisi tra una fiducia ingenua e cieca nel «popolo» e la paura delle «masse oscure» da cui erano circondati, e che peraltro conoscevano pochissimo. Almeno nei primi mesi di una rivoluzione che aveva impressionato per il suo aspetto pacifico, la maggioranza di costoro riteneva giusto lasciare libero corso all'ondata democratica scatenata dalla crisi e poi dalla caduta del vecchio regime. Il sogno di alcuni idealisti come il principe L'vov, capo dei primi due governi provvisori, era di trasformare la Russia nel «paese più libero del mondo».

In una delle sue prime dichiarazioni pubbliche L'vov affermava: «Lo spirito del popolo russo ha rivelato la sua natura universalmente democratica, e appare pronto non soltanto a fondersi nella democrazia universale, ma a mettersi alla guida di essa, lungo il cammino del progresso segnato dai grandi principi della Rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Fraternità».

Il governo provvisorio, forte di tali convinzioni, moltiplicò i provvedimenti democratici - promulgazione delle libertà fondamentali, suffragio universale, soppressione di tutte le discriminazioni fondate su casta, razza o religione, riconoscimento a Polonia e Finlandia del diritto all'autodeterminazione, promessa di autonomia alle minoranze nazionali eccetera - che avrebbero dovuto, nelle sue intenzioni, suscitare un moto di patriottismo in vasti strati della popolazione, consolidare la coesione sociale, assicurare la vittoria militare al fianco degli Alleati e ancorare saldamente il nuovo regime alle democrazie occidentali. Tuttavia, per scrupolo di legalità, il governo si rifiutò, nonostante la situazione di guerra, di prendere una serie di importanti provvedimenti destinati a pregiudicare il futuro, prima della convocazione di un'assemblea costituente, che sarebbe stata eletta nell'autunno del 1917. Si sarebbe detto che il governo tenesse a rimanere «provvisorio» per deliberato proposito, lasciando in sospeso i problemi più scottanti: la pace e la terra. Quanto alla crisi economica dovuta al proseguire del conflitto, il governo provvisorio, così come il vecchio regime, non riuscì a risolverla nell'arco della sua breve vita, di pochi mesi soltanto: le tensioni sociali non potevano non essere esacerbate da problemi come le difficoltà di vettovagliamento, la scarsità di prodotti, l'inflazione, l'interruzione dei circuiti di scambio, la chiusura delle imprese, l'esplosione della disoccupazione.

Mentre il governo rimaneva in una posizione di attesa, la società continuò a organizzarsi in maniera autonoma. Nel giro di poche settimane si erano formati a migliaia i soviet, i comitati di fabbrica e di quartiere, gruppi di milizie operaie armate (le «Guardie rosse»), comitati di contadini, di soldati, di cosacchi, di massaie: tutti luoghi di discussione, di iniziativa, di confronto, in cui si esprimevano rivendicazioni, si manifestava l'opinione pubblica, si cercava un modo diverso di fare politica. Il "mitingovanie" (una situazione di assemblea o comizio permanente), pur essendo agli antipodi della democrazia parlamentare sognata dai politici del nuovo regime, era una vera e propria festa di liberazione, che con il passare dei giorni divenne più violenta, in quanto la Rivoluzione di Febbraio aveva liberato risentimenti e frustrazioni sociali da tempo accumulati. Nel corso del 1917 le rivendicazioni e i fermenti sociali mostrarono un'innegabile e progressiva radicalizzazione.

Gli operai passarono dalle rivendicazioni economiche - le otto ore lavorative, la soppressione delle ammende e di altre misure vessatorie, la previdenza sociale, gli aumenti salariali - a richieste di carattere politico, che implicavano una profonda trasformazione dei rapporti sociali fra padroni e salariati, instaurando una forma di potere diversa. Gli operai, organizzati nei comitati di fabbrica, che avevano il fine primario di controllare assunzioni e licenziamenti e impedire ai padroni chiusure abusive delle aziende con il pretesto di interruzioni nelle forniture, arrivarono a esigere il «controllo operaio» sulla produzione. Ma perché potesse attuarsi il controllo operaio, occorreva una forma di governo del tutto nuova, il «potere dei soviet», il solo in grado di adottare provvedimenti radicali, in particolare il sequestro e la nazionalizzazione delle imprese, rivendicazione ancora sconosciuta nella primavera del 1917, ma che sei mesi più tardi era proposta con sempre maggior frequenza.

Il ruolo dei soldati-contadini, una massa di 10 milioni di coscritti, fu decisivo nell'andamento delle rivoluzioni del 1917. Il rapido sfaldamento dell'esercito russo, contagiato dalle diserzioni e dal pacifismo, ebbe una parte trainante nella generale bancarotta delle istituzioni. I comitati di soldati, autorizzati dal primo testo legislativo approvato dal governo provvisorio (il famoso Decreto numero 1, vera e propria «carta dei diritti del soldato», che aboliva le più vessatorie norme disciplinari del vecchio regime), non cessarono di esorbitare dalle loro prerogative, arrivando a ricusare singoli ufficiali, a «eleggerne» di nuovi, a ingerirsi nella strategia militare, inaugurando un genere inedito di «potere dei soldati». Quest'ultimo fu all'origine di un peculiare «bolscevismo di trincea», descritto nel modo seguente dal generale Brusilov, comandante in capo dell'esercito russo: «I soldati non avevano la minima idea del comunismo, del proletariato o della Costituzione. Volevano la pace, la terra, la libertà di vivere senza leggi, senza ufficiali, senza proprietari terrieri. Il loro "bolscevismo" in realtà non era che una formidabile aspirazione alla libertà senza remore, all'anarchia». Nel giugno del 1917, fallita l'ultima offensiva delle forze armate russe, l'esercito si sfaldò: centinaia di ufficiali, sospettati di essere «controrivoluzionari», furono arrestati dai soldati e spesso massacrati. La percentuale di disertori salì alle stelle, e fra luglio e agosto arrivò a varie decine di migliaia al giorno. Ben presto i soldati-contadini non ebbero più che un pensiero: tornare a casa, per essere sicuri di partecipare alla ripartizione delle terre e del bestiame appartenenti ai latifondisti. Dal giugno all'ottobre del 1917 oltre due milioni di soldati, stanchi di combattere o di starsene ad aspettare a pancia vuota nelle trincee o nelle guarnigioni, disertarono da un esercito ormai avviato alla dissoluzione. Il loro ritorno nei villaggi alimentò a sua volta i disordini nelle campagne.

Fino all'estate tali disordini erano rimasti abbastanza circoscritti, soprattutto rispetto a quanto era accaduto durante la rivoluzione del 1905-1906. Quando si diffuse la notizia dell'abdicazione dello zar si riunirono le assemblee contadine, com'era d'uso in occasione degli eventi importanti, le quali redassero delle petizioni che esponevano le lamentele e i desideri dei contadini. La prima rivendicazione era che la terra dovesse appartenere a chi la lavorava, che le terre lasciate incolte dai latifondisti fossero immediatamente ridistribuite e gli affitti colonici ribassati. A poco a poco i contadini si organizzarono, costituendo comitati agrari nell'ambito sia dei villaggi sia dei distretti, presieduti perlopiù da membri dell'intellighenzia rurale - insegnanti, popi, agronomi, ispettori sanitari - vicini agli ambienti socialisti rivoluzionari. Dopo il maggio-giugno del 1917 il movimento contadino si irrigidì. Per non farsi travolgere dall'impazienza della base, diversi comitati agrari cominciarono a impadronirsi degli attrezzi agricoli e del bestiame dei proprietari terrieri, prendendo possesso di boschi, pascoli e terreni incolti. La lotta ancestrale per la «ripartizione nera» delle terre fu combattuta a spese dei grandi latifondisti, ma anche dei «kulak», i contadini benestanti che grazie alle riforme di Stolypin avevano potuto lasciare la comunità rurale per stabilirsi su un lotto di terreno del quale era loro garantita la piena e integrale proprietà, esente da ogni servitù comunitaria. Già prima della rivoluzione dell'ottobre 1917 il kulak, spauracchio di tutti i discorsi bolscevichi in cui si stigmatizzava il «rapace contadino ricco», il «borghese rurale», l'«usuraio», il «kulak succhiasangue», era ormai l'ombra di se stesso: infatti era stato costretto a restituire alla comunità del villaggio la maggior parte del bestiame, delle macchine, delle terre, riversate nel fondo comune e ripartite secondo l'ancestrale principio egualitario del numero di «bocche da sfamare».

Durante l'estate si fecero sempre più violenti i disordini nelle campagne, fomentati dal ritorno ai villaggi di centinaia di migliaia di disertori armati. Dalla fine di agosto, delusi dalle promesse non mantenute dal governo, che continuava a rimandare la riforma agraria, i contadini andarono all'assalto delle proprietà feudali, che furono sistematicamente saccheggiate e incendiate, per scacciarne i maledetti latifondisti una volta per tutte. In Ucraina, nelle province centrali della Russia - Tambov, Penza, Voronez, Saratov, Orel, Tula, Rjazan' - migliaia di residenze signorili furono incendiate, centinaia di possidenti massacrati.

Di fronte alla vastità di una simile rivolta sociale le autorità di governo e i partiti politici - con la notevole eccezione dei bolscevichi, del cui atteggiamento riparleremo in seguito - oscillavano ancora fra gli sforzi per tenere il movimento più o meno sotto controllo e la tentazione del colpo di Stato militare. I menscevichi, che godevano di popolarità nell'ambiente operaio, e i socialisti rivoluzionari, radicati nel mondo rurale più di qualsiasi altra formazione politica, avevano accettato di entrare nel governo dal mese di maggio, ma, proprio a causa dell'ingresso di alcuni loro dirigenti in un governo preoccupato dell'ordine e della legalità, si dimostrarono incapaci di attuare le riforme da sempre auspicate: in particolare, per quanto riguarda i socialisti rivoluzionari, l'assegnazione delle terre ai contadini. I partiti socialisti moderati, divenuti gestori e custodi dello Stato «borghese», lasciarono il campo della contestazione ai bolscevichi, senza peraltro trarre vantaggio dal fatto di partecipare a un governo che di giorno in giorno andava sempre più perdendo il controllo della situazione nel paese.

Di fronte alla minaccia dell'anarchia, gli ambienti padronali, i proprietari terrieri, lo Stato maggiore e un certo numero di liberali delusi furono tentati dal ricorso a un colpo di mano militare, proposto dal generale Kornilov. La mossa risultò fallimentare per l'opposizione del governo provvisorio, guidato da Aleksandr Kerenskij. La vittoria del putsch avrebbe infatti distrutto il potere civile, che, per quanto debole, restava aggrappato alla gestione formale dei problemi del paese. L'insuccesso del colpo di Stato, tentato dal generale Kornilov il 24-27 agosto 1917, accelerò la crisi definitiva del governo provvisorio, ormai incapace di reggere anche una sola delle tradizionali leve del potere. Mentre al vertice i giochi di potere contrapponevano dirigenti civili e militari, aspiranti a una dittatura illusoria, venivano meno i pilastri su cui poggiava lo Stato (giustizia, amministrazione, forze armate), il diritto era schernito, l'autorità contestata in tutte le sue forme.

Il fatto indubbio che le masse urbane e rurali si fossero radicalizzate significava forse che erano anche bolscevizzate? E' più che legittimo dubitarne. Militanti operai e dirigenti bolscevichi non attribuivano lo stesso significato alle parole degli slogan universalmente accettati, come «controllo operaio» o «potere ai soviet». Nell'esercito il «bolscevismo di trincea» esprimeva in primo luogo l'aspirazione generale alla pace, condivisa dai combattenti di tutti i paesi, impegnati da tre anni nella guerra più totale e più cruenta. Quanto alla rivoluzione contadina, essa seguiva un cammino del tutto autonomo, molto più affine al programma socialista rivoluzionario, favorevole alla «ripartizione nera», che non a quello bolscevico, sostenitore della nazionalizzazione delle terre e dello sfruttamento agricolo realizzato in grandi complessi collettivi. Nelle campagne i bolscevichi erano conosciuti soltanto attraverso i racconti dei disertori, che si facevano latori di un bolscevismo confuso sintetizzato in due parole magiche: pace e terra. Non era affatto detto che tutti gli scontenti aderissero al Partito bolscevico: secondo calcoli controversi, ai primi di ottobre del 1917 quest'ultimo contava tra i 100 mila e i 200 mila iscritti. Tuttavia, nel vuoto istituzionale dell'autunno del 1917, in cui ogni autorità statale era scomparsa per cedere il posto a una miriade di comitati, soviet e altri gruppuscoli, bastava che un nucleo organizzato e deciso agisse con determinazione per essere subito in grado di esercitare un'autorità sproporzionata rispetto alla sua forza reale. Ed è appunto quel che fece il Partito bolscevico.

Dal momento della sua fondazione, nel 1903, questo partito si era distinto dalle altre correnti della socialdemocrazia, sia russa sia europea, per una strategia volontaristica di radicale rottura con l'ordine esistente e per la sua concezione del partito come organismo fortemente strutturato, disciplinato, elitario ed efficiente, avanguardia costituita da rivoluzionari di professione, agli antipodi del grande partito di coalizione, aperto a simpatizzanti di tendenze largamente diverse, quale era concepito dai menscevichi e in generale dai socialdemocratici europei.

La prima guerra mondiale accentuò ulteriormente la specificità del bolscevismo leninista. Lenin, sempre più isolato, respingendo ogni collaborazione con le altre correnti socialdemocratiche, espose la giustificazione teorica della sua posizione nel saggio "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo", in cui spiegava come la rivoluzione fosse destinata a scoppiare non nel paese dove il capitalismo era più forte, bensì in uno Stato dall'economia poco sviluppata, come la Russia, purché in esso il movimento rivoluzionario fosse guidato da un'avanguardia disciplinata, pronta ad andare fino in fondo, ossia fino a instaurare la dittatura del proletariato e a trasformare la guerra imperialista in guerra civile.

In una lettera del 17 ottobre 1914, diretta a un dirigente bolscevico, Aleksandr Shljapnikov, Lenin scriveva:

"Nell'immediato il male minore sarebbe la disfatta dello zarismo nella guerra.... Tutta l'essenza del nostro lavoro (persistente, sistematico, forse di lunga durata) è di mirare a trasformare la guerra in guerra civile. Quando ciò si verificherà è un'altra questione, non è ancora chiaro. Noi dobbiamo lasciar maturare il momento e «costringerlo a maturare» sistematicamente... Non possiamo né «promettere» la guerra civile, né «decretarla», ma abbiamo il dovere di operare - per il tempo necessario - 'in quella direzione'."

La «guerra imperialista», per il fatto di rivelare le «contraddizioni fra gli imperialismi», rovesciava così i termini del dogma marxista, rendendo l'esplosione più probabile in Russia che in qualsiasi altro paese. Per tutta la guerra Lenin tornò sul concetto che i bolscevichi dovevano essere pronti a incoraggiare con ogni mezzo lo sviluppo di una guerra civile. Nel settembre del 1916 scriveva: «Chi riconosce la guerra delle classi deve riconoscere la guerra civile, che in ogni società classista rappresenta la continuazione, lo sviluppo e l'accentuazione naturali della guerra delle classi».

Dopo la vittoria della Rivoluzione di Febbraio, alla quale non aveva preso parte nessun dirigente bolscevico di qualche livello, in quanto tutti erano o in esilio o all'estero, Lenin, addirittura in contrasto con il parere della stragrande maggioranza dei dirigenti del Partito, predisse il fallimento della politica di conciliazione con il governo provvisorio cui mirava il Soviet di Pietrogrado, dominato da una maggioranza di socialisti rivoluzionari e di socialdemocratici, in una confusione di tendenze. Nelle quattro "Lettere da lontano", scritte a Zurigo dal 20 al 25 marzo 1917, Lenin esigeva l'immediata rottura fra il Soviet di Pietrogrado e il governo provvisorio, e l'attiva preparazione della fase successiva della rivoluzione, quella «proletaria». La contrapposizione fra il testo delle lettere e le posizioni politiche sostenute allora dai dirigenti bolscevichi di Pietrogrado era così netta che il quotidiano bolscevico «Pravda» non si azzardò a pubblicarne altre dopo l'uscita della prima. Secondo Lenin, la comparsa dei soviet indicava che la rivoluzione aveva già superato la «fase borghese». Senza indugiare oltre, tali organi rivoluzionari dovevano impadronirsi del potere con la forza e far cessare la guerra imperialista, anche se ciò avesse provocato lo scoppio di una guerra civile, ineludibile in ogni processo rivoluzionario.

Lenin continuò a difendere posizioni estreme anche dopo il rientro in Russia, avvenuto il 3 aprile 1917. Nelle celebri "Tesi di aprile" ribadiva la propria incondizionata ostilità alla repubblica parlamentare e al processo democratico. Le idee di Lenin, accolte con stupore e ostilità dalla maggioranza dei dirigenti bolscevichi pietrogradesi, fecero rapidi progressi, in particolare fra le nuove reclute del Partito, quelli che Stalin chiamava, con ragione, i "praktik" (i «pratici», in quanto contrapposti ai «teorici»). In pochi mesi gli elementi plebei, fra cui i soldati-contadini occupavano un posto chiave, soverchiarono la componente urbanizzata e intellettuale, formata da vecchie volpi delle lotte sociali istituzionalizzate. I militanti di origine popolare, con una scarsa formazione politica, erano portatori di una forte violenza, radicata nella cultura contadina ed esacerbata da tre anni di guerra, ed erano inoltre meno prigionieri del dogma marxista, che non conoscevano affatto. Da tipici rappresentanti di un bolscevismo plebeo, che ben presto avrebbe fortemente intriso di sé il bolscevismo teorico e intellettuale dei bolscevichi «doc», non si chiedevano affatto se la «tappa borghese» fosse o non fosse necessaria prima di «passare al socialismo». Erano partigiani dell'azione immediata, del colpo di mano, i più fervidi attivisti di un bolscevismo in cui i dibattiti teorici cedevano il posto all'unica questione ormai davvero all'ordine del giorno, ovvero la conquista del potere.

La via indicata da Lenin appariva ben stretta, fra una base plebea sempre più impaziente, pronta all'avventura (i marinai della base di Kronstadt, al largo di Pietrogrado, certe unità della guarnigione pietrogradese, la Guardia rossa dei quartieri operai di Vyborg), e i dirigenti ossessionati dal pensiero del fallimento di una insurrezione prematura, destinata a essere inevitabilmente soffocata. Per tutto il 1917, al contrario di ciò che molti credono, il Partito bolscevico rimase profondamente diviso, strattonato fra gli entusiasmi degli uni e le riluttanze degli altri. La famosa disciplina del Partito era assai più un atto di fede che una realtà. Ai primi di luglio del 1917 le spinte esplosive della base, impaziente di farla finita con le forze governative, rischiarono di travolgere il Partito bolscevico, dichiarato fuorilegge in seguito alle sanguinose manifestazioni pietrogradesi del 3-5 luglio: i suoi dirigenti furono arrestati oppure costretti all'esilio, e fra gli altri lo stesso Lenin.

Se alla fine dell'agosto del 1917 il Partito bolscevico poté riemergere, in una situazione che appariva propizia a conquistare il potere con una insurrezione armata, lo si dovette al fatto che il governo si era dimostrato impotente a risolvere i grandi problemi, che le istituzioni e le autorità tradizionali avevano fallito e che il putsch militare tentato dal generale Kornilov non era andato a buon fine.

Ancora una volta Lenin ebbe un ruolo decisivo come teorico e stratega della conquista del potere. Nelle settimane precedenti il colpo di Stato bolscevico del 25 ottobre 1917, egli mise in atto tutte le fasi di un golpe militare, che non poté né essere anticipato dall'imprevisto insorgere delle «masse» in ebollizione, né frenato dal «legalismo rivoluzionario» di dirigenti bolscevichi come Zinov'ev o Kamenev, i quali, scottati dall'amara esperienza delle giornate di luglio, avrebbero voluto prendere il potere con una maggioranza pluralista, insieme ai socialisti rivoluzionari e ai socialdemocratici di varie tendenze, che nei soviet erano numericamente prevalenti. Dall'esilio finlandese Lenin inviava senza posa al Comitato centrale del Partito bolscevico lettere e articoli che chiamavano all'insurrezione; scriveva per esempio: «Proponendo la pace immediata e dando la terra ai contadini i bolscevichi fonderanno un potere che nessuno rovescerà. Sarebbe vano aspettare la maggioranza formale dei bolscevichi. Nessuna rivoluzione aspetta questo. Se non prenderemo il potere adesso la Storia non ci perdonerà».

Simili appelli lasciavano scettici quasi tutti i dirigenti bolscevichi. Perché affrettare le cose, quando di giorno in giorno la situazione si radicalizzava sempre più? Non era forse sufficiente conservare il contatto con le masse, incoraggiandone la violenza spontanea, lasciar agire le forze dissolutrici dei movimenti sociali, aspettare la convocazione del Secondo Congresso panrusso dei soviet, prevista per il 20 ottobre? I bolscevichi avevano tutte le probabilità di ottenere la maggioranza relativa in un'assemblea in cui i delegati dei soviet dei grandi centri operai e dei comitati di soldati erano rappresentati in misura largamente superiore rispetto ai soviet rurali, dove predominavano i socialisti rivoluzionari. Ma, secondo Lenin, se il passaggio di potere fosse avvenuto in seguito al voto del Congresso dei soviet, ne sarebbe scaturito un governo di coalizione, in cui i bolscevichi avrebbero dovuto condividere il potere con le altre formazioni socialiste. Lenin, che da mesi andava reclamando tutto il potere per i soli bolscevichi, voleva a ogni costo che questi ultimi se ne impadronissero da sé, con una insurrezione militare, "prima" che fosse convocato il Secondo Congresso panrusso dei soviet. Sapeva che gli altri partiti socialisti avrebbero condannato il colpo di Stato insurrezionale, e quindi non avrebbero avuto altra scelta che schierarsi all'opposizione, lasciando ai bolscevichi tutto il potere. Il 10 ottobre, rientrato a Pietrogrado per vie clandestine, Lenin riunì dodici dei ventuno membri del Comitato centrale del Partito bolscevico. Dopo dieci ore di discussione riuscì a convincere la maggioranza dei presenti a votare la decisione più importante che il Partito avesse mai preso: il principio di una insurrezione armata da scatenare al più presto. Tale decisione fu approvata con dieci voti contro due, quelli di Zinov'ev e Kamenev, risolutamente attaccati all'idea che prima della riunione del Secondo Congresso dei soviet non si dovessero prendere iniziative. Il 16 ottobre, malgrado l'opposizione dei socialisti moderati, Trotsky organizzò una struttura militare che in teoria era emanazione del Soviet pietrogradese, ma in effetti era costituita da un nucleo di bolscevichi, il Comitato militare rivoluzionario (Milrevkom) di Pietrogrado, incaricato di attuare la conquista del potere in base alla tecnica dell'insurrezione militare, agli antipodi rispetto a una insurrezione popolare spontanea e anarchica, che avrebbe potuto travolgere il Partito bolscevico.

Secondo gli auspici di Lenin, il numero di quanti parteciparono direttamente alla Grande Rivoluzione socialista d'Ottobre fu molto ristretto: poche migliaia fra soldati della guarnigione, marinai di Kronstadt e Guardie rosse riunite nel Milrevkom, poche centinaia di militanti bolscevichi dei comitati di fabbrica. I rari scontri e l'insignificante numero di vittime attestano la facilità di un colpo di Stato che era atteso, preparato con cura e perpetrato senza opposizione. Fatto significativo, il potere fu conquistato in nome del Milrevkom: in tal modo i dirigenti bolscevichi lo attribuirono in tutto e per tutto a un'entità alla quale nessuno aveva dato mandato, se non il Comitato centrale bolscevico, e che quindi non dipendeva in alcun modo dal Congresso dei soviet.

La strategia di Lenin si dimostrò giusta. Di fronte al fatto compiuto i socialisti moderati, dopo aver denunciato «la congiura militare organizzata alle spalle dei soviet», abbandonarono il Secondo Congresso. I bolscevichi, rimasti in gran numero accanto ai loro unici alleati, i membri del piccolo gruppo socialista rivoluzionario di sinistra, ottennero che il loro colpo di mano fosse ratificato dai deputati del congresso ancora presenti, i quali votarono un testo formulato da Lenin in cui si attribuiva «tutto il potere ai soviet».

Poche ore dopo, prima di sciogliersi, il congresso sancì la creazione del nuovo governo bolscevico, il Consiglio dei commissari del popolo, presieduto da Lenin, e approvò i decreti sulla pace e sulla terra, i primi atti compiuti dal nuovo regime.

Con grande rapidità si moltiplicarono dapprima i malintesi, poi i conflitti, fra il nuovo potere e le forze che con la loro azione erano state autonomamente in grado di dissolvere il vecchio ordinamento politico, economico e sociale. Il primo malinteso riguardò la rivoluzione agraria. I bolscevichi, che avevano sempre sostenuto la nazionalizzazione delle terre, trovandosi in un rapporto di forze sfavorevole, dovettero recuperare, «rubare» il programma socialista rivoluzionario, approvando la ridistribuzione delle terre ai contadini. La disposizione fondamentale del «decreto sulla terra» proclamava: «La proprietà privata della terra è abolita senza indennità, tutte le terre sono a disposizione dei comitati agrari locali per la ridistribuzione»; ma in realtà si limitava a legittimare gli atti compiuti da numerose comunità di villaggio dopo l'estate del 1917: la brutale espropriazione delle terre appartenenti ai grandi latifondisti e ai contadini benestanti, i kulak. I bolscevichi, costretti per il momento a «aderire» alla rivoluzione contadina autonoma, che aveva tanto facilitato la loro ascesa al potere, una decina d'anni dopo avrebbero ripreso il programma originario. Il malinteso del 1917 si sarebbe tragicamente risolto con la collettivizzazione forzata delle campagne, apogeo dello scontro fra il regime uscito dall'Ottobre 1917 e il ceto contadino.

Secondo malinteso: i rapporti tra il Partito bolscevico e tutte le istituzioni (comitati di fabbrica, sindacati, partiti socialisti, comitati di quartiere e, soprattutto, soviet) che avevano al tempo stesso contribuito a distruggere gli istituti tradizionali e lottato per affermare ed estendere le proprie prerogative. In poche settimane queste istituzioni furono spogliate del loro potere, subordinate al Partito bolscevico o eliminate. Con una sorta di gioco di prestigio, il «potere ai soviet», senza dubbio la parola d'ordine più popolare nella Russia dell'ottobre del 1917, si tramutò in potere del Partito bolscevico sui soviet. Quanto al «controllo operaio», altra rivendicazione della massima importanza avanzata da coloro in nome dei quali i bolscevichi pretendevano di agire (vale a dire i proletari pietrogradesi e quelli degli altri grandi centri industriali), fu ben presto scartato a favore del controllo dello Stato, spacciato per «operaio», sulle imprese e sui lavoratori. Nasceva la reciproca incomprensione fra il mondo operaio, assediato dalla disoccupazione, dal continuo decrescere del proprio potere d'acquisto e dalla fame, e uno Stato preoccupato dell'efficienza economica. Dopo il dicembre del 1917 il nuovo regime dovette affrontare un'ondata di rivendicazioni operaie e di scioperi. In poche settimane i bolscevichi avevano perduto una parte essenziale della fiducia di cui avevano goduto per tutto il 1917 fra i lavoratori.

Terzo malinteso: i rapporti del nuovo potere con le nazionalità dell'ex impero zarista. Il colpo di Stato bolscevico accelerò tendenze centrifughe che da principio i nuovi dirigenti parvero voler garantire. I bolscevichi, che riconoscevano ai popoli del vecchio impero l'uguaglianza e la sovranità, il diritto all'autodeterminazione, alla federazione, alla secessione, sembravano invitare i popoli allogeni a emanciparsi dalla tutela del potere centrale russo. Entro pochi mesi avevano proclamato l'indipendenza polacchi, finlandesi, baltici, ucraini, georgiani, armeni, azeri. I bolscevichi, sopraffatti, ben presto subordinarono il diritto dei popoli all'autodeterminazione alla necessità di conservare il grano ucraino, il petrolio e i minerali del Caucaso, insomma di assicurare gli interessi vitali del nuovo Stato, che almeno sul piano territoriale non tardò ad affermarsi come l'erede dell'ex impero assai più che del governo provvisorio.

La somma delle spinte rappresentate da rivoluzioni sociali e nazionali multiformi e da una pratica politica particolare, che escludeva ogni condivisione del potere, avrebbe ben presto condotto a uno scontro fra il nuovo potere e ampi settori della società, uno scontro che avrebbe prodotto violenza e terrore.

2. IL «BRACCIO ARMATO DELLA DITTATURA DEL PROLETARIATO».
Il nuovo potere ha l'aspetto di una costruzione complessa: una facciata, il «potere dei soviet», di cui il Comitato centrale esecutivo è il rappresentante formale; un governo legale, il Consiglio dei commissari del popolo, che si sforza di acquisire legittimità sia internazionale sia interna; un'organizzazione rivoluzionaria, struttura operativa centrale nel dispositivo per la conquista del potere, il Comitato militare rivoluzionario (Milrevkom) di Pietrogrado. Ecco come descriveva questo comitato Feliks Dzerzinskij, che fin da principio vi ebbe un ruolo decisivo: «Una struttura leggera, flessibile, operativa all'istante, senza giuridicismi pignoli. Nessuna restrizione all'agire, per colpire i nemici con il braccio armato della dittatura del proletariato».

Come funzionava, fin dai primi giorni del nuovo regime, il «braccio armato della dittatura del proletariato», secondo la metafora di Dzerzinskij, in seguito ripresa per indicare la polizia politica bolscevica, la Ceka? In modo semplice e sbrigativo. Il Milrevkom era formato da una sessantina di membri, dei quali quarantotto bolscevichi, per il resto socialisti rivoluzionari e anarchici; aveva un «presidente» ufficiale, un socialista rivoluzionario di sinistra, Lazimir, debitamente affiancato da quattro vicepresidenti bolscevichi, fra i quali Antonov-Ovseenko e Dzerzinskij. In realtà, i circa seimila ordini emessi dal Milrevkom pietrogradese durante i cinquantatré giorni della sua esistenza furono stilati (in genere a matita, scarabocchiati su pezzetti di carta) e firmati, con il titolo di «presidente» o di «segretario», da una ventina di persone.

La stessa «semplicità operativa» valeva per la diffusione delle direttive e l'esecuzione degli ordini. Il Milrevkom agiva tramite una rete di circa mille «commissari», nominati presso gli organismi più diversi: unità militari, soviet, comitati di quartiere, amministrazioni. Questi commissari, che rispondevano unicamente al Milrevkom, spesso prendevano provvedimenti senza l'avallo del governo né quello del Comitato centrale bolscevico. Dal 26 ottobre (8 novembre) [1], in assenza di tutti i grandi capi bolscevichi, occupati a formare il governo, oscuri «commissari» rimasti anonimi decisero di «consolidare la dittatura del proletariato» con i provvedimenti che seguono: divieto di diffondere opuscoli «controrivoluzionari», chiusura dei sette giornali più importanti della capitale, sia «borghesi» sia «socialisti moderati», controllo sulla radio e sul telegrafo, definizione di un progetto di requisizione degli appartamenti e delle automobili di proprietà privata. La chiusura dei giornali fu legalizzata due giorni dopo da un decreto del governo, confermato una settimana più tardi, non senza aspri dibattiti, dal Comitato esecutivo centrale dei soviet.

I dirigenti sovietici, poco sicuri della loro forza, in un primo tempo incoraggiarono quella che chiamavano la «spontaneità rivoluzionaria delle masse», secondo la tattica seguita con successo durante il 1917. Nel rispondere a una delegazione di rappresentanti di soviet rurali, venuti dalla provincia di Pskov per chiedere al Milrevkom quali misure prendere per «evitare l'anarchia», Dzerzinskij spiegò:

"Il compito attuale è infrangere il vecchio ordine. Noi bolscevichi non siamo abbastanza numerosi per realizzare tale storica missione. Occorre lasciar agire la spontaneità rivoluzionaria delle masse che lottano per emanciparsi. In un secondo tempo noi bolscevichi mostreremo alle masse la via da seguire. Attraverso il Milrevkom sono le masse che parlano, che agiscono contro il loro nemico di classe, contro i nemici del popolo. Noi serviamo soltanto a incanalare e a guidare l'odio e il desiderio legittimo di vendetta che gli oppressi nutrono contro gli oppressori".

Alcuni giorni prima, durante la riunione del Milrevkom del 29 ottobre (11 novembre), alcuni presenti, voci anonime, avevano parlato della necessità di lottare con maggiore energia contro i «nemici del popolo», formula destinata a riscuotere grande successo nei mesi, anni e decenni a venire, e che fu ripresa in un proclama del Milrevkom del 13 novembre (26 novembre): «Gli alti funzionari delle amministrazioni dello Stato, delle banche, del Tesoro, delle ferrovie, delle poste e telegrafi, sabotano i provvedimenti del governo bolscevico. D'ora in poi costoro sono dichiarati nemici del popolo. I loro nomi saranno pubblicati su tutti i giornali e gli elenchi dei nemici del popolo saranno esposti in tutti i luoghi pubblici». Pochi giorni dopo l'istituzione di queste liste di proscrizione, un nuovo proclama:

«Tutti gli individui sospetti di sabotaggio, speculazione, accaparramento potranno essere arrestati sul posto come nemici del popolo e associati alle carceri di Kronstadt». In pochi giorni il Milrevkom aveva introdotto due concetti particolarmente temibili: quello di «nemico del popolo» e quello di «sospetto».

Il 28 novembre (11 dicembre) il governo diede valore istituzionale al concetto di «nemico del popolo»; un decreto firmato da Lenin stabiliva che «i membri degli organi dirigenti del Partito costituzionaldemocratico, partito dei nemici del popolo, sono dichiarati fuorilegge, passibili di arresto immediato e di convocazione di fronte ai tribunali rivoluzionari». Tali tribunali erano stati istituiti di recente, con il «Decreto n. 1 sui tribunali», in base al quale si abolivano tutte le leggi «in contrasto con i decreti del governo operaio e contadino, come pure con i programmi politici dei Partiti socialdemocratico e socialista rivoluzionario». Mentre si attendeva la redazione del nuovo Codice penale, i giudici avevano carta bianca nel considerare la validità della legge esistente «in funzione dell'ordine e della legalità rivoluzionari», un concetto talmente vago da consentire ogni sorta di abuso. I tribunali del vecchio regime furono soppressi e sostituiti da tribunali popolari e tribunali rivoluzionari, competenti per tutti i reati e i crimini compiuti «contro lo Stato proletario», per il «sabotaggio», lo «spionaggio», gli «abusi di potere» e gli altri «crimini controrivoluzionari». Come riconosceva Kurskij, commissario del popolo per la Giustizia dal 1918 al 1928, i tribunali rivoluzionari non erano tribunali nel senso abituale, «borghese», del termine, bensì tribunali della dittatura del proletariato, organi della lotta contro la controrivoluzione, preoccupati di estirpare più che di giudicare.

Fra i tribunali rivoluzionari figurava un Tribunale rivoluzionario per le questioni della stampa, con l'incarico di giudicare i reati di stampa e di sospendere ogni pubblicazione che avesse «seminato il disordine negli animi divulgando di proposito notizie erronee».

Mentre comparivano categorie inedite (sospetti, nemici del popolo) e si mettevano in atto nuovi dispositivi giudiziari, il Comitato militare rivoluzionario pietrogradese continuava a organizzarsi. In una città in cui le riserve di farina non erano sufficienti ad assicurare neppure la razione quotidiana da fame (all'incirca 200 grammi di pane per ogni adulto), la questione del vettovagliamento appariva senza dubbio di primaria importanza.

Il 4 novembre (17 novembre) fu creata una Commissione per il vettovagliamento, che nel suo primo proclama stigmatizzava le «classi ricche che approfittano della miseria», affermando: «E' tempo di requisire ai ricchi il superfluo, e anzi, i beni in generale». L'11 novembre (24 novembre) la commissione decise l'invio immediato, nelle province cerealicole, di speciali distaccamenti, costituiti da soldati, marinai, operai e Guardie rosse, così da procurare i prodotti alimentari di prima necessità per Pietrogrado e per il fronte. Il provvedimento, varato da una commissione del Milrevkom pietrogradese, prefigurava la politica di requisizione che sarebbe stata condotta per tre anni dai distaccamenti dell'«esercito del vettovagliamento», ed era destinata a essere il fattore essenziale dello scontro fra nuovo potere e ceto contadino, scontro generatore di violenza e di terrore.

La Commissione militare d'inchiesta, creata il 10 novembre (23 novembre), aveva l'incarico di arrestare gli ufficiali «controrivoluzionari», denunciati perlopiù dai loro soldati, i membri dei partiti «borghesi», i funzionari sospettati di «sabotaggio». Ben presto essa prese a occuparsi delle questioni più disparate. Nel clima torbido di una città alla fame, dove reparti di Guardie rosse e di milizie improvvisate perquisivano, taglieggiavano, saccheggiavano in nome della Rivoluzione, ogni giorno, sulla base dell'incerto mandato a firma di qualche «commissario», centinaia di individui erano portati davanti alla commissione per i reati più vari: «saccheggio», «speculazione», «accaparramento di prodotti di prima necessità», ma anche «stato di ebbrezza» o «appartenenza a una classe ostile».

Gli appelli dei bolscevichi a favore della spontaneità rivoluzionaria delle masse potevano rivelarsi un'arma a doppio taglio: si moltiplicarono i regolamenti di conti e le violenze, in particolare le rapine a mano armata e il saccheggio di negozi, soprattutto delle rivendite di alcolici, e delle cantine del Palazzo d'Inverno. Con il passare dei giorni il fenomeno divenne così vasto che, su proposta di Dzerzinskij, il Milrevkom decise di creare una Commissione di lotta contro l'ubriachezza e i disordini. Il 6 dicembre (19 dicembre) la commissione dichiarò lo stato d'assedio nella città di Pietrogrado, introducendo il coprifuoco per «metter fine a disordini e sommosse fomentati da loschi elementi che si mascherano da sedicenti rivoluzionari».

Più ancora che i disordini sporadici, in realtà il governo bolscevico temeva che si estendesse lo sciopero dei funzionari, cominciato all'indomani del colpo di Stato del 25 ottobre (7 novembre). Tale minaccia costituì il pretesto per creare, il 7 dicembre (20 dicembre), la «Vserossijskaja crezvyciajnaja komissija po bor'be s kontrrevoljuciej, spekuljaciej i sabotazem», ossia la Commissione straordinaria panrussa di lotta contro la controrivoluzione, la speculazione e il sabotaggio, destinata a entrare nella storia con l'acronimo Veceka, abbreviato in Ceka.

Pochi giorni prima di creare la Ceka, il governo aveva deciso, non senza qualche esitazione, di sciogliere il Milrevkom: una struttura operativa provvisoria, fondata alla vigilia dell'insurrezione per dirigere le operazioni sul campo, che aveva ormai assolto i compiti a essa assegnati; aveva reso possibile la conquista del potere e la difesa del nuovo regime fino a che quest'ultimo non avesse costituito un proprio apparato statale; a questo punto, tuttavia, per evitare confusione di poteri e sovrapposizione di competenze, doveva trasferire le proprie prerogative al governo legale, il Consiglio dei commissari del popolo.

Ma in un momento simile, che i dirigenti bolscevichi consideravano critico, come avrebbero potuto rinunciare al «braccio armato della dittatura del proletariato»? Durante la riunione del 6 dicembre il governo diede incarico al «compagno Dzerzinskij di fondare una commissione speciale che esaminerà i mezzi per lottare, con la massima energia rivoluzionaria, contro lo sciopero generale dei funzionari e determinerà i metodi per sopprimere il sabotaggio». La scelta del «compagno Dzerzinskij» non solo non suscitò discussioni, ma apparve ovvia. Pochi giorni prima Lenin, sempre alla ricerca di paralleli storici fra la Grande rivoluzione - quella francese - e la Rivoluzione russa del 1917, aveva confidato al segretario, V. Bonc-Bruevic, che era necessario trovare con urgenza «il nostro Fouquier-Tinville, che faccia fuori tutta la nostra canaglia controrivoluzionari». Il 6 dicembre, nella designazione di un «solido giacobino proletario», per riprendere un'altra formula di Lenin, la scelta unanime cadde su Feliks Dzerzinskij, che in poche settimane, per l'energica azione svolta nel Milrevkom, era diventato il massimo specialista nelle questioni di sicurezza. D'altra parte, come spiegò Lenin a Bonc- Bruevic, «fra tutti noi è Feliks quello che ha passato più tempo nelle galere zariste e ha provocato più spesso l'Ohranka [diminutivo con significato dispregiativo del termine russo «Ohrana», la polizia politica zarista]. Lui se ne intende!».

Prima della riunione di governo del 7 dicembre (20 dicembre), Lenin inviò un messaggio a Dzerzinskij:

"Riguardo al suo rapporto di oggi, non sarebbe possibile stilare un decreto con un preambolo di questo genere: la borghesia si accinge a commettere i delitti più abominevoli, reclutando la feccia della società per organizzare delle sommosse? I complici della borghesia, in particolare gli alti funzionari, i dirigenti bancari eccetera, fanno sabotaggio e organizzano scioperi per vanificare i provvedimenti del governo destinati ad attuare la trasformazione socialista della società. La borghesia non si tira indietro neppure di fronte al sabotaggio del vettovagliamento, che condanna alla carestia milioni di uomini. Occorrono provvedimenti eccezionali per lottare contro i sabotatori e i controrivoluzionari. Di conseguenza, il Consiglio dei commissari del popolo decreta..."

. Nella serata del 7 dicembre Dzerzinskij presentò il progetto di legge al Consiglio dei commissari del popolo; nel suo intervento esordì parlando dei pericoli che minacciavano la rivoluzione sul «fronte interno»:

"Su questo fronte, il più pericoloso e il più crudele di tutti, dobbiamo inviare compagni determinati, duri, solidi, non soggetti all'emotività, pronti a sacrificarsi per la salvezza della Rivoluzione. Non crediate, compagni, che io cerchi una forma di giustizia rivoluzionaria. Qui si tratta di ben altro che di «giustizia»! Siamo in guerra, sul fronte più crudele, perché il nemico avanza mascherato, ed è una lotta all'ultimo sangue! Io propongo, io esigo la creazione di un organo che farà i conti con i controrivoluzionari in modo rivoluzionario, autenticamente bolscevico!".

Poi Dzerzinskij affrontò il nucleo centrale dell'intervento, che trascriviamo così come appare dal verbale della seduta:

"La Commissione ha il compito: 1. di sopprimere e liquidare ogni attentato e atto di controrivoluzione e sabotaggio, da qualunque parte provenga, su tutto il territorio della Russia; 2. di far comparire di fronte a un tribunale rivoluzionario tutti i sabotatori e i controrivoluzionari.

La Commissione si limita a una inchiesta preliminare, in quanto questa è indispensabile per attuare il suo compito.

La Commissione è divisa in dipartimenti: 1. Informazione; 2. Organizzazione; 3. Operazione.

La Commissione rivolgerà particolare attenzione alle questioni di stampa, di sabotaggio, ai cadetti [o K.D.: costituzionaldemocratici], agli S.R. [socialisti rivoluzionari] di destra, ai sabotatori e agli scioperanti.

Provvedimenti repressivi affidati alla Commissione: confisca dei beni, espulsione dal domicilio, privazione delle tessere annonarie, pubblicazione di elenchi dei nemici del popolo eccetera.

Risoluzione: approvare il progetto. Denominare la Commissione: Commissione straordinaria panrussa di lotta contro la controrivoluzione, la speculazione e il sabotaggio. Da pubblicare".

Questo testo di fondazione della polizia politica sovietica sollecita un interrogativo: come interpretare la discordanza fra il bellicoso discorso di Dzerzinskij e la relativa modestia dei compiti attribuiti alla Ceka? I bolscevichi erano sul punto di concludere un accordo con i socialisti rivoluzionari di sinistra (il 12 dicembre sei loro dirigenti entrarono nel governo) per rompere il proprio isolamento politico in un momento in cui dovevano affrontare la questione della convocazione dell'Assemblea costituente, dove si trovavano in minoranza; scelsero quindi di adottare un basso profilo. In contrasto con la risoluzione approvata dal governo il 7 dicembre (20 dicembre), non fu pubblicato nessun decreto per annunciare la creazione della Ceka e definirne le competenze.

La Ceka, commissione «straordinaria», era destinata a prosperare e a operare senza la minima base legale. Dzerzinskij, che come Lenin desiderava avere le mani libere, se ne uscì con una frase stupefacente: «E' la vita stessa a indicare la strada alla Ceka». La vita, ossia il «terrore rivoluzionario delle masse», la violenza della piazza che allora quasi tutti i dirigenti bolscevichi incoraggiavano vivamente, dimenticando per il momento la propria radicata diffidenza nei confronti della spontaneità popolare.

In un discorso del primo dicembre (14 dicembre) ai delegati del Comitato esecutivo centrale dei soviet, il commissario del popolo per la Guerra, Trotsky, ammonì: «In meno di un mese il terrore prenderà forme violentissime, sull'esempio di quanto accadde nella Grande Rivoluzione francese. Per i nostri nemici non prepareremo più soltanto la prigione, ma la ghigliottina, notevole invenzione della Grande Rivoluzione francese, che ha il vantaggio riconosciuto di accorciare gli uomini di una testa».

Poche settimane dopo, nel suo discorso a un'assemblea di operai, ancora una volta Lenin lanciò un appello al terrore, «giustizia rivoluzionaria di classe»: «Il potere sovietico ha agito come tutte le rivoluzioni proletarie avrebbero dovuto agire: ha troncato di netto la giustizia borghese, strumento delle classi dominanti.... I soldati e gli operai devono capire che se non si aiutano da sé non li aiuterà nessuno. Se le masse non si rialzano spontaneamente, non concluderemo nulla.... Finché non applicheremo il terrore nei confronti degli speculatori - una pallottola in testa, seduta stante - non arriveremo a niente!».

Gli appelli al terrore rinfocolavano la violenza, che del resto, per scatenarsi, non aveva atteso certo l'ascesa al potere dei bolscevichi. Fin dall'autunno 1917 migliaia di grandi proprietà fondiarie erano state saccheggiate dai contadini furibondi, e centinaia di latifondisti erano stati massacrati. Nella Russia dell'estate del 1917 la violenza era onnipresente; non che fosse in sé nuova, ma gli eventi di quell'anno avevano consentito che si coagulassero diverse forme di violenza, presenti allo stato latente: la violenza urbana, «reattiva» alla brutalità dei rapporti capitalistici all'interno del mondo industriale; la violenza contadina «tradizionale»; la violenza «moderna» della prima guerra mondiale, che ebbe sui rapporti umani un effetto straordinariamente regressivo e brutalizzante. La miscela di queste tre forme di violenza costituiva un cocktail esplosivo, capace di avere un effetto devastante nella particolarissima congiuntura della Russia in rivoluzione, segnata al tempo stesso dalla bancarotta delle istituzioni preposte all'ordine e all'esercizio dell'autorità, dal lievitare di risentimenti e frustrazioni sociali a lungo accumulate e dalla strumentalizzazione politica della violenza popolare. Fra città e campagna regnava una reciproca diffidenza: per i russi delle campagne la città era più che mai il luogo del potere e dell'oppressione; per l'élite urbana, per i rivoluzionari di professione, nella stragrande maggioranza usciti dai ranghi dell'intellighenzia, i contadini, come scriveva Gor'kij, restavano una massa di «individui semiselvaggi» con «istinti crudeli» e un «individualismo animale» che dovevano essere assoggettati alla «ragione organizzata della città». Al tempo stesso politici e intellettuali erano perfettamente coscienti del fatto che erano state le rivolte contadine a far vacillare il governo provvisorio, permettendo ai bolscevichi di impadronirsi del potere nel vuoto istituzionale circostante sebbene fossero fortemente minoritari nel paese.

***

Tra la fine del 1917 e i primi del 1918 non esisteva alcuna seria opposizione che minacciasse il nuovo regime; a un mese dal colpo di Stato i bolscevichi controllavano la maggior parte del nord e del centro della Russia, fino alla valle mediana del Volga, ma anche un certo numero di grandi centri abitati, fin nel Caucaso (Baku) e in Asia centrale (Tashkent). Certo, Ucraina e Finlandia avevano scelto la secessione, ma non manifestavano intenti bellicosi verso il potere bolscevico. L'unica forza militare organizzata antibolscevica era il piccolo Esercito dei volontari, di circa 3000 uomini, embrione della futura Armata bianca, radunato nel sud della Russia dai generali Alekseev e Kornilov. Questi generali zaristi fondavano tutte le loro speranze sui cosacchi del Don e del Kuban'. I cosacchi erano radicalmente diversi dagli altri contadini russi; sotto il vecchio regime il loro principale privilegio era la concessione di 30 ettari di terra, in cambio del servizio militare prestato fino all'età di trentasei anni. Non aspiravano ad acquisire altre terre, ma erano ben decisi a conservare quelle che possedevano. I cosacchi si unirono alle forze antibolsceviche nella primavera del 1918, spinti dal desiderio di salvaguardare in primo luogo il loro status privilegiato e l'indipendenza, e preoccupati per le dichiarazioni dei bolscevichi contro i kulak.

E' forse possibile parlare di guerra civile a proposito dei primi scontri avvenuti fra l'inverno del 1917 e la primavera del 1918, nella Russia meridionale, fra qualche migliaio di uomini dell'Esercito dei volontari e le truppe bolsceviche del generale Sivers, costituite a stento da 6000 uomini? A prima vista colpisce il contrasto fra il piccolo numero di effettivi coinvolti negli scontri e l'inaudita violenza della repressione esercitata dai bolscevichi, non solo contro i militari presi prigionieri, ma anche contro i civili. La Commissione d'inchiesta sui crimini bolscevichi, istituita nel giugno del 1919 dal generale Denikin, comandante in capo delle forze armate della Russia meridionale, nei pochi mesi della sua attività cercò di recensire le atrocità commesse dai bolscevichi in Ucraina, nel Kuban', nella regione del Don e in Crimea. Le testimonianze raccolte dalla commissione - che costituiscono la fonte principale del libro di S. P. Mel'gunov "La Terreur rouge en Russie, 1918-1924" (Il Terrore rosso in Russia, 1918-1924), il grande classico sul terrore bolscevico pubblicato nel 1924 a Londra - elencano innumerevoli atrocità perpetrate dal gennaio del 1918 in poi. A Taganrog, reparti dell'armata di Sivers avevano gettato in un altoforno, con mani e piedi legati, cinquanta fra junker e ufficiali «bianchi». A Evpatorija varie centinaia di ufficiali e di «borghesi» furono incatenati e poi gettati in mare, dopo essere stati torturati. Identiche violenze ebbero luogo nella maggior parte delle città della Crimea occupate dai bolscevichi: Sebastopoli, Jalta, Alushta, Simferopol'. Analoghe atrocità si verificarono nelle insurrezioni dei maggiori insediamenti cosacchi: le meticolose descrizioni registrate dalla commissione Denikin parlano di «cadaveri con le mani mozzate, con le ossa fratturate oppure privi della testa, con le mandibole fracassate, amputati degli organi genitali».

D'altra parte, come osserva Mel'gunov, è «difficile distinguere l'eventuale attuazione sistematica del terrore organizzato da quelli che sembrano "eccessi" sfuggiti al controllo». Fino all'agosto- settembre del 1918 non si cita quasi mai l'esistenza di una Ceka locale che guidi i massacri; prima di questa data, infatti, la rete delle Ceka è ancora in diversi punti un po' troppo rada. I massacri, diretti scientemente non solo contro i combattenti della parte avversa, ma anche contro i «nemici del popolo» civili (così, fra le 240 persone uccise a Jalta ai primi di marzo 1918 figuravano, oltre a 165 ufficiali, circa 70 uomini politici, avvocati, giornalisti, professori), furono perlopiù opera di «reparti armati, Guardie rosse e altri elementi bolscevichi» non specificati. Sterminare il «nemico del popolo» non era che il logico prolungamento di una rivoluzione insieme politica e sociale, dove gli uni erano «vincitori» e gli altri «vinti»; una simile concezione del mondo non era comparsa all'improvviso dopo l'ottobre del 1917, ma era stata legittimata dalle prese di posizione bolsceviche, del tutto esplicite in proposito.

Ricordiamo che cosa scriveva già nel marzo del 1917 un giovane capitano a proposito della rivoluzione nel proprio reggimento, in una lettera quanto mai perspicace: «Fra noi e i soldati c'è un abisso invalicabile. Per loro, noi siamo e resteremo dei "barin", dei signori. Per loro, quel che è accaduto non è una rivoluzione politica, ma una rivoluzione sociale, in cui essi sono i vincitori e noi i vinti. Ci dicono: "Prima i 'barin' eravate voi, adesso tocca a noi esserlo!". La loro impressione è di aver ottenuto finalmente la rivincita, dopo secoli di schiavitù».

I dirigenti bolscevichi incoraggiarono tutto ciò che poteva corroborare, nelle masse popolari, l'aspirazione a una «rivalsa sociale» che implicava la legittimazione morale della delazione, del terrore, di una guerra civile «giusta», secondo le espressioni usate dallo stesso Lenin. Il 15 dicembre (28 dicembre) 1917 Dzerzinskij pubblicò sull'«Izvestija» un appello per invitare tutti i soviet a organizzare delle Ceka. Ne risultò un formidabile pullulare di commissioni, distaccamenti e altri «organi straordinari» che le autorità centrali faticarono parecchio a tenere a freno quando, pochi mesi dopo, decisero di dichiarare conclusa la fase della «iniziativa delle masse», organizzando una rete strutturata e centralizzata di Ceka locali.

Nel luglio del 1918, descrivendo il primo semestre di vita della Ceka, Dzerzinskij scriveva: «Fu un periodo di improvvisazione e di tentativi alla cieca, nel quale la nostra organizzazione non fu sempre all'altezza delle circostanze» (19). Nondimeno, a questa data era già pesante il bilancio dell'opera compiuta dalla Ceka come organo di repressione delle libertà; e l'organizzazione che nel dicembre del 1917 era costituita da un centinaio scarso di individui, in sei mesi aveva moltiplicato i suoi effettivi di centoventi volte!

L'esordio, è vero, fu piuttosto modesto; l'11 gennaio 1918 Dzerzinskij scrisse a Lenin: «Ci troviamo in una situazione impossibile, malgrado i servizi importanti già resi. Niente finanziamenti. Lavoriamo giorno e notte senza pane, né zucchero, né tè, né burro, né formaggio. Prendete provvedimenti per assicurarci razioni decenti oppure autorizzateci a requisire noi stessi quanto ci occorre ai borghesi» . Dzerzinskij aveva reclutato un centinaio di uomini, perlopiù antichi compagni di clandestinità, in maggioranza di origine polacca o baltica, che avevano tutti lavorato nel Milrevkom di Pietrogrado, e fra i quali figuravano già i futuri quadri dirigenti della G.P.U. degli anni Venti e dell'N.K.V.D. degli anni Trenta: Lacis, Menzinskij, Messing, Moroz, Peters, Trilisser, Unshliht, Jagoda.

La prima azione compiuta dalla Ceka fu di troncare lo sciopero dei funzionari pietrogradesi, con un metodo spiccio - arresto dei «caporioni» - e una giustificazione semplice: «Chi non vuole lavorare con il popolo non ha posto al suo fianco» dichiarò Dzerzinskij, che fece arrestare un certo numero di deputati socialisti rivoluzionari e menscevichi eletti nell'Assemblea costituente. L'atto arbitrario fu subito condannato dal commissario del popolo per la Giustizia, Shtejnberg, un socialista rivoluzionario di sinistra entrato da pochi giorni a far parte del governo. Questo primo incidente fra la Ceka e il commissariato per la Giustizia poneva la questione capitale dello statuto extralegale della polizia politica.

«A che serve allora un commissariato del popolo per la Giustizia?» chiese Shtejnberg a Lenin. «Tanto varrebbe chiamarlo commissariato del popolo per lo sterminio sociale, e tutto sarebbe risolto!» «Eccellente idea» rispose Lenin. «E' esattamente così che io vedo la questione. Purtroppo non si può dargli questo nome!». Naturalmente Lenin risolse il conflitto fra Shtejnberg (che esigeva la rigorosa subordinazione della Ceka al commissariato per la Giustizia) e Dzerzinskij (che insorgeva contro il «giuridicismo pignolo della scuola del vecchio regime») a favore del secondo: la Ceka avrebbe dovuto rispondere dei suoi atti unicamente al governo.

Il 6 gennaio (19 gennaio) 1918 segnò una tappa importante nel rafforzamento della dittatura bolscevica: nelle prime ore del mattino l'Assemblea costituente (eletta nel novembre-dicembre 1917), dove i bolscevichi erano in minoranza avendo soltanto 175 deputati su un totale di 707 eletti, fu dispersa con la forza dopo essere stata in sessione un solo giorno. Tuttavia il gesto arbitrario non ebbe nel paese una risonanza apprezzabile. Una piccola manifestazione organizzata per protestare contro lo scioglimento fu repressa dalle truppe armate: si contarono 20 morti, un tributo pesante per una esperienza parlamentare durata soltanto poche ore.

Nei giorni e nelle settimane che seguirono allo scioglimento dell'Assemblea costituente la posizione del governo bolscevico a Pietrogrado si fece sempre più scomoda, nello stesso momento in cui a Brest-Litovsk Trotsky, Kamenev, Ioffe e Radek negoziavano la pace con i delegati degli imperi centrali. Il 9 gennaio 1918 il governo dedicò l'ordine del giorno alla questione del trasferimento a Mosca.

I dirigenti bolscevichi non erano preoccupati tanto per la minaccia tedesca (l'armistizio era in vigore dal 15 [28] dicembre), quanto per un'eventuale insurrezione operaia. In effetti nei quartieri operai, che ancora due mesi prima li sostenevano, cominciava a covare lo scontento. Con la smobilitazione e la fine delle commesse militari le imprese avevano licenziato decine di migliaia di dipendenti; le sempre maggiori difficoltà di approvvigionamento avevano fatto precipitare la razione quotidiana di pane a 100 grammi circa. Lenin, incapace di risolvere la situazione, stigmatizzava «accaparratori» e «speculatori», destinati al ruolo del capro espiatorio; il 22 gennaio (4 febbraio) 1918 scriveva: «Ogni fabbrica, ogni azienda deve organizzare delle squadre di requisizione. Occorre mobilitare per la ricerca di vettovaglie non solo i volontari, ma tutti, sotto pena di immediata confisca della tessera annonaria».

La nomina di Trotsky, tornato il 31 gennaio 1918 da Brest-Litovsk, a capo di una Commissione straordinaria per il vettovagliamento e il trasporto, fu per l'appunto il segno della decisiva importanza che il governo attribuiva alla «caccia al vettovagliamento», prima tappa verso la «dittatura del vettovagliamento». A questa commissione Lenin presentò a metà febbraio una bozza di decreto che perfino i suoi membri - fra gli altri ne faceva parte, oltre a Trotsky, Cjurupa, commissario del popolo per l'Approvvigionamento - giudicarono opportuno respingere. Secondo il testo preparato da Lenin, tutti i contadini sarebbero stati obbligati a consegnare le eccedenze in cambio di una ricevuta; coloro che avessero mancato la consegna entro una certa scadenza sarebbero stati fucilati. Scrive Cjurupa nelle sue memorie: «Quando leggemmo la bozza restammo sbalorditi. Applicare un simile decreto avrebbe provocato esecuzioni in massa; alla fine il progetto di Lenin fu abbandonato».

Tuttavia l'episodio è rivelatore. Già all'inizio del 1918 Lenin, stretto nel vicolo cieco al quale la sua politica l'aveva condotto, preoccupato per la catastrofica situazione dell'approvvigionamento nei grandi centri industriali, percepiti come le uniche isolette di bolscevismo in un oceano contadino, era disposto a tutto per «prendere i cereali» piuttosto che modificare di una virgola la sua impostazione politica. Non si poteva evitare il conflitto fra un ceto contadino che desiderava tenere per sé i frutti del proprio lavoro e respingeva ogni intromissione da parte dell'autorità esterna, e il nuovo regime che voleva affermare la propria autorità, rifiutando di comprendere il funzionamento dei circuiti economici, nel desiderio - e nella convinzione - di poter imporre il proprio dominio su quella che gli pareva una semplice manifestazione di anarchismo sociale.

Il 21 febbraio 1918, di fronte alla fulminea avanzata dell'esercito tedesco seguita all'interruzione dei colloqui preliminari di Brest- Litovsk, il governo proclamò «la Patria socialista in pericolo». L'appello alla resistenza contro l'invasore era accompagnato da un secondo appello al terrore di massa: «Ogni agente nemico, speculatore, teppista, agitatore controrivoluzionario, spia tedesca, sarà fucilato sul posto». In pratica il proclama instaurava la legge marziale nelle aree in cui si svolgevano operazioni militari. Con la pace, firmata a Brest-Litovsk il 3 marzo 1918, la legge marziale avrebbe dovuto essere revocata. Ufficialmente, la pena di morte fu ripristinata in Russia soltanto il 16 giugno 1918, tuttavia a partire dal febbraio dello stesso anno la Ceka eseguì numerose esecuzioni sommarie al di fuori delle zone di guerra.

Il 10 marzo 1918 il governo lasciò Pietrogrado per Mosca, che era così promossa capitale. La Ceka trovò una sistemazione nei pressi del Cremlino, in via Bol'sciaja-Lubjanka, occupando la sede di una compagnia di assicurazioni dove sarebbe rimasta, nelle sue successive incarnazioni con sigle diverse (G.P.U., N.K.V.D., M.V.D., K.G.B.), fino alla caduta del regime sovietico. Tra il marzo e il luglio 1918 il numero di cekisti che lavoravano a Mosca nella «Casa Grande» passò da 600 a 2000, senza contare le truppe speciali; una cifra considerevole, se si tiene conto che in quella stessa data il commissariato del popolo per gli Interni, incaricato di dirigere l'immenso apparato dei soviet locali nell'intero paese, contava soltanto 400 funzionari!

La Ceka lanciò la prima operazione di un certo rilievo nella notte fra l'11 e il 12 aprile 1918. Oltre mille uomini, appartenenti al suo corpo speciale, presero d'assalto a Mosca una ventina di case occupate da anarchici. Dopo diverse ore di lotta accanita furono arrestati 520 anarchici, 25 dei quali sottoposti a esecuzione sommaria come «banditi», denominazione che da allora in poi sarebbe servita a indicare operai in sciopero, disertori che si sottraevano al servizio militare o contadini che si ribellavano alle requisizioni.

Dopo questo primo successo, seguito da altre operazioni di «pacificazione» condotte sia a Mosca sia a Pietrogrado, il 29 aprile 1918 Dzerzinskij inviò al Comitato esecutivo centrale una lettera in cui reclamava un considerevole aumento dei mezzi della Ceka: «Nella fase odierna, di fronte alle opposizioni controrivoluzionarie che proliferano da ogni parte, è inevitabile che l'attività della Ceka abbia una crescita esponenziale».

La «fase odierna» cui Dzerzinskij accennava appare infatti come un periodo decisivo nell'assestamento della dittatura politica ed economica e nel rafforzamento della repressione contro una popolazione sempre più ostile ai bolscevichi. In effetti, dall'ottobre del 1917 in poi quest'ultima non aveva visto migliorare le proprie condizioni di vita, né conservato le libertà fondamentali acquisite nel corso del 1917. I bolscevichi, gli unici fra tutte le forze politiche ad aver lasciato che i contadini prendessero le terre tanto a lungo desiderate, si erano trasformati agli occhi dei contadini stessi in «comunisti», che li privavano dei frutti del loro lavoro. Erano proprio gli stessi? si chiedevano molti contadini, e nelle loro lagnanze distinguevano i «bolscevichi che ci hanno dato la terra» dai «comunisti che taglieggiano il lavoratore onesto, strappandogli anche l'ultima camicia».

In realtà la primavera del 1918 fu un momento cruciale, in cui la partita non era ancora decisa. Nei soviet, che non erano stati ancora imbavagliati e trasformati in semplici organi dell'amministrazione statale, si svolgevano veri e propri dibattiti politici fra bolscevichi e socialisti moderati. I giornali di opposizione continuavano a esistere, benché fossero perseguitati quotidianamente; la vita politica locale conosceva un continuo germogliare di istituzioni concorrenti. In questo periodo, segnato dall'aggravarsi delle condizioni di vita e dal totale collasso dei circuiti di scambio economico fra città e campagne, i socialisti rivoluzionari e i menscevichi riportarono innegabili successi politici. Alle elezioni per il rinnovo dei soviet, nonostante pressioni e manipolazioni varie, risultarono vincitori in diciannove capoluoghi di provincia sui trenta in cui le elezioni si svolsero e ne furono resi pubblici i risultati.

In una simile situazione il governo bolscevico reagì rendendo più rigorosa la propria dittatura, sul piano sia economico sia politico. I circuiti di distribuzione economica erano interrotti sia per quanto riguardava i mezzi, a causa dello spaventoso degrado delle comunicazioni, in particolare ferroviarie, sia per le motivazioni, in quanto l'assenza di prodotti manifatturieri scoraggiava i contadini dal tentare di vendere. Il problema vitale, dunque, era assicurare l'approvvigionamento all'esercito e alle città, luogo di potere e sede del «proletariato». I bolscevichi avevano due possibilità: ristabilire una parvenza di mercato in un'economia in rovina, oppure utilizzare misure coercitive. Scelsero la seconda, convinti che fosse necessario proseguire nella lotta per smantellare il «vecchio ordine».

Il 29 aprile 1918, parlando al Comitato esecutivo centrale dei soviet, Lenin dichiarò senza ambagi: «Sì, i piccoli padroni, i piccoli proprietari sono pronti ad aiutare noi proletari ad abbattere i grandi proprietari fondiari e i capitalisti. Essi non amano l'organizzazione, la disciplina, sono i suoi nemici. E a questo punto noi dobbiamo condurre la lotta più decisa, più implacabile contro questi proprietari privati, contro questi piccoli padroni». Alcuni giorni dopo, di fronte alla stessa assemblea il commissario del popolo per l'Approvvigionamento precisò: «Lo dico apertamente: è una questione di guerra, soltanto con i fucili riusciremo a procurarci i cereali». E Trotsky rincarava: «Il nostro partito è per la guerra civile. La guerra civile è la lotta per il pane... Viva la guerra civile!».

Citiamo un ultimo testo, scritto nel 1921 da un altro dirigente bolscevico, Karl Radek, in cui si chiarisce a perfezione la politica bolscevica della primavera 1918, ossia diversi mesi "prima" dello scontro armato che per due anni avrebbe opposto i Rossi ai Bianchi:

"Il contadino aveva appena ricevuto la terra, era appena tornato a casa dal fronte, aveva ancora le armi, e il suo atteggiamento nei confronti dello Stato si poteva riassumere così: a che serve uno Stato? Non sapeva che farsene! Se avessimo deciso di stabilire una imposta in natura, non ci saremmo riusciti, perché non avevamo apparato statale, quello vecchio era stato distrutto, e i contadini non ci avrebbero dato niente se non fossero stati costretti. All'inizio del 1918 il nostro compito era semplice; dovevamo far capire ai contadini due cose elementari: che lo Stato aveva dei diritti su una parte dei prodotti del ceto contadino per i propri bisogni, e che disponeva della forza necessaria a far valere tali diritti".

Nel maggio-giugno del 1918 il governo bolscevico prese due provvedimenti decisivi che aprirono il periodo della guerra civile denominato tradizionalmente «comunismo di guerra». Il 13 maggio 1918 un decreto attribuì poteri straordinari al commissariato del popolo per l'Approvvigionamento, incaricato di requisire i prodotti alimentari e di organizzare un vero e proprio «esercito dell'approvvigionamento». Nel luglio 1918, circa 12 mila persone facevano già parte di quelle «squadre di vettovagliamento» che nella fase culminante, nel 1920, avrebbero riunito fino a 80 mila uomini, una buona metà dei quali operai pietrogradesi disoccupati, attirati da un salario decente e dalla rimunerazione in natura, proporzionata alla quantità di cereali confiscati. Il secondo provvedimento fu il decreto dell'11 giugno 1918 che istituiva comitati di contadini poveri, operanti in stretta collaborazione con le squadre di vettovagliamento, e a loro volta incaricati di requisire le eccedenze agricole dei contadini benestanti in cambio di una parte del materiale espropriato. I comitati di contadini poveri avrebbero inoltre sostituito i soviet rurali, che il potere riteneva poco fidati, in quanto imbevuti dell'ideologia socialista rivoluzionaria. Si può ben immaginare che cosa siano stati questi primi rappresentanti del potere bolscevico nelle campagne, considerando i compiti che erano chiamati a svolgere - impadronirsi con la forza del frutto del lavoro altrui - e le motivazioni che si presumeva dovessero stimolarli: il potere, un sentimento di frustrazione e invidia nei confronti dei «ricchi», la promessa di parte del bottino. Come scrive acutamente Andrea Graziosi, «in queste persone, la devozione alla causa - o piuttosto al nuovo Stato - e capacità operative innegabili andavano di pari passo con una coscienza sociale e politica balbettante, un forte carrierismo e comportamenti "tradizionali" come la brutalità verso i subordinati, l'alcolismo, il nepotismo.... Abbiamo qui un buon esempio del modo in cui lo "spirito" della rivoluzione di popolo penetrava il nuovo regime».

Nonostante qualche iniziale successo, l'organizzazione dei comitati di contadini poveri non funzionò. L'idea stessa di conferire maggiore autorità al settore più povero del ceto rurale rifletteva la profonda ignoranza dei bolscevichi rispetto al mondo contadino. Secondo una visione schematica, frutto di un'applicazione semplicistica del marxismo, i bolscevichi la immaginavano divisa in classi antagoniste, mentre di fatto era innanzi tutto solidale rispetto al mondo esterno, agli estranei che venivano dalla città. Quando si trattò di consegnare le eccedenze, il riflesso egualitario e comunitario delle assemblee di villaggio entrò in gioco con piena efficacia. Invece di ricadere soltanto sui contadini benestanti, il peso delle requisizioni fu ripartito secondo le disponibilità di ciascuno: fu toccata anche la massa dei contadini di medie risorse e lo scontento divenne generale. Scoppiarono disordini in numerose regioni. Dal giugno del 1918 in poi, la brutalità delle squadre di vettovagliamento, spalleggiate dalla Ceka o dall'esercito, suscitò una vera e propria opposizione di bande armate. In luglio-agosto, nelle zone sotto il controllo del nuovo potere scoppiarono 110 insurrezioni contadine, definite «rivolte di kulak» (nella terminologia bolscevica si indicavano così le sommosse di interi villaggi, in cui tutte le categorie sociali erano confuse). In poche settimane il credito di cui i bolscevichi avevano goduto per un breve momento, quando nel 1917 non si erano opposti all'occupazione delle terre, si era ridotto a zero. Per i successivi tre anni la politica della requisizione avrebbe provocato migliaia di sollevazioni e sommosse, che degeneravano in vere e proprie guerre contadine, soffocate con la massima violenza.

Sul piano politico, l'irrigidimento della dittatura che si verificò nella primavera del 1918 provocò la definitiva chiusura di tutti i giornali non bolscevichi, lo scioglimento dei soviet non bolscevichi, l'arresto degli oppositori e la brutale repressione di numerosi movimenti di sciopero. Nel maggio-giugno del 1918 furono chiusi del tutto duecentocinque giornali dell'opposizione socialista. Furono sciolti con la forza i soviet di Kaluga, Tver', Jaroslavl', Rjazan', Kostroma, Kazan', Saratov, Penza, Tambov, Voronez, Orel, Vologda, che avevano una maggioranza menscevica o socialista rivoluzionaria.

Quasi ovunque si ripeteva lo stesso copione: pochi giorni dopo le elezioni vinte dai partiti di opposizione, con la costituzione del nuovo soviet, la frazione bolscevica chiamava in aiuto la forza armata, il più delle volte un distaccamento cekista, che proclamava la legge marziale e arrestava gli avversari. Dzerzinskij, che aveva inviato i suoi collaboratori migliori nelle città conquistate dall'opposizione, era un deciso fautore del colpo di mano. Ne sono eloquente testimonianza le direttive inviate il 31 maggio 1918 al plenipotenziario Ejduk, in missione a Tver':

"Gli operai, influenzati dai menscevichi, dagli S.R. e da altri mascalzoni controrivoluzionari, hanno scioperato e manifestato a favore di un governo che riunisca tutti i «socialisti». Devi tappezzare l'intera città di manifesti con un proclama per annunciare che la Ceka farà giustizia sommaria e immediata di ogni bandito, ladro, speculatore o controrivoluzionario che complotti contro il potere sovietico. Imponi un contributo straordinario ai borghesi della città. Fanne un censimento. Gli elenchi torneranno utili se dovessero azzardare una mossa. Mi chiedi con quali elementi costituire la nostra Ceka locale. Scegli persone risolute, consapevoli che per mettere a tacere uno non c'è niente di più efficace di una pallottola. L'esperienza mi ha insegnato che un piccolo numero di elementi decisi è in grado di rovesciare una situazione".

Lo scioglimento dei soviet in cui gli avversari avevano la maggioranza, l'espulsione dal Comitato esecutivo panrusso dei soviet, il 14 giugno 1918, di menscevichi e socialisti rivoluzionari suscitarono proteste, manifestazioni e tentativi di sciopero in numerose città operaie, dove peraltro la situazione alimentare continuava a peggiorare. A Kolpino, nei dintorni di Pietrogrado, il capo di un distaccamento della Ceka fece sparare su una marcia della fame, organizzata da operai che avevano una razione mensile ridotta a circa 800 grammi di farina! Si contarono 10 morti. Nello stesso giorno, nella fabbrica Berezov, vicino a Ekaterinburg, un distaccamento di Guardie rosse uccise 15 persone durante un'assemblea di protesta contro i «commissari bolscevichi», accusati di essersi accaparrati le case migliori della città e di aver incamerato i 150 rubli di tassa che la borghesia locale era stata costretta a versare. Il giorno dopo le autorità del settore decretarono la legge marziale nella cittadina operaia, e 14 persone furono immediatamente fucilate dalla Ceka del posto, che non ne riferì la notizia a Mosca.

Nella seconda quindicina di maggio e nel giugno del 1918 furono soffocate nel sangue numerose manifestazioni operaie: a Sormovo, Jaroslavl', Tula, così come nelle città industriali degli Urali, Niznij-Tagil, Beloreck, Zlatoust, Ekaterinburg. La parte sempre più attiva avuta dalle Ceka locali nella repressione è attestata dalla crescente diffusione fra gli operai di parole d'ordine e slogan contro la «nuova Ohrana» (era questo il nome della polizia politica zarista) al servizio della «commissariocrazia».

Dall'8 all'11 giugno 1918 Dzerzinskij presiedette la la Conferenza panrussa delle Ceka, dove si riunì un centinaio di delegati di quarantatré sezioni locali, già corrispondenti a circa 12 mila uomini, destinati a diventare 40 mila alla fine del 1918 e oltre 180 mila all'inizio del 1921. La conferenza, ponendosi al di sopra dei soviet, e secondo certi bolscevichi addirittura «al di sopra del Partito», dichiarò di «accollarsi, sull'intero territorio della repubblica, il peso della lotta contro la controrivoluzione, in quanto organo supremo del potere amministrativo della Russia sovietica». L'organigramma ideale approvato alla fine della conferenza era rivelatore del vasto campo di attività affidato alla polizia politica fin dal giugno del 1918, ossia "prima" della grande ondata di insurrezioni «controrivoluzionarie» dell'estate di quello stesso anno. Ciascuna Ceka provinciale, ricalcata sul modello della casa madre della Lubjanka, doveva al più presto organizzare i dipartimenti e gli uffici seguenti: 1. Dipartimento informazioni. Uffici: Armata rossa, monarchici, cadetti, S.R. di destra e menscevichi, anarchici e delinquenti comuni, borghesia e clero, sindacati e comitati operai, cittadini stranieri. Per ognuna di tali categorie, gli uffici preposti dovevano stilare un elenco di sospetti. 2. Dipartimento di lotta contro la controrivoluzione. Uffici: Armata rossa, monarchici, cadetti, S.R. di destra e menscevichi, anarchici, sindacalisti, minoranze nazionali, stranieri, alcolismo, pogrom e ordine pubblico, questioni di stampa. 3. Dipartimento di lotta contro la speculazione e gli abusi di potere. 4. Dipartimento operativo, comprendente le unità speciali della Ceka.

Due giorni dopo la chiusura della Conferenza panrussa delle Ceka, il governo decise di reintrodurre la pena di morte nel sistema giuridico: la rivoluzione del febbraio del 1917 l'aveva abolita, ma Kerenskij l'aveva ripristinata nel luglio dello stesso anno. Tuttavia era applicata soltanto nelle zone del fronte, sottoposte alla giurisdizione militare. Uno dei primi provvedimenti approvati dal Secondo Congresso dei soviet, il 26 ottobre (8 novembre) 1917, era stato ancora una volta la soppressione della pena capitale. La decisione aveva suscitato il furore di Lenin: «E' un errore, una inammissibile debolezza, un'illusione pacifista!». Lenin e Dzerzinskij non ebbero pace finché la pena di morte non rientrò nell'ordinamento legale, sebbene sapessero benissimo che poteva essere applicata, senza «pignolerie giuridiche», da organi extralegali come le Ceka. La prima sentenza capitale legalmente emessa da un tribunale rivoluzionario fu eseguita il 21 giugno 1918: l'ammiraglio Ciastnyj fu il primo «controrivoluzionario» fucilato «legalmente».

Il 20 giugno V. Volodarskij, uno dei dirigenti bolscevichi di Pietrogrado, fu ucciso da un militante socialista rivoluzionario. L'attentato cadeva in un periodo in cui nell'ex capitale regnava una grande tensione: durante le settimane precedenti, i rapporti fra bolscevichi e mondo operaio erano andati sempre più deteriorandosi. Nel maggio-giugno del 1918 la Ceka di Pietrogrado registrò settanta «incidenti» - scioperi, assemblee antibolsceviche, manifestazioni - riguardanti perlopiù i metallurgici delle roccheforti operaie, che erano stati i più ardenti partigiani dei bolscevichi nel 1917 e negli anni precedenti. Le autorità risposero agli scioperi con la serrata delle grandi fabbriche nazionalizzate, pratica che nei mesi seguenti sarebbe stata applicata su larga scala per spezzare la resistenza operaia. All'assassinio di Volodarskij seguì un'ondata di arresti senza precedenti negli ambienti operai di Pietrogrado; fu sciolta l'Assemblea dei plenipotenziari operai, organismo a maggioranza menscevica che coordinava l'opposizione operaia pietrogradese, vero e proprio contropotere rispetto al Soviet di Pietrogrado. In due giorni furono arrestati oltre 800 «sobillatori». Gli operai risposero agli arresti di massa proclamando uno sciopero generale per il 2 luglio 1918.

Lenin, che si trovava a Mosca, inviò a Zinov'ev, presidente del Comitato pietrogradese del Partito bolscevico, una lettera da cui emergono sia la concezione leninista del terrore sia uno stupefacente abbaglio politico. In effetti Lenin cadeva vittima di un formidabile controsenso politico, affermando che gli operai insorgevano contro l'assassinio di Volodarskij!

"Compagno Zinov'ev, solo oggi abbiamo appreso al C.C. che a Pietrogrado gli 'operai' volevano rispondere al l'assassinio di Volodarskij col terrore di massa, e che voi (non voi personalmente, ma elementi pietrogradesi del C.C. o del comitato di Pietrogrado) li avete trattenuti. Protesto decisamente! Noi ci compromettiamo: minacciamo persino nelle risoluzioni del Soviet dei deputati di passare al terrore di massa, e quando viene il momento 'ostacoliamo' un'iniziativa rivoluzionaria delle masse perfettamente giusta. Questo è im-pos-si-bi-le! I terroristi ci considereranno degli stracci. Il momento è più che di guerra. Bisogna stimolare le forme energiche e massicce del terrore contro i controrivoluzionari, e specialmente a Pietrogrado, il cui esempio decide. Saluti. Lenin".

NOTE.

1. Fino al primo febbraio 1918, in Russia restò in vigore il calendario giuliano, la cui datazione è posticipata di tredici giorni rispetto a quella del calendario gregoriano. Perciò, quando in Russia era il 25 ottobre 1917, in Occidente era il 7 novembre 1917.


Ultima modifica 05.12.2003