Il libro nero del comunismo



 


INTRODUZIONE: Parte prima.
UNO STATO CONTRO IL SUO POPOLO



Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth).
1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre
2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato»
3. Il Terrore rosso
4. La «sporca guerra»
5. Da Tambov alla grande carestia
6. Dalla tregua alla «grande svolta»
7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione
8. La grande carestia
9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione
10. Il Grande terrore (1936-1938)
11. L'impero dei campi
12. L'altra faccia della vittoria
13. Apogeo e crisi del gulag
14. L'ultimo complotto
15. L'uscita dallo stalinismo
In conclusione.

15. L'USCITA DALLO STALINISMO
La morte di Stalin, avvenuta quasi a metà dei settant'anni di vita dell'Unione Sovietica, segnò un momento decisivo, la fine di un'epoca, se non la fine di un sistema. Come scrive Franáois Furet, con la scomparsa della Guida suprema venne in luce «il paradosso di un sistema che sosteneva di essere iscritto nelle leggi dell'evoluzione sociale, ma in cui viceversa tutto dipendeva da un unico uomo, e anzi ne dipendeva così strettamente che alla sua morte il sistema aveva perso qualche cosa di essenziale». Una componente cruciale di questo «qualche cosa» era l'alto grado di repressione esercitata dallo Stato nei confronti della società sotto le forme più varie.

Il problema politico posto dalla successione si proponeva con particolare complessità ai principali collaboratori di Stalin: Malenkov, Molotov, Voroscilov, Mikojan, Kaganovic, Hruscòv, Bulganin, Berija. Essi dovevano contemporaneamente assicurare la continuità del sistema, spartirsi le responsabilità di governo, trovare un equilibrio fra la preminenza di uno solo, sia pure attenuata, e l'esercizio della collegialità, tenendo conto delle ambizioni di ognuno e dei rapporti di forze, e introdurre entro breve tempo un certo numero di novità, sulle quali esisteva un'ampia convergenza di opinioni.

La difficoltà di conciliare tali obiettivi spiega perché lo svolgimento delle vicende politiche nell'intervallo fra la morte di Stalin e l'eliminazione di Berija (arrestato il 26 giugno 1953) sia stato complesso e tortuoso. Oggi sono disponibili i resoconti stenografici delle assemblee plenarie del Comitato centrale che si tennero il 5 marzo 1953 (giorno della morte di Stalin) e dal 2 al 7 luglio 1953 (1) (dopo l'eliminazione di Berija): dai verbali appare chiaramente quali ragioni inducessero i dirigenti sovietici ad avviare quella sorta di «emersione dallo stalinismo» che Nikita Hruscòv avrebbe trasformato in «destalinizzazione», e i cui momenti culminanti furono il Ventesimo Congresso del P.C.U.S., nel febbraio del 1956, e il Ventiduesimo Congresso, nell'ottobre del 1962.

La prima ragione era l'istinto di sopravvivenza, l'autodifesa. Negli ultimi mesi della vita di Stalin quasi tutti i dirigenti avevano avuto la percezione di quanto fossero diventati a loro volta vulnerabili; nessuno era al sicuro: né Voroscilov, apostrofato come «agente dell'Intelligence Service», né Molotov e Mikojan, che il dittatore aveva cacciato dal presidium del Comitato centrale, né Berija, minacciato da torbidi intrighi, di cui lo stesso Stalin era l'ispiratore, all'interno dei servizi di Sicurezza. Anche ai livelli intermedi, le élite della burocrazia che si erano ricostituite dopo la guerra temevano e rifiutavano gli aspetti terroristici del regime: l'onnipotenza della polizia politica era l'ultimo ostacolo che impediva loro di approfittare di una carriera stabile. Prima di tutto occorreva smantellare quello che Martin Malia ha giustamente definito «il meccanismo realizzato dal dittatore defunto a proprio uso e consumo», in modo che nessuno potesse più servirsene per affermare la propria preminenza a spese dei colleghi - e rivali - politici. A coalizzare gli «eredi di Stalin» contro Berija, che appariva allora come il più potente di tutti i dirigenti poiché aveva a sua disposizione l'immenso apparato della Sicurezza e degli Interni, non furono tanto le eventuali divergenze di fondo circa le riforme da introdurre, quanto la paura di veder tornare al potere un nuovo dittatore. Tutti avevano imparato una lezione ben precisa: occorreva che gli apparati repressivi non potessero mai più «sfuggire al controllo del Partito» (fuori dal linguaggio cifrato: diventare l'arma di un solo individuo) e minacciare l'oligarchia politica.

La seconda e più sostanziale motivazione al cambiamento consisteva nel fatto che tutti i principali dirigenti, da Hruscòv a Malenkov, erano ben consapevoli della necessità di introdurre riforme economiche e sociali. La gestione dell'economia su basi esclusivamente repressive, fondata sul prelievo forzoso di quasi tutta la produzione agricola, sulla criminalizzazione dei rapporti sociali e sull'ipertrofia del gulag, aveva prodotto una grave crisi economica e una serie di blocchi psicologici nella società, che impedivano ogni progresso nella produttività del lavoro. Il modello economico attuato negli anni Trenta contro la volontà della stragrande maggioranza dei cittadini, e sfociato nei cicli di repressione sopra descritti, appariva sorpassato.

Infine, la terza motivazione a cambiare scaturiva dalla dinamica stessa delle lotte di successione, che alimentavano una spirale ascendente, un gioco al rialzo nella politica: colui che alla fine seppe spingersi più lontano di tutti i suoi colleghi sulla strada della destalinizzazione, moderata e parziale sul piano politico ma radicale sul piano della vita quotidiana della popolazione, fu Nikita Hruscòv, per tutta una serie di ragioni che non analizzeremo in questa sede: la personale idoneità ad accettare di fare i conti con il proprio passato di stalinista, un rimorso sincero, certe doti di abilità politica, un suo peculiare populismo, l'attaccamento a una certa forma di fede socialista nel «radioso avvenire», la volontà di tornare a quella che considerava la «legalità socialista» eccetera. Ci si può chiedere allora quali furono le fasi principali dello smantellamento del meccanismo repressivo, di quel movimento che in pochi anni contribuì a trasformare l'Unione Sovietica da sistema caratterizzato da un alto grado di repressione giudiziaria ed extragiudiziaria a regime autoritario e poliziesco, in cui per un'intera generazione ancora il ricordo del Terrore sarebbe stato uno dei garanti più efficaci dell'ordine post-staliniano. A meno di due settimane dalla morte di Stalin il gulag subì una riorganizzazione radicale, passando alle dipendenze del ministero della Giustizia; le sue infrastrutture economiche furono invece trasferite sotto la giurisdizione dei competenti ministeri civili. Ma ancor più spettacolare di queste novità in campo amministrativo, che rivelavano come l'onnipotente ministero degli Interni fosse stato nettamente ridimensionato, fu l'annuncio di un'ampia amnistia comparso sulla «Pravda» del 28 marzo 1953. Secondo i termini di un decreto promulgato il giorno precedente dal presidium del Soviet supremo dell'URSS e firmato dal suo presidente, il maresciallo Voroscilov, beneficiavano dell'amnistia:

1. tutti i condannati a pene inferiori ai cinque anni;
2. tutte le persone condannate per prevaricazione, reati economici e abusi di potere;
3. le donne incinte e le madri di bambini minori di dieci anni, i minorenni, gli uomini e le donne sopra i cinquant'anni.

Inoltre, il decreto di amnistia prevedeva che per tutti gli altri detenuti il residuo di pena da scontare alla data della promulgazione fosse dimezzato; erano esclusi dal provvedimento i condannati per crimini «controrivoluzionari», per furto su larga scala, per banditismo e per assassinio premeditato.

Entro poche settimane abbandonarono il gulag circa un milione 200 mila detenuti, ossia più o meno la metà della popolazione internata nei campi e nelle colonie penali. Nella maggior parte dei casi poteva trattarsi, per esempio, di piccoli delinquenti, condannati per furti di lieve entità, ma anche, molto spesso, di semplici cittadini caduti sotto i colpi di una delle innumerevoli leggi repressive che regolavano ai sensi del Codice penale quasi ogni sfera di attività, da quella sull'«abbandono del posto di lavoro» alle «infrazioni alla legge sui passaporti interni». Questa amnistia parziale, dalla quale erano appunto esclusi i prigionieri politici e i «trasferiti speciali», nella stessa ambiguità che la caratterizzava rispecchiava le evoluzioni ancora incerte e i percorsi tortuosi della primavera del 1953, periodo di accanite lotte per il potere, nel corso del quale Lavrentij Berija, primo vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro degli Interni, sembrò trasfigurarsi nel personaggio del «grande riformatore».

Quali considerazioni avevano ispirato quest'ampia amnistia? Secondo Amy Knight, biografa di Berija, l'amnistia del 27 marzo 1953, decisa per iniziativa dello stesso ministro degli Interni, rientrava in una serie di provvedimenti politici che testimoniavano la «svolta liberale» di Berija. Alla morte di Stalin, quest'ultimo si trovò coinvolto nelle lotte per il potere, e nell'ambito delle sue strategie politiche fu preso in una spirale di gioco al rialzo. Per giustificare l'amnistia, il 24 marzo Berija aveva inviato al presidium del Comitato centrale un lungo memorandum in cui spiegava come, sui 2 milioni 256402 detenuti compresi nella giurisdizione del gulag, i «criminali di Stato di particolare pericolosità» fossero soltanto 221435, perlopiù rinchiusi nei «campi speciali». Berija ammetteva (confessione stupefacente e assai significativa!) che nella stragrande maggioranza tali detenuti non rappresentavano una seria minaccia per lo Stato: un'amnistia su larga scala era auspicabile per decongestionare in fretta un sistema penitenziario troppo gravoso e poco redditizio sul piano economico.

Il problema della crescente complessità gestionale dell'immenso gulag veniva sollevato a intervalli regolari fin dai primi anni Cinquanta. La crisi del gulag, che quasi tutti i dirigenti ammettevano già da molto tempo prima che Stalin morisse, getta una luce diversa sull'amnistia del 27 marzo 1953. Furono ragioni economiche, e non soltanto politiche, quelle che indussero i candidati alla successione staliniana, consapevoli delle enormi difficoltà di gestione di un gulag sovrappopolato e sempre meno «conveniente», a proclamare un'amnistia ampia, e nondimeno parziale. Anche in questo settore, come in molti altri, finché Stalin era in vita non era possibile prendere provvedimenti radicali; secondo la felice formula coniata dallo storico Moshe Lewin, negli ultimi anni di esistenza del dittatore tutto era «mummificato».

Ciò nonostante, anche dopo che Stalin morì «non era ancora possibile fare tutto»: perciò furono esclusi dall'amnistia proprio coloro che erano stati le prime vittime dell'arbitrio vigente nel sistema, i «politici» condannati per attività controrivoluzionaria.

A causa dell'esclusione dei politici dall'amnistia del 27 marzo 1953, fra i detenuti nei campi a regime speciale del gulag, del Rechlag e dello Steplag scoppiarono alcune rivolte e sommosse. Il 4 aprile la «Pravda» annunciò che gli «assassini in camice bianco» erano stati vittime di una provocazione, e che le loro confessioni erano state estorte con «metodi istruttori illegali» (vale a dire sotto tortura). L'evento acquistò un rilievo ancora maggiore pochi giorni dopo, quando il Comitato centrale approvò una risoluzione intitolata "Sulla violazione della legalità a opera della Sicurezza di Stato": da tale documento appariva in termini espliciti come il caso dei medici assassini non fosse stato un incidente isolato, e come la Sicurezza di Stato si fosse arrogata poteri esorbitanti, compiendo un numero sempre crescente di atti illegali. Il Partito respingeva tali metodi e condannava il potere eccessivo della polizia politica. La speranza generata da queste dichiarazioni suscitò presto numerose reazioni: gli uffici della pubblica accusa furono inondati da centinaia di migliaia di domande di riabilitazione. Dal canto loro i detenuti, soprattutto quelli dei campi speciali, esasperati dal carattere limitato e selettivo dell'amnistia del 27 marzo, coscienti del fatto che i loro guardiani erano smarriti e il sistema repressivo in crisi, si rifiutarono in massa di lavorare e di obbedire alle ingiunzioni dei comandanti dei campi. Il 14 maggio 1953 più di 14 mila prigionieri, assegnati a vari settori del complesso penitenziario di Noril'sk, organizzarono uno sciopero e costituirono dei comitati composti da membri eletti dai diversi gruppi nazionali, in cui gli ucraini e i baltici avevano un ruolo cruciale. Le rivendicazioni principali dei detenuti erano: riduzione a nove ore della giornata di lavoro, soppressione del numero di matricola sugli abiti, abrogazione delle limitazioni alla corrispondenza con le famiglie, espulsione di tutti gli informatori, estensione ai politici dei benefici dell'amnistia. Il 10 luglio 1953, quando fu annunciato ufficialmente che Berija era stato arrestato con l'accusa di essere stato una spia al soldo degli inglesi e un «nemico accanito del popolo», i detenuti ebbero la conferma che a Mosca erano in corso importanti cambiamenti, e questo ne accentuò l'intransigenza nel rivendicare le proprie richieste. Il movimento di astensione dal lavoro si allargò. Il 14 luglio, oltre 12 mila detenuti del complesso penitenziario di Vorkuta entrarono a loro volta in sciopero. A sottolineare l'avvento di una nuova epoca, sia a Noril'sk sia a Vorkuta furono intrapresi dei negoziati e fu più volte ritardato l'assalto armato contro i ribelli.

Dall'estate del 1953 fino alla convocazione del Ventesimo Congresso, nel febbraio del 1956, nei campi a regime speciale continuò in forma endemica lo stato di agitazione. La rivolta più lunga e di maggiori dimensioni scoppiò nel maggio del 1954 nella terza sezione del complesso penitenziario dello Steplag, a Kengir, poco lontano da Karaganda (Kazakistan): si prolungò per quaranta giorni e fu soffocata soltanto quando le truppe speciali del ministero degli Interni ebbero invaso il campo con i carri armati. Circa 400 detenuti furono processati e colpiti da nuove condanne, e sei membri della commissione che aveva guidato la resistenza ed erano sopravvissuti all'assalto furono giustiziati.

Tuttavia alcune rivendicazioni avanzate nel 1953-1954 dai detenuti in rivolta furono soddisfatte, e questo è un chiaro sintomo del mutamento di clima politico intervenuto alla morte di Stalin. Per esempio, l'orario di lavoro quotidiano imposto ai forzati fu ridotto a nove ore, e nella vita quotidiana furono introdotti significativi miglioramenti.

Nel 1954-1955 il governo adottò una serie di provvedimenti per limitare l'onnipotenza della Sicurezza di Stato, che dopo l'eliminazione di Berija aveva subito un rimaneggiamento radicale. Furono soppresse le trojka, tribunali speciali che giudicavano i casi di pertinenza della polizia politica. Quest'ultima fu riorganizzata come organismo autonomo, con il nome di "Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti", ossia Comitato della sicurezza di Stato, abbreviato con la sigla K.G.B.: la nuova struttura fu epurata del 20 per cento degli effettivi presenti prima del marzo del 1953 e posta sotto il comando del generale Serov, che aveva avuto il compito di sovrintendere a tutte le deportazioni di popoli in tempo di guerra. Serov era considerato vicino a Nikita Hruscòv e incarnava tutte le ambiguità di un periodo di transizione in cui molti di coloro che portavano la responsabilità del passato avevano conservato una posizione chiave. Il governo emanò poi altri decreti di amnistia parziale: il più importante fu quello del settembre del 1955, che permise di liberare quanti erano stati condannati nel 1945 per «collaborazione con l'occupante», nonché alcuni prigionieri di guerra tedeschi ancora trattenuti in Unione Sovietica. Infine, fu adottato un certo numero di provvedimenti a favore dei «coloni speciali»: in particolare, questi ultimi furono autorizzati a spostarsi su un'area più vasta e a presentarsi con minor frequenza ai comandi da cui dipendevano. In seguito a trattative condotte al massimo livello tra i governi tedesco e sovietico, dal settembre del 1955 in poi i tedeschi deportati, che costituivano il 40 per cento sul totale dei coloni speciali (poco più di un milione su circa 2 milioni 750 mila), furono i primi a essere liberati dalle restrizioni imposte a questa categoria di proscritti. Tuttavia, negli articoli di legge era precisato che l'abrogazione delle restrizioni giuridiche, professionali, di statuto civile e di residenza non implicava «né la restituzione dei beni confiscati, né il diritto di tornare nei luoghi dai quali i coloni speciali erano stati trasferiti».

Tali restrizioni rappresentano molto bene la globalità di quella che è stata definita «destalinizzazione», un processo parziale e graduale, guidato peraltro da uno staliniano, Nikita Hruscòv. Come tutti i dirigenti della sua generazione, Hruscòv aveva avuto una diretta responsabilità nell'attuazione di provvedimenti repressivi: dekulakizzazione, epurazioni, deportazioni, esecuzioni capitali. Dunque, destalinizzare poteva significare soltanto denunciare taluni eccessi del «periodo del culto della personalità». Il Rapporto segreto che nel corso della serata del 24 febbraio 1956 lo stesso Hruscòv lesse ai delegati sovietici riuniti nel Ventesimo Congresso era pur sempre molto selettivo nel condannare lo stalinismo, evitando di mettere in discussione in alcun modo le grandi scelte compiute dal Partito dal 1917 in poi. La selettività era evidente sia nella cronologia della «deviazione» stalinista (collocandone l'inizio nel 1934 si escludevano dal capitolo dei crimini la collettivizzazione e la carestia del 1932-1933) sia nella scelta delle vittime citate: si trattava sempre di comunisti, e in generale di stretta obbedienza staliniana, mai di semplici cittadini. Nel momento in cui circoscriveva l'ambito delle repressioni ai comunisti, proclamati uniche vittime della dittatura personale di Stalin, e lo individuava in specifici episodi di una storia cominciata soltanto dopo l'assassinio di Sergej Kirov, il Rapporto segreto eludeva l'interrogativo centrale: quale fosse la responsabilità del Partito nel suo complesso, e nei confronti della società, dal 1917 in poi. Al Rapporto segreto seguì un certo numero di provvedimenti concreti che completarono le disposizioni limitate adottate fino a quel momento. Nel marzo-aprile del 1956 tutti i coloni speciali appartenenti ai popoli «puniti» per la loro pretesa collaborazione con la Germania nazista, e deportati nel 1943-1945, furono «sottratti alla sorveglianza amministrativa degli organi del ministero dell'Interno», sebbene continuassero a non poter esigere di fare ritorno nei luoghi di origine, né che i beni confiscati fossero loro restituiti. Si trattava di mezze misure che suscitarono l'indignazione dei deportati: in molti casi questi ultimi si rifiutarono di firmare la dichiarazione richiesta dalle autorità amministrative, con cui dovevano impegnarsi a non esigere la restituzione dei beni e a non cercare di tornare nei luoghi di origine. Di fronte a posizioni simili, che attestavano il significativo mutamento avvenuto nel clima politico e nella mentalità generale, il governo sovietico fece alcune ulteriori concessioni. Il 9 gennaio 1957 furono ricostituite le antiche repubbliche e le regioni autonome di cui erano originari i popoli deportati, e che subito dopo la guerra erano state cancellate; l'unica a non essere restaurata fu la Repubblica autonoma dei tatari di Crimea.

Nel corso del trentennio successivo i tatari di Crimea si batterono per ottenere il riconoscimento del loro diritto a rientrare nel territorio originario; dal 1957 in poi, decine di migliaia di caraciai, calmucchi, balcari, ceceni e ingusci intrapresero la via del ritorno. Le autorità non li facilitarono in nessun modo. Numerosi incidenti si verificarono fra i deportati intenzionati a rientrare in possesso di quelle che un tempo erano le loro abitazioni e i coloni russi, i quali nel 1945 erano stati chiamati dalle regioni limitrofe a occuparle e ormai vi si erano installati. Gli ex deportati tornati a casa propria, non essendo in possesso della "propiska", la registrazione presso la sede locale della polizia, unico documento che attribuisse ai cittadini il diritto legale di risiedere in una determinata località, furono costretti ancora una volta a sistemarsi in baraccamenti improvvisati, nelle bidonville, nelle tendopoli, sempre sotto la costante minaccia di poter essere in qualsiasi momento arrestati per aver contravvenuto al regime dei passaporti (reato punibile con due anni di carcere). Nel luglio del 1958 nella capitale cecena, Groznyj, si verificarono scontri sanguinosi fra russi e ceceni: fu ristabilita una precaria parvenza di tranquillità soltanto quando le autorità ebbero sbloccato i fondi destinati alla costruzione di alloggi per gli ex deportati.

In via ufficiale la categoria dei coloni speciali cessò di esistere soltanto nel gennaio del 1960; gli ultimi deportati sollevati dalla condizione di paria furono i nazionalisti ucraini e quelli originari delle repubbliche baltiche. Per stanchezza, di fronte alla prospettiva di doversi scontrare ancora una volta con gli ostacoli amministrativi che le autorità continuavano a opporre al loro rientro, queste ultime categorie di deportati tornarono nelle regioni di origine soltanto in una percentuale inferiore alla metà; gli altri superstiti avevano ormai «messo radici» nei luoghi della deportazione.

La grande maggioranza di quanti erano stati condannati per crimini controrivoluzionari fu liberata soltanto dopo il Ventesimo Congresso: nel 1954-1955 avevano goduto dell'amnistia meno di 90 mila detenuti per questi reati, mentre nel 1956-1957 lasciarono il gulag circa 310 mila controrivoluzionari. Alla data del primo gennaio 1959 rimanevano nei campi 11 mila detenuti per reati politici. Per accelerare le procedure furono inviate nei campi oltre duecento commissioni speciali incaricate della revisione, e decretate numerose amnistie. Tuttavia, la liberazione non equivaleva ancora alla riabilitazione: in due anni, nel 1956-1957, le persone riabilitate in piena regola furono meno di 60 mila; la stragrande maggioranza dovette aspettare anni, e talvolta decenni, prima di ottenere il prezioso certificato. Nonostante questo, il 1956 rimase comunque nella memoria collettiva come l'anno del «ritorno», descritto mirabilmente da Vasilij Grossman in "Tutto scorre"... Questo grande ritorno, che si svolgeva nel più rigoroso silenzio delle autorità ufficiali, serviva anche a ricordare che milioni di persone non sarebbero mai più tornate, e non poteva non generare nell'animo della popolazione un profondo smarrimento, la sensazione diffusa di un trauma sociale e morale, una tragica contrapposizione in una società in cui, come scriveva Lidija Ciukovskaja, «ormai due Russie si guardano negli occhi: quella che ha imprigionato e quella che è stata imprigionata». In una simile situazione la prima preoccupazione delle autorità fu di non cedere a quanti, singolarmente o in gruppo, chiedevano di avviare procedimenti giudiziari nei confronti dei funzionari che nel periodo del culto della personalità avevano violato la legalità socialista o usato metodi istruttori contrari alla legge. La sola via per il ricorso erano le commissioni di controllo del Partito. Sull'argomento delle riabilitazioni gli uffici della pubblica accusa ricevettero dalle autorità politiche un certo numero di circolari in cui erano stabilite le priorità: membri del Partito e militari. Non vi furono epurazioni. Con la liberazione dei politici, il gulag del dopo Stalin ebbe in un primo tempo un drastico calo di presenze, finché, nel periodo tra gli ultimi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, si stabilizzò su un totale di effettivi intorno alle 900 mila unità: uno zoccolo duro di 300 mila colpevoli di reati comuni, compresi i recidivi, che dovevano scontare lunghe condanne, oltre a 600 mila autori di piccoli atti di delinquenza. Spesso questi ultimi, a causa delle leggi repressive ancora in vigore, erano condannati a pene sproporzionate per eccesso rispetto al reato commesso. A poco a poco il gulag decadde dal ruolo di pioniere della colonizzazione e dello sfruttamento delle ricchezze naturali racchiuse nei territori sovietici dell'estremo nord e dell'estremo oriente. Gli enormi complessi penitenziari dell'epoca staliniana furono suddivisi in piccole unità; cambiò anche la geografia del gulag, perché la maggior parte dei campi furono trasferiti nelle regioni europee dell'URSS. A poco a poco in Unione Sovietica la reclusione riprese la funzione regolatrice che tutte le società le attribuiscono, sia pure conservando ancora, dopo Stalin, peculiarità specifiche di un sistema che non corrispondeva a quello di uno Stato di diritto. Infatti, in seguito a sporadiche campagne, che di volta in volta mettevano al bando l'uno o l'altro comportamento sociale all'improvviso giudicato intollerabile (alcolismo, teppismo, «parassitismo»), ai veri e propri criminali si aggiungeva un certo numero di cittadini comuni, oltre a una minoranza di soggetti (alcune centinaia ogni anno) condannati perlopiù ai sensi degli articoli 70 e 190 del nuovo Codice penale, promulgato nel 1960.

A completare i vari provvedimenti di liberazione e le amnistie intervennero alcune radicali modifiche del diritto penale. Fra le prime misure di riforma della legislazione staliniana figura il Decreto del 25 aprile 1956, con il quale si aboliva la legge antioperaia del 1940 che vietava ai lavoratori di abbandonare il posto di lavoro. Questo primo passo verso la depenalizzazione dei rapporti di lavoro fu seguito da numerose altre disposizioni, e i vari provvedimenti parziali trovarono infine una sistematizzazione il 25 dicembre 1958, quando furono approvati i nuovi "Principi fondamentali del diritto penale". Con queste norme erano cancellate certe disposizioni fondamentali della legislazione penale configurata nei codici precedenti, in particolare i concetti di «nemico del popolo» e di «reato controrivoluzionario». D'altra parte, l'età a partire dalla quale il soggetto era ritenuto penalmente responsabile fu elevata da quattordici anni a sedici, mentre violenza e torture non avrebbero più potuto essere utilizzate per ottenere una confessione. Inoltre si prescriveva che l'imputato fosse presente all'udienza processuale e difeso da un avvocato informato sulle prove raccolte in istruttoria; salvo casi eccezionali, i dibattimenti giudiziari dovevano essere pubblici. Tuttavia il Codice penale del 1960 aveva ancora un certo numero di articoli che permettevano di punire ogni forma di devianza politica o ideologica: in base all'articolo 70, ogni individuo «che svolge una propaganda tendente a indebolire il potere sovietico ... per mezzo di asserzioni calunniose denigranti lo Stato e la società» era passibile di una condanna da sei mesi a sette anni di campo di lavoro, seguita dal confino, o esilio interno, per un periodo da due a cinque anni. L'articolo 190 condannava ogni «mancata denuncia» del reato di antisovietismo con una pena da uno a tre anni di campo di lavoro o a un periodo equivalente di lavoro di interesse collettivo. Negli anni Sessanta e Settanta questi due articoli trovarono ampia applicazione contro le forme di «dissenso» politico o ideologico: il 90 per cento delle persone accusate di «antisovietismo» era condannato appunto in base a essi, per un totale di alcune centinaia ogni anno. Durante questi anni di «disgelo» politico e di generale miglioramento del tenore di vita, nei quali però restava assai vivo il ricordo della repressione, le forme attive di dissenso o contestazione furono estremamente limitate: per la prima metà degli anni Sessanta, i rapporti del K.G.B. riconobbero 1300 «oppositori» nel 1961, 2500 nel 1962, 4500 nel 1964, 1300 nel 1965. Negli anni Sessanta e Settanta furono tre le categorie di cittadini sottoposte dai servizi del K.G.B. a una sorveglianza «ravvicinata»: le minoranze religiose (cattolici, battisti, pentecostali, avventisti), le minoranze nazionali più colpite dalla repressione durante l'epoca staliniana (baltici, tatari di Crimea, tedeschi, ucraini delle zone occidentali, dove era stata particolarmente forte la resistenza alla sovietizzazione), l'intellighenzia creativa che costituiva il movimento dei «dissidenti», apparso nei primi anni Sessanta.

Dopo l'ultima campagna anticlericale del 1957, che si era limitata perlopiù a chiudere un certo numero di chiese riaperte dopo la guerra, il contrasto fra lo Stato e la Chiesa ortodossa divenne coabitazione. L'attenzione dei servizi speciali del K.G.B. era ormai rivolta più specificamente alle minoranze religiose, sospettate non tanto a causa delle convinzioni religiose professate, quanto per il sostegno che si presumeva ricevessero dall'estero. Alcuni dati sparsi attestano come tale fenomeno fosse marginale: nel 1973-1975 furono arrestati 116 battisti, mentre nel 1984 erano 200 i membri di questa Chiesa detenuti in carcere o in un campo di lavoro per scontare condanne che in media arrivavano a un anno.

Nell'Ucraina occidentale, rimasta a lungo una delle regioni più recalcitranti alla sovietizzazione, fra il 1961 e il 1973 fu smantellata una decina di «gruppuscoli nazionalisti», eredi dell'OUN, operanti a Ternopol', Zaporoz'e, Ivano-Frankovsk, Leopoli. Le pene inflitte ai membri di questi gruppuscoli variavano in genere da cinque a dieci anni di campo. Negli anni Sessanta e Settanta, in Lituania, regione anch'essa assoggettata con metodi brutali negli anni Quaranta, le fonti locali citano un numero di arresti molto ridotto. Nel 1981 l'assassinio in circostanze sospette di tre preti cattolici, di cui erano probabilmente responsabili i servizi del K.G.B., fu sentito come un'intollerabile provocazione.

Il problema dei tatari di Crimea, che nel 1944 erano stati deportati e la cui repubblica autonoma non era stata ricostituita, continuò a essere una gravosa eredità dell'epoca staliniana fino alla scomparsa dell'URSS. Dalla fine degli anni Cinquanta i tatari, che si erano insediati in maggioranza nell'Asia centrale, avviarono una campagna di petizioni per ottenere di essere collettivamente riabilitati e autorizzati a ritornare a casa propria: segno che i tempi erano davvero cambiati. Nel 1966 una delegazione di tatari depositò presso il Ventitreesimo Congresso del Partito una petizione con 130 mila firme; nel settembre del 1967 il presidium del Soviet supremo approvò un decreto che annullava l'accusa di «tradimento collettivo». Tre mesi dopo, un secondo decreto autorizzò i tatari a insediarsi in una località di loro scelta, a condizione che rispettassero la legislazione sui passaporti, cioè che fossero in possesso di un contratto di lavoro perfettamente valido e regolare. Tra il 1967 e il 1978 le persone che riuscirono a mettersi in regola rispetto alla legge sui passaporti furono meno di 15 mila, ossia il 2 per cento della popolazione tatara. Il movimento dei tatari di Crimea fu favorito dal sostegno del generale Grigor'enko, che nel maggio del 1969 fu arrestato a Taskent e internato in un ospedale psichiatrico. Negli anni Settanta tale forma di detenzione fu applicata ad alcune decine di persone ogni anno.

Gli storici fanno coincidere l'inizio del dissenso con il primo processo politico pubblico celebrato nell'epoca del post-stalinismo: quello del febbraio del 1966, in cui gli scrittori Andrej Sinjavskij e Jurij Daniel' furono condannati rispettivamente a sette e cinque anni di campo. Il 5 dicembre 1965, poco dopo il loro arresto, una cinquantina di persone si raccolse nella piazza Pushkin a Mosca per manifestare a favore dei due accusati. I dissidenti (qualche centinaio di intellettuali a metà degli anni Sessanta, fra mille e duemila persone un decennio più tardi, nel momento culminante del movimento) inaugurarono una modalità di contestazione radicalmente diversa. Anziché negare la legittimità del regime, esigevano il rispetto rigoroso delle leggi sovietiche, della Costituzione e degli accordi internazionali sottoscritti dall'URSS. L'azione dei dissidenti si conformava a questo nuovo principio: rifiuto della clandestinità, trasparenza del movimento, vasta pubblicità alle proprie iniziative, assicurata ricorrendo il più spesso possibile alle conferenze stampa, alle quali erano invitati anche i corrispondenti della stampa estera. Nell'impari confronto che opponeva allo Stato sovietico alcune centinaia di dissidenti divenne decisivo il peso dell'opinione pubblica internazionale, soprattutto dopo la pubblicazione in Occidente di "Arcipelago Gulag" di Aleksandr Solzenicyn, avvenuta alla fine del 1973 e che costò all'autore l'espulsione dall'URSS. In pochi anni, grazie all'opera di una ridottissima minoranza, la questione dei diritti dell'uomo in Unione Sovietica acquistò rilevanza internazionale e costituì un argomento cruciale nella Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, riunita per la prima volta a Helsinki nel 1973. Il documento finale della Conferenza, sottoscritta anche dall'URSS, rafforzò la posizione dei dissidenti i quali, nelle poche città in cui avevano un certo seguito (Mosca, Leningrado, Kiev, Vilnius eccetera), costituirono i «Comitati di vigilanza sugli accordi di Helsinki», incaricati di diffondere tutte le notizie di avvenute violazioni dei diritti umani. Quest'opera di informazione era cominciata fin dal 1968, quando la situazione era assai più difficile, con un bollettino d'informazioni redatto clandestinamente, la «Cronaca degli avvenimenti correnti», che usciva ogni due o tre mesi per segnalare gli attentati alle libertà fondamentali compiuti nelle più diverse forme. Nel momento in cui la questione dei diritti umani in URSS saliva alla ribalta internazionale si creava un contesto nuovo, che in parte inceppava i meccanismi polizieschi. Ormai gli oppositori erano persone conosciute, quindi il loro arresto non passava più inosservato, mentre le notizie sulla loro sorte si diffondevano rapidamente all'estero. Si assisteva a un fenomeno nuovo e significativo: i cicli della repressione poliziesca seguivano ormai gli alti e bassi attraversati dalla politica di «distensione». Vi fu un numero di arresti più alto nei periodi dal 1968 al 1972 e dal 1979 al 1982 rispetto al 1973-1976. Allo stato attuale della documentazione è impossibile calcolare con precisione quanti siano stati gli arrestati per motivi politici fra il 1960 e il 1985: le fonti del dissenso parlano di alcune centinaia di arresti negli anni più duri. Nel 1970 la «Cronaca degli avvenimenti correnti» citava 106 condanne, 20 delle quali riguardavano la «reclusione preventiva» in un ospedale psichiatrico. Per il 1971 le cifre fornite dalla Cronaca erano rispettivamente di 85 e 24. Nel 1979-1981, anni di dura contrapposizione sul piano internazionale, furono arrestate all'incirca cinquecento persone.

In un paese in cui il potere era sempre rimasto estraneo alla libera espressione di opinioni non conformiste e alle dichiarazioni di dissenso circa la natura stessa del potere, il fenomeno dei dissidenti, espressione di opposizione radicale, di una concezione politica diversa, che difendeva i diritti dell'individuo contrapposti a quelli della collettività, non poteva avere presa diretta sul corpo sociale. Il mutamento vero si produceva altrove: nelle molteplici sfere di autonomia sociale e culturale che si erano sviluppate a partire dagli anni Sessanta e Settanta, e più ancora, a metà degli anni Ottanta, quando una parte della dirigenza politica si rese conto che era necessario un mutamento radicale quanto quello avvenuto nel 1953.

IN CONCLUSIONE
Con questa sintesi non ho preteso di rivelare cose nuove sull'esercizio della violenza di Stato nell'URSS e sulle forme di repressione applicate dal regime sovietico nel periodo corrispondente alla prima metà della sua esistenza. Gli storici hanno già da tempo studiato queste peculiarità, senza attendere l'apertura degli archivi per ricostruire le sequenze principali degli eventi e la portata del terrore. D'altra parte l'accesso alle fonti permette di tracciare un primo bilancio dal punto di vista della cronologia, dell'aspetto quantitativo, delle forme in cui il fenomeno si è manifestato. Questo schema iniziale costituisce la prima tappa nel tentativo di stilare un inventario delle questioni relative alle pratiche di violenza, al loro verificarsi e al loro significato nei diversi contesti.

Tale approccio si inserisce nell'ambito di una vasta operazione di ricerca in atto da una decina d'anni sia in Occidente sia in Russia. Da quando sono stati aperti, almeno parzialmente, gli archivi, gli storici hanno cercato prima di tutto di confrontare la storiografia costituitasi nella «anormalità» con le fonti divenute finalmente disponibili. Così, dopo alcuni anni, un certo numero di studiosi, soprattutto russi, hanno reso pubblici materiali oggi fondamentali, che sono alla base di tutti gli studi recenti e attualmente in corso. Sono numerosi gli argomenti che hanno ricevuto particolare attenzione. Innanzi tutto l'universo concentrazionario, lo scontro fra il potere e il mondo contadino, i meccanismi attraverso i quali il vertice arrivava a prendere le sue decisioni. Storici come V. N. Zemskov o N. Bugaj, per esempio, sono arrivati a una prima conclusione circa l'entità numerica delle deportazioni compiute nel complesso dell'epoca staliniana. V. P. Danilov in Russia e A. Graziosi in Italia hanno messo in risalto sia la continuità sia la centralità delle contrapposizioni fra il nuovo regime e il ceto contadino. Attingendo agli archivi del Comitato centrale, O. Hlevnjuk ha potuto chiarire alcune questioni riguardo al funzionamento del «primo cerchio del Cremlino».

Partendo da questi studi ho tentato di ricostruire lo svolgimento di questi cicli di violenza, che dal 1917 in poi sono al centro della storia sociale dell'URSS, in gran parte ancora da scrivere. Mentre ho ripreso una trama in larga misura esplorata dai «pionieri», che hanno ricreato "ex nihilo" le tragiche inquadrature di questa storia, ho fatto una cernita delle fonti che a mio parere meglio esemplificavano le varie forme di violenza e di repressione, le pratiche e i gruppi sottoposti a persecuzione, le discontinuità e le contraddizioni: l'estrema violenza delle parole di Lenin verso gli oppositori menscevichi, che sarebbero stati da «fucilare tutti», ma che nei fatti sono stati il più delle volte incarcerati; la ferocia delle squadre di requisizione, che alla fine del 1922 continuavano a terrorizzare le campagne, mentre il governo centrale aveva già decretato da oltre un anno l'instaurazione della NEP; la contraddittoria alternanza di fasi per cui negli anni Trenta si avevano prima spettacolari arresti in massa e poi scarcerazioni inserite in una campagna di «sfollamento delle prigioni». L'intenzione sottostante la molteplicità dei casi considerati era quella di presentare un inventario delle forme di violenza e di repressione in grado di allargare il campo degli interrogativi riguardanti i meccanismi, l'estensione e il senso del terrore di massa.

Il fatto che tali pratiche siano rimaste in uso fino alla scomparsa di Stalin e abbiano avuto un peso determinante nella storia sociale dell'URSS giustifica, a mio parere, lo spostamento in secondo piano della storia politica, almeno in una prima fase. A questo sforzo di ricostruzione si aggiunge un tentativo di sintesi, la volontà di fare il punto sulle conoscenze già acquisite da tempo, su quelle di epoca recente e su quei documenti che suscitano nuovi interrogativi: si tratta perlopiù di rapporti sul campo (corrispondenze di funzionari locali relative alla carestia, rapporti della Ceka locale sugli scioperi operai a Tula, resoconti dell'amministrazione concentrazionaria sulle condizioni dei detenuti) che aprono squarci sulle concrete realtà e sulle situazioni limite esistenti in questo universo di violenza estrema.

Per cogliere le svariate problematiche contenute in questo studio occorre in primo luogo ricordare i diversi cicli di violenza e di repressione.

Il primo, dalla fine del 1917 alla fine del 1922, si apre con la conquista del potere, che secondo Lenin deve necessariamente passare attraverso una guerra civile. Dopo una brevissima fase di strumentalizzazione delle violenze spontanee espresse dalla società, che avevano operato come forze dissolutrici del «vecchio ordine», dalla primavera del 1918 si assiste a un'offensiva deliberata contro il ceto contadino, destinata per molti decenni a servire da modello per le pratiche del terrore (al di là degli scontri militari fra Rossi e Bianchi) e a condizionare l'impopolarità assunta dal potere politico. Ciò che colpisce, nonostante i rischi connessi con la precarietà del potere, è il rifiuto di ogni genere di negoziato, la fuga in avanti di fronte agli ostacoli, ben esemplificata dalle azioni repressive intraprese contro «l'alleato naturale» dei bolscevichi, il ceto operaio, tanto che sotto questo riguardo la rivolta di Kronstadt è soltanto un punto di arrivo. Questo primo ciclo non termina né con la sconfitta dei Bianchi, né con l'introduzione della NEP, ma prosegue nel processo dinamico alimentato da una base educata alla violenza, e si esaurisce soltanto con la carestia del 1922, in cui sono annientate le ultime resistenze dei contadini.

Che significato si può dare al breve intervallo fra due cicli di violenze, gli anni 1923-1927? Numerosi elementi fanno pensare alla progressiva emersione da una cultura di guerra civile. Si assiste a un forte calo negli effettivi della polizia politica, a una tregua con i contadini, al primo delinearsi di una regolamentazione giuridica. Tuttavia, non solo la polizia politica non scompare, ma conserva le sue funzioni di controllo, di sorveglianza e di schedatura. Già il semplice fatto che questo periodo di tregua sia tanto breve basta a far capire come in fondo esso sia significativo solo fino a un certo punto.

Mentre il primo ciclo di repressione appare iscritto in un contesto di scontri diretti e generalizzati, il secondo si apre con un'offensiva scatenata contro i contadini dal gruppo degli staliniani, nell'ambito della lotta politica per la conquista del potere assoluto. Da entrambe le parti la ripresa della violenza estrema è sentita come un nuovo inizio: il potere politico ricorre alle pratiche già sperimentate alcuni anni prima. I meccanismi connessi all'imbarbarimento dei rapporti sociali avvenuto durante il primo ciclo avviano una nuova dinamica del terrore, ma anche di regressione, che perdura nei successivi venticinque anni. La seconda guerra dichiarata al ceto contadino è un fattore decisivo nel processo tendente a istituzionalizzare il terrore come strumento di governo. E lo è in molte forme: si basa almeno in parte sulla strumentalizzazione delle tensioni sociali, risvegliando l'antico fondo di violenza «arcaica» presente nel mondo rurale, inaugura il sistema delle deportazioni di massa e costituisce il terreno di coltura in cui si formano i quadri politici del regime. Infine, il sistema di «sfruttamento feudal- militare» imposto ai contadini, per usare la formula di Buharin, sfociava in una nuova forma di servitù, perché sottoponeva la produzione agricola a un prelievo di rapina che sconvolgeva l'intero ciclo produttivo e apriva la strada all'esperienza estrema dello stalinismo: la carestia del 1933, che fornì da sola il contributo più pesante al bilancio delle vittime del periodo staliniano. Dopo questa situazione limite - più nessuno che si occupasse della semina, neppure un posto libero nelle prigioni - si ha una breve tregua, di soli due anni: per la prima volta avvengono scarcerazioni in massa. Ma i rari provvedimenti di pacificazione generano nuove tensioni. I figli dei kulak deportati sono reintegrati nei diritti civili, ma non autorizzati a ritornare a casa propria.

Cerchiamo adesso di chiarire quali sono i meccanismi con cui le varie sequenze di terrore si susseguono e si articolano dalla guerra contadina in poi nel corso degli anni Trenta e del decennio successivo. Per individuarli si possono usare diversi criteri di riferimento, per esempio il grado di intensità e di radicalità delle operazioni repressive. Il periodo del Grande terrore concentra in meno di due anni (dalla fine del 1936 alla fine del 1938) più dell'85 per cento delle condanne a morte pronunciate da tribunali straordinari nell'intero arco dell'epoca staliniana. In questi anni l'identificazione sociologica delle vittime appare poco chiara. La quota considerevole di quadri di partito giustiziati o arrestati non basta a dissimulare la disparatissima estrazione sociale delle vittime, liquidate a «caso» per l'impellente necessità di completare le quote prescritte. Forse in questa repressione «a trecentosessanta gradi», cieca e barbarica, nell'apogeo parossistico del terrore, si può leggere l'incapacità del potere di superare una serie di ostacoli e di risolvere i conflitti in modi diversi dall'eliminazione fisica. Un altro criterio per valutare il susseguirsi delle azioni repressive è la tipologia dei gruppi oggetto di persecuzione. In un clima in cui i rapporti sociali erano sempre più spesso interpretati in termini di sanzionabilità penale, nel corso del decennio vengono scatenate numerose offensive mirate, l'ultima delle quali, dal 1938 in poi, con l'inasprimento della legislazione antioperaia, colpisce la «gente comune» delle città.

Dal 1940, nel contesto della sovietizzazione dei nuovi territori annessi e della «Grande guerra patriottica», si scatena una nuova ondata repressiva, segnata sia dall'individuazione di nuovi gruppi oggetto di repressione (i «nazionalisti» e i «popoli ostili»), sia dall'adozione sistematica delle deportazioni in massa. Le premesse della nuova ondata si possono osservare fin dal 1936-1937, in particolare con la deportazione dei coreani, in un clima di irrigidimento della politica delle frontiere.

Dal 1939 in poi, con l'annessione dei territori della Polonia orientale e quindi delle repubbliche baltiche, si avvia l'eliminazione dei rappresentanti della cosiddetta borghesia nazionalista e contemporaneamente la deportazione di determinate minoranze, per esempio i polacchi della Galizia orientale. Nel pieno infuriare del conflitto questa pratica si estende, mettendo a rischio la vitale necessità della difesa in un paese minacciato di annientamento. Le successive deportazioni di interi gruppi nazionali (tedeschi, ceceni, tatari, calmucchi eccetera) rivelano, fra l'altro, l'alto grado di abilità tecnica acquisita dai primi anni Trenta in poi nello svolgimento di simili operazioni. Non si tratta di pratiche circoscritte al periodo bellico. In forma selettiva proseguono per tutto il decennio 1940-1950, all'interno di un lungo processo di pacificazione e sovietizzazione delle nuove aree incorporate nell'impero. D'altronde, in questo periodo la configurazione dell'universo concentrazionario è profondamente modificata dall'afflusso di massicci contingenti di gruppi nazionali. Ormai nel gulag i detenuti appartenenti ai «popoli puniti» e alle organizzazioni partigiane delle varie nazionalità costituiscono una presenza preponderante.

In parallelo, al termine del conflitto si accentua un'interpretazione in chiave criminalizzante dei comportamenti sociali, da cui deriva il costante aumento dei detenuti nel gulag. Nel dopoguerra si ha l'apogeo del gulag in termini di consistenza numerica degli internati, ma si osservano anche i primi sintomi di crisi dell'universo concentrazionario, ipertrofico, percorso da molteplici tensioni e sempre più problematico dal punto di vista della convenienza economica.

Gli ultimi anni del grande ciclo staliniano, di cui sappiamo ancora molto poco, sono caratterizzati da deviazioni specifiche del periodo. Il fatto che, mentre andava riemergendo l'antisemitismo latente, il potere ricorresse ancora una volta all'immagine del complotto mette in luce la rivalità di forze non chiaramente identificate, i clan che si erano costituiti nell'ambito della polizia politica o delle organizzazioni periferiche del Partito. Gli storici, quindi, sono indotti a chiedersi se non fosse in programma un'ultima campagna, un nuovo Grande terrore, diretto specificamente contro la popolazione ebraica dell'URSS.

Il costante ricorso alle pratiche di violenza estrema, adottate come una forma di gestione politica della società, appare manifesto da questa breve sintesi dei primi trentacinque anni di storia dell'Unione Sovietica.

Forse a questo punto occorre riaprire la classica questione della continuità fra il primo ciclo «leninista» e il secondo ciclo «stalinista», dovendo intendersi il primo come prefigurazione del secondo. Il contesto storico delle due situazioni non permette di istituire un confronto. Il «Terrore rosso» dell'autunno del 1918 ha origine in un ambito di scontri generalizzati e il carattere estremo delle azioni repressive intraprese si spiega in parte con l'eccezionale violenza del momento. Invece la ripresa della guerra contro i contadini, che costituisce il fondamento del secondo ciclo di violenze, avviene in un paese pacificato, ponendo la questione di un'offensiva durevole scatenata contro la stragrande maggioranza della società. A parte l'irriducibile differenza di contesto fra i due eventi considerati, l'esercizio del terrore come strumento basilare al servizio del progetto politico leninista viene enunciato ancor prima che si scateni la guerra civile e assunto come programma di azione, anche se considerato, per la verità, transitorio. Da questo punto di vista, la breve tregua della NEP e i complessi dibattiti fra i dirigenti bolscevichi circa le possibili vie verso lo sviluppo continuano a porre la questione di una possibile normalizzazione e del superamento delle forme repressive come unico modo per risolvere le tensioni sociali ed economiche. In realtà, in questi brevi anni il mondo rurale vive appartato e il rapporto fra il potere e la società è caratterizzato in larga misura dalla reciproca ignoranza.

La guerra contadina che collega due cicli di violenza si rivela fondamentale in quanto sembra risvegliare le pratiche sperimentate e sviluppate nel 1918-1922: campagne di requisizioni forzate, strumentalizzazione delle tensioni sociali interne al mondo contadino, scontri diretti e incoraggiamento delle forme di brutalità arcaica che riemergono con sempre maggiore virulenza. Da una parte e dall'altra, carnefici e vittime avevano la convinzione di rivivere un copione ben noto.

Anche se, per una serie di ragioni evidenti che riguardano la pregnanza del terrore come elemento costitutivo di un modo di governare e amministrare la società, l'epoca staliniana ci fa piombare nel pieno di un universo peculiare, dobbiamo interrogarci sulle filiazioni che i vari aspetti della repressione suggeriscono. A tale riguardo si può considerare la questione della deportazione partendo da un primo caso emblematico: la «decosacchizzazione» del 1919-1920. Nell'ambito della riconquista dei territori cosacchi, il governo intraprende un'operazione di deportazione che riguarda l'insieme della popolazione autoctona. Tale operazione segue una prima offensiva che aveva preso di mira i cosacchi più benestanti, ma aveva provocato uno «sterminio fisico in massa» a causa dello zelo dimostrato dagli agenti locali nell'adempimento del dovere. Per molti motivi questo evento prefigura pratiche e meccanismi che dieci anni dopo si realizzeranno su scala del tutto diversa e in un diverso contesto: stigmatizzazione di un gruppo sociale, esecuzione degli ordini sul piano locale in misura assai superiore alle direttive, quindi via libera allo sradicamento tramite la deportazione. In tutti questi elementi vi sono analogie con la pratica della «dekulakizzazione» che fanno riflettere. Viceversa, se estendiamo l'analisi al fenomeno più generale dell'esclusione collettiva seguita dall'isolamento dei gruppi ostili, avente per corollario la creazione di un vero e proprio sistema di campi d'internamento nel corso della guerra civile, siamo indotti a sottolineare le forti differenze fra i due cicli repressivi.

L'allestimento dei campi durante la guerra civile e, negli anni Venti, la pratica dell'internamento non sono paragonabili con l'universo concentrazionario quale si sarebbe sviluppato negli anni Trenta né per entità, né per i fini perseguiti, né per la realtà che rappresentano. In effetti la grande riforma del 1929 non porta soltanto all'abbandono delle forme ordinarie di detenzione, ma pone le basi di un nuovo sistema, caratterizzato fra l'altro dal lavoro forzato. La comparsa e lo sviluppo del fenomeno del gulag ci riportano alla questione centrale, cioè se esista o meno un progetto tendente a escludere certi elementi del corpo sociale e a strumentalizzare l'esclusione in modo durevole, in un vero e proprio progetto di metamorfosi economica e sociale. Gli elementi a favore di questa tesi sono numerosi e hanno costituito l'argomento di importanti ricerche. In primo luogo, un'espressione di tale progetto può essere considerata la pianificazione del terrore, quale si manifesta nella politica delle quote a partire dalla dekulakizzazione e fino al Grande terrore. Consultando gli archivi si ha la conferma di questa ossessione contabile che assilla i vari livelli dell'amministrazione, dal vertice alla base. Bilanci stilati in cifre e a scadenze regolari sembrano attestare come i dirigenti dominassero perfettamente il processo della repressione, ma servono anche allo storico per ricostruire nella loro complessità i vari gradi di intensità del fenomeno, sia pure evitando di dare un peso eccessivo all'aspetto contabile. La cronologia delle varie ondate repressive, che oggi conosciamo meglio, in certa misura sembra confermare l'impressione di una serie coordinata di operazioni. Tuttavia, ricostruendo l'insieme del processo repressivo, la catena di trasmissione degli ordini, il modo in cui venivano eseguiti e lo svolgimento delle operazioni, si trovano molti elementi che smentiscono l'ipotesi di un disegno predeterminato e concepito per durare nel tempo. In particolare, se si affronta il problema della pianificazione della repressione, si constatano le numerose incertezze, le crepe ricorrenti nelle varie fasi operative. Da questo punto di vista uno degli esempi più significativi è quello della deportazione dei kulak in mancanza di una destinazione definita, in altre parole di una deportazione-abbandono, che permette di misurare il grado di improvvisazione e di caos generale in cui si svolgevano le operazioni. Analogamente, le «campagne di sfollamento» dei luoghi di detenzione sottolineano l'evidente mancanza di direttive adeguate. Se oggi esaminiamo il processo di trasmissione e di esecuzione degli ordini, non possiamo non constatare il peso dei fenomeni di anticipazione, di «eccesso di zelo» e di «deformazione della linea» che si manifestano sul campo.

Tornando alla questione del gulag, l'interesse e gli obiettivi di quel che ha costituito il sistema sono molto più complessi e difficili da distinguere a mano a mano che la ricerca progredisce. Nella visione di un ordine stalinista di cui il gulag sarebbe il lato oscuro ma compiuto, i documenti oggi disponibili suggeriscono piuttosto le numerose contraddizioni che percorrono l'universo concentrazionario: gli incessanti arrivi di gruppi soggetti a repressione sembrano spesso contribuire a disorganizzare il sistema produttivo anziché a migliorarne l'efficacia; nonostante una classificazione molto elaborata dello status delle persone oggetto di repressione, i confini tra i rispettivi mondi sembrano labili, anzi inesistenti. Infine, resta tutta da chiarire la questione della reale convenienza economica di tale sistema di sfruttamento.

Nel riconoscere queste contraddizioni, improvvisazioni, automatismi, si sono formulate svariate ipotesi rispetto alle ragioni che hanno indotto il vertice del Partito a riattivare periodicamente le dinamiche di repressione di massa, e alle logiche indotte dal circuito stesso della violenza e del terrore.

Nel tentativo di individuare i moventi che hanno scatenato il grande ciclo repressivo staliniano, gli storici hanno sottolineato un elemento di improvvisazione e di fuga in avanti nella gestione della «grande svolta» della modernizzazione. Questa dinamica di rottura si trasforma improvvisamente in un'offensiva di tale estensione che il potere può illudersi di controllarla soltanto radicalizzando sempre più le pratiche del terrore. Da quel momento in poi ci troviamo presi da un ingranaggio di estrema violenza che con i suoi meccanismi ed effetti a catena, e le sue dimensioni incalcolabili, sfugge in larga parte ai contemporanei e tuttora resta oscuro agli storici. Lo stesso processo di repressione, unica risposta ai conflitti e agli ostacoli incontrati, genera a sua volta movimenti incontrollati che alimentano la spirale di violenza.

Il fenomeno centrale del terrore nella storia politica e sociale dell'Unione Sovietica pone oggi questioni sempre più complesse. Le ricerche attuali smontano almeno in parte le tesi che hanno a lungo prevalso nell'ambito della sovietologia. Pur senza avere la presunzione di voler dare una spiegazione globale e definitiva di questo fenomeno così difficile da comprendere per la sua immensa portata, esse si orientano piuttosto verso l'analisi dei meccanismi e delle dinamiche della violenza.

In questa prospettiva permangono numerose zone d'ombra. La più importante riguarda i comportamenti sociali che entrano in gioco nell'esercizio della violenza. Sul punto meno indagato nel lavoro di ricostruzione (chi erano gli esecutori?) bisognerà interrogare continuamente la società nel suo insieme, vittima ma anche parte attiva di ciò che è avvenuto.


Ultima modifica 05.12.2003