Voltaire

Dizionario Filosofico

 

A

 

 

 

 

ABATE
ABRAMO
ADAMO
AMICIZIA
AMORE
AMORE
SOCRATICO
AMOR
PROPRIO
ANGELO
ANIMA
ANTITRINITARI
ANTROPOFAGI
API
APOCALISSE
ATEO
ATEISMO

 

 

 

 

ABATE

 

«Dove andate, Signor abate?» ecc. Vi rendete conto che abate significa padre? Se voi lo diverrete, renderete un servizio allo Stato; e senza dubbio compirete l'opera più alta che possa compiere un uomo: nascerà da voi un essere che pensa. C'è qualcosa di divino in quest'azione.

Ma se siete il signor abate solo per il fatto che avete la chierica e portate un collarino e una mantellina, e ve ne state lì alla posta di qualche beneficio, il nome d'abate non lo meritate. Gli antichi monaci chiamarono così il superiore che essi eleggevano. L'abate era il loro padre spirituale. Quanti significati diversi assumono, col passare del tempo, gli stessi nomi! L'abate spirituale era un povero a capo di tanti altri poveri; ma i poveri padri spirituali giunsero poi ad avere duecento, quattrocentomila franchi di rendita; e ci sono, oggi, in Germania, dei poveri padri spirituali che posseggono un reggimento di guardie.

Un povero che ha fatto giuramento d'essere povero e che, di conseguenza, diventa sovrano! Già lo si è detto; e va ridetto mille volte: questo è intollerabile. Le leggi protestano contro questo abuso, la religione se ne indigna, e i veri poveri, nudi e affamati, assordano il cielo di lamenti davanti alla porta del signor abate.

Li sento rispondere, i signori abati d'Italia, di Germania, delle Fiandre, della Borgogna: «E perché non dovremmo accumulare anche noi ricchezze ed onori? Perché non dovremmo essere principi? I vescovi lo sono. Una volta erano poveri come noi, e poi si sono arricchiti, si sono innalzati; uno di loro è ora più in alto dei re; lasciate che li imitiamo per quel che ci è possibile.»

Avete ragione, signori; invadete la terra; essa appartiene ai forti e ai furbi che se ne impossessano. Avete approfittato dei tempi dell'ignoranza, della superstizione, della demenza per spogliarci delle nostre eredità e calpestarci; per ingrassarvi con le sostanze degli sventurati: tremate, chissà che non arrivi il giorno della ragione.

 

ABRAMO

 

Abramo è uno di quei nomi celebri in Asia minore e nell'Arabia, come Thoth fra gli egiziani, l'antico Zoroastro in Persia, Ercole in Grecia, Orfeo in Tracia, Odino presso i popoli del settentrione e tanti altri noti più per la loro fama che per una storia ben accertata. Parlo solo della storia profana, giacché, per la storia degli ebrei, nostri maestri e nostri nemici, in cui crediamo e che detestiamo, poiché la storia di questo popolo è stata manifestamente scritta dallo stesso Spirito Santo, noi nutriamo i sentimenti che dobbiamo nutrire. Qui ci rivolgiamo soltanto agli arabi; essi si gloriano di discendere da Abramo, attraverso Ismaele; credono che questo patriarca abbia fondato la Mecca e sia morto in questa città. Il fatto è che la stirpe d'Ismaele fu infinitamente più favorita da Dio di quella di Giacobbe. L'una e l'altra, per la verità, non hanno prodotto che dei ladri; ma i ladri arabi sono stati straordinariamente superiori ai ladri ebrei: i discendenti di Giacobbe conquistarono solo un minuscolo territorio, che poi perdettero; mentre i discendenti di Ismaele hanno conquistato una parte dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa, hanno fondato un impero più vasto di quello dei romani e hanno cacciato gli ebrei dalle loro caverne che chiamavano Terra promessa.

A voler giudicare le cose sulla sola base degli esempi delle nostre storie moderne, sembrerebbe piuttosto difficile che Abramo sia stato il padre di due popoli così diversi; c'è stato detto che era nato in Caldea, figlio di un povero vasaio che si guadagnava da vivere facendo dei piccoli idoli di terracotta. Non è molto verosimile che il figlio di un vasaio sia andato a fondare la Mecca trecento leghe più in là, sotto i tropici, affrontando deserti impraticabili. Se fu un conquistatore, si volse senza dubbio verso il bel paese dell'Assiria; e se non fu che un pover'uomo, come ci viene dipinto, non può aver fondato regni così lontani dalla sua terra.

Il Genesi narra che aveva settantacinque anni quando lasciò il paese di Aram, dopo la morte di suo padre Terah, il vasaio; ma sempre il Genesi narra anche che Terah, avendo generato Abramo all'età di settant'anni, visse fino a duecentocinque anni e che Abramo se ne andò via da Haran solo dopo la morte di suo padre. È chiaro, dunque, da quel che dice il Genesi stesso, che Abramo aveva centotrentacinque anni quando lasciò la Mesopotamia. Egli dunque lasciò un paese idolatra per andare in un altro paese idolatra chiamato Sichem, in Palestina. Perché proprio lì? Perché abbandonò le fertili rive dell'Eufrate per una regione così lontana, così sterile e pietrosa come quella di Sichem? La lingua caldea doveva essere assai diversa da quella di Sichem, che non era un paese di commerci. Sichem dista più di cento leghe dalla Caldea; per arrivarci bisogna attraversare dei deserti; ma Dio voleva che Abramo facesse questo viaggio, voleva mostrargli la terra che avrebbero dovuto occupare i suoi discendenti, molti secoli dopo di lui. L'intelligenza umana stenta a comprendere le ragioni di un tale viaggio.

Appena Abramo giunge nel piccolo paese montagnoso di Sichem, la carestia lo costringe a uscirne. Allora va in Egitto con sua moglie, a cercar di che vivere. Menfi dista duecento leghe da Sichem; è naturale che si vada a cercar grano tanto lontano, e in un paese di cui non si conosce affatto la lingua? Incredibili viaggi, intrapresi all'età di quasi centoquarant'anni.

Conduce a Menfi la moglie Sara, tanto più giovane di lui, quasi una bimba; non aveva che sessantacinque anni. E poiché era molto bella, egli si risolse a trar partito dalla sua bellezza: «Fingi d'esser mia sorella,» le disse, «affinché mi si faccia del bene in grazia tua.» Avrebbe dovuto dirle, ci pare: «Fingi d'essere mia figlia.» E così il re si innamorò della giovane Sara, e regalò al sedicente fratello tante pecore, buoi, asini, asine, cammelli, servi e serve, il che prova che l'Egitto d'allora era un regno molto potente e civile, e di conseguenza molto antico, in cui si ricompensavano munificamente i fratelli che venivano ad offrire le sorelle ai re di Menfi. La giovane Sara aveva novant'anni, secondo la Scrittura, quando Dio le promise che Abramo, che ne aveva allora centosessanta, le avrebbe regalato un bambino entro lo stesso anno.

Abramo, che adorava viaggiare, se ne andò nell'orribile deserto di Cades con la moglie incinta, sempre giovane e sempre leggiadra. Un re di quel deserto non mancò di innamorarsi di Sara, né più né meno di quanto se ne era innamorato il re d'Egitto. E il padre dei credenti ripeté la menzogna detta in Egitto; fece passare la moglie per sua sorella, e ricavò dall'affare altre pecore, buoi, servi e serve. Si può ben dire che quest'Abramo divenne ricchissimo grazie alla famiglia della moglie. I commentatori hanno messo insieme un numero incredibile di volumi per giustificare la condotta di Abramo, e per conciliare la cronologia; rinviamo dunque il lettore a questi commenti, tutti composti da spiriti sottili e raffinati, eccellenti metafisici, gente libera da pregiudizi e niente affatto pedante.

Del resto questo nome (Bram-Abram) era celebre in India e in Persia: molti dotti pretendono perfino ch'egli fosse lo stesso legislatore che i greci chiamarono Zoroastro. Altri asseriscono che fosse il Brahma degli indiani: il che però non è dimostrato.

Quello che sembra invece più che ragionevole a molti dotti è che quest'Abramo fosse caldeo o persiano: gli ebrei, in seguito, si vantarono di discendere da lui, come i franchi da Ettore e i bretoni da Tubal. È certo che la nazione ebraica fu una comunità nomade molto recente; che si insediò vicino alla Fenicia solo molto tardi; che era circondata da popoli antichi: ne adottò la lingua, e prese da loro perfino il nome d'Israele, che è caldeo, come attesta proprio un ebreo, Flavio Giuseppe. Sappiamo che prese dai babilonesi perfino il nome degli angeli; infine, che chiamò Dio, come avevano fatto i fenici, con i nomi di Elohim o Eloah, Adonài, Jehovah o Jao.

È probabile che gli ebrei abbiano appreso il nome di Abraham o Ibrahim dai babilonesi, perché l'antica religione di tutte le terre, dall'Eufrate fino all'Oxo, era chiamata Kish-Ibrahim, Milat- Ibrahim. Lo confermano tutte le ricerche fatte sul posto dallo studioso Hyde.

Gli ebrei fecero dunque con la storia e le antiche favole quel che i loro rigattieri fanno con gli abiti vecchi: li rivoltano e li vendono come nuovi al prezzo più alto possibile.

Ed è un singolare esempio della stupidità umana il fatto d'aver considerato per tanto tempo gli ebrei come il popolo che aveva insegnato tutto agli altri, mentre il loro stesso storico Giuseppe confessa il contrario.

È difficile scrutare nelle tenebre dell'antichità; ma è evidente che tutti i regni dell'Asia erano fiorentissimi prima che quell'orda di arabi chiamati ebrei possedesse un pezzetto di terra, avesse una città, delle leggi e una religione costituita. Quando perciò sappiamo di un antico rito, di una antica credenza stabilita in Egitto o nell'Asia, e insieme presso gli ebrei, è ben più che naturale pensare che quel piccolo popolo nuovo, incolto, rozzo, da sempre e per sempre ignorante in materia di arti belle, abbia copiato, quanto più poté, la nazione più antica, fiorente e industriosa.

È in conformità con questo principio che vanno giudicate la Giudea, la Biscaglia, la Cornovaglia, Bergamo, il paese d'Arlecchino ecc.: senza dubbio la trionfante Roma non imitò niente dalla Biscaglia, dalla Cornovaglia, né da Bergamo; e bisogna essere un grande ignorante o avere una gran faccia tosta per sostenere che gli ebrei insegnarono qualcosa al greci.

(Articolo tratto dal signor Fréret)

 

 

ADAMO

 

La pia signora Bourignon era sicura che Adamo fosse ermafrodito, come i primi uomini del divino Platone. Dio le aveva rivelato questo grande segreto. Ma io, che non ho avuto simili rivelazioni, non ne parlerò affatto. I rabbini ebrei hanno letto le opere di Adamo; sanno il nome del suo precettore e della sua seconda moglie; ma, poiché non ho letto questi libri del nostro primo padre, non ne farò parola. Certe dottissime teste vuote restano sbigottite quando, leggendo i Veda degli antichi brahmani, apprendono che il primo uomo fu creato in India ecc.; che si chiamava Adimo, che significa il generatore; e che sua moglie si chiamava Procriti, che significa la vita. Costoro asseriscono che la setta dei brahmani è incontestabilmente più antica di quella degli ebrei; che solo molto più tardi gli ebrei poterono scrivere in lingua cananea, perché fu solo molto più tardi che si stabilirono nel piccolo paese di Canaan; dicono che gli indiani furono sempre inventori e gli ebrei sempre imitatori; gli indiani sempre ricchi di ingegno e gli ebrei sempre rozzi; dicono che è ben difficile che Adamo, il quale era rosso e aveva i capelli, sia il padre dei negri, che son neri come l'inchiostro e sulla testa hanno della lana nera. Ma quante non ne dicono costoro? Io, per me, non dico niente: lascio queste ricerche al reverendo padre Berruyer, della compagnia di Gesù; egli è l'uomo più innocente che io abbia mai conosciuto. Hanno bruciato il suo libro come opera di un miscredente che vuol mettere in ridicolo la Bibbia; ma io posso assicurare che quel che ha scritto è assolutamente privo di malizia.

(Tratto da una lettera del cavaliere di R.)

 

AMICIZIA

 

È un tacito contratto fra due persone sensibili e virtuose. Dico «sensibili», perché un monaco, un solitario, possono non essere affatto insensibili, e tuttavia vivere senza conoscere l'amicizia. Dico «virtuose», perché i malvagi non possono avere che dei complici; i dissoluti, dei compagni di bagordi; le persone interessate, dei soci; i politici si circondano di partigiani faziosi; la massa degli sfaccendati ha delle conoscenze; i principi hanno attorno a loro dei cortigiani: solo gli uomini virtuosi hanno amici. Cetego era il complice di Catilina; e Mecenate, il cortigiano di Ottaviano; ma Cicerone era amico di Attico.

Cosa comporta questo contratto fra due anime sensibili e virtuose? Gli obblighi sono più o meno forti o deboli, a seconda del grado di sensibilità dei contraenti e il numero dei servizi resi ecc.

La passione dell'amicizia è stata più forte presso i greci e gli arabi che non da noi. I racconti che questi popoli hanno immaginato sull'amicizia sono ammirevoli; noi non ne abbiamo di simili, noi siamo un po' aridi in tutto.

L'amicizia, presso i greci, era oggetto di religione e di legislazione. I tebani avevano la legione degli amanti: magnifica legione! Certuni l'hanno scambiata per una legione di sodomiti; s'ingannano: hanno scambiato l'accidente per la sostanza. L'amicizia, presso i greci, era prescritta dalla legge e dalla religione; la pederastia era purtroppo tollerata dal costume; ma non dobbiamo imputare alla legge abusi vergognosi. Ne parleremo ancora.

AMORE

 

Amor omnibus idem. Qui bisogna ricorrere a ciò che è fisico; è la stoffa della natura, su cui l'immaginazione ha ricamato. Vuoi avere un'idea dell'amore? guarda i passeri del tuo giardino, osserva i colombi; contempla il toro che viene portato alla tua giovenca; guarda quel fiero cavallo che due stallieri conducono alla cavalla che lo attende placida, e solleva la coda per riceverlo; guarda come i suoi occhi scintillano; ascolta i suoi nitriti, osserva quei salti, quegli scambietti, quelle orecchie drizzate, quella bocca che s'apre con piccoli tremiti, quelle froge che si gonfiano, quel soffio ardente che ne esce, la criniera che si drizza e si agita, quel movimento imperioso con cui si lancia sull'oggetto che la natura gli ha destinato. Ma non esserne geloso e pensa ai vantaggi della specie umana; essi compensano, in amore, tutto quel che la natura ha largito agli animali: forza, bellezza, leggerezza, rapidità.

Ci sono anche animali che non conoscono il piacere. I pesci a scaglie son privati di questa dolcezza: la femmina depone sul fondo milioni di uova, e il maschio che le trova passa su di loro e le feconda col proprio seme, senza preoccuparsi di sapere a quale femmina appartengono.

La maggior parte degli animali che si accoppiano gustano il piacere con un solo senso; e appena quest'appetito è soddisfatto, tutto finisce. Nessun animale, all'infuori dell'uomo, conosce gli amplessi; tutto il tuo corpo è sensibile; soprattutto le tue labbra godono con una voluttà che niente stanca, e questo piacere appartiene solo alla nostra specie; infine tu puoi abbandonarti in qualsiasi momento all'amore, mentre gli animali hanno un tempo determinato.

Se rifletti su questi privilegi, ti verrà da dire col conte di Rochester: «L'amore in un paese di atei farebbe adorare la Divinità.»

Poiché gli uomini han ricevuto il dono di perfezionare tutto quel che la natura concede loro, hanno perfezionato anche l'amore. La pulizia, la cura di sé, rendendo più delicata la pelle, aumenta il piacere del tatto, mentre la cura della propria salute rende gli organi della voluttà più sensibili.

Tutti gli altri sentimenti entrano in quello dell'amore, come i metalli che si amalgamano con l'oro: l'amicizia, la stima, vengono in suo aiuto: le doti del corpo e della mente sono nuove catene.

Nam facit ipsa suis interdum foemina factis,

Morigerisque modis, et mundo corpore cultu,

Ut facile insuescat secum vir degere vitam.

(Lucrezio, De rerum natura, libro IV)

L'amor proprio, soprattutto, rafforza questi legami. Ci si congratula della propria scelta e mille illusioni adornano quest'opera, di cui la natura ha posto le fondamenta.

Ecco ciò che ti distingue dagli animali; ma se tu godi tanti piaceri che essi ignorano, quanti dolori, anche, di cui le bestie non hanno la minima idea! Quel che v'è d'orribile, per te, è che la natura, nei tre quarti della terra, ha avvelenato i piaceri dell'amore e le fonti della vita con una malattia spaventevole, alla quale soltanto l'uomo è soggetto, e che solo in lui infetta gli organi della generazione.

E non è che tale peste, come altre malattie, sia la conseguenza dei nostri eccessi. Non fu la dissolutezza a introdurla nel mondo. Le Frini, le Laidi, le Flore, le Messaline non ne furono affatto colpite; essa è nata nelle isole ove gli uomini vivevano nell'innocenza, e di là si è diffusa nel vecchio mondo.

Se mai si è potuta accusare la natura di disprezzare la sua opera, di contraddire i suoi disegni, di agire contro i suoi fini, è in tale occasione. È proprio questo il migliore dei mondi possibili? Ma come! se Cesare, Antonio, Ottaviano non furono colpiti da questa malattia, non era possibile che essa non facesse morire Francesco I? «No,» ci dicono, «le cose erano così preordinate per il meglio.» Voglio crederlo, ma è ben duro.

 

AMORE COSIDDETTO SOCRATICO

 

Com'è possibile che un vizio, distruttore del genere umano se fosse praticato da tutti, che un attentato, infame contro la natura, sia tuttavia così naturale? Sembra l'estremo grado della corruzione cosciente, eppure è condizione comune di quanti non hanno ancora il tempo d'essere corrotti. È penetrato in cuori inesperti che non hanno conosciuto ancora né l'ambizione, né la frode, né la sete di ricchezza; è la cieca gioventù che, per un istinto ancora confuso, precipita in questo disordine all'uscir dall'infanzia.

L'inclinazione dei due sessi l'uno per l'altro si manifesta molto presto; ma checché si sia detto delle donne africane o dell'Asia meridionale, tale inclinazione è generalmente più forte nell'uomo che nella donna; è una legge che la natura ha stabilito per tutti gli animali. È sempre il maschio che assale la femmina.

I giovani maschi della nostra specie, allevati insieme, sentendo quest'impulso che la natura comincia a manifestare in loro e non trovando l'oggetto naturale di tale istinto, ripiegano su quello che più gli somiglia. Spesso un giovinetto, per la freschezza della carnagione, lo splendore del colorito, la dolcezza degli occhi, somiglia per due o tre anni a una bella ragazza; se lo si ama, è perché la natura s'inganna; si rende omaggio al bel sesso, affezionandosi a chi ne ha le bellezze; e, quando l'età ha fatto svanire tale somiglianza, l'equivoco cessa.

Citraque juventam

Aetatis breve ver et primos carpere fiores.

(Ovidio, Metamorfosi, X, 84-85)

È abbastanza noto che questo equivoco della natura è molto più comune nei climi dolci che fra i ghiacci del settentrione, perché il sangue vi è più acceso e l'occasione più frequente: così quel che nel giovane Alcibiade sembra una pura debolezza, in un marinaio olandese o in un vivandiere moscovita è una disgustosa depravazione.

Non posso sopportare che si pretenda che i greci abbiano autorizzato questa licenza. Si cita il legislatore Solone, perché disse in due brutti versi:

Amerai un bel ragazzo

finché non gli cresca la barba.

Ma, in buonafede, Solone era legislatore quando scrisse questi due ridicoli versi? A quel tempo era giovane, e quando il dissoluto diventò saggio, non mise certo una simile infamia tra le leggi della sua repubblica; è come se accusassimo Teodoro di Beza di aver predicato la pederastia nella sua chiesa perché, nella sua giovinezza, scrisse versi per il giovane Candido, e disse:

Amplector hunc et illam.

Si travisano le parole di Plutarco, che nelle sue chiacchiere, nel Dialogo sull'amore, fa dire a un interlocutore che le donne non sono degne del vero amore; mentre un altro interlocutore sostiene la parte delle donne, come è giusto.

È certo, per quanto può esserlo la nostra conoscenza dell'antichità, che l'amore socratico non era affatto un amore infame: a trarre in inganno è stata la parola «amore»: i cosiddetti «amanti di un giovinetto» erano precisamente quello che sono fra noi i paggi dei nostri principi, quello che erano i damigelli d'onore: giovani addetti all'educazione di un giovinetto di nobile famiglia, compagni dei suoi studi e dei suoi esercizi militari: istituzione guerriera e sacra di cui si abusò, come accadde delle feste notturne e delle orge.

La legione degli amanti, istituita da Laio, era una legione invincibile di giovani guerrieri impegnati da un giuramento a dare la vita gli uni per gli altri: la disciplina antica non ebbe mai nulla di più bello.

Sesto Empirico e altri hanno un bel dire che la pederastia era raccomandata dalle leggi della Persia. Citino il testo della legge; mostrino il codice dei persiani; e anche se lo mostrassero, non lo crederei lo stesso: direi che non è vero, perché non è possibile. No, non è nella natura umana fare una legge che contraddice e oltraggia la natura, una legge che annienterebbe il genere umano, se fosse osservata alla lettera. Quanti hanno scambiato certe usanze vergognose e tollerate in un paese per le leggi di quel paese! Sesto Empirico, il quale dubitava di ogni cosa, avrebbe dovuto dubitare di tale giurisprudenza. Se vivesse ai tempi nostri e vedesse due o tre giovani gesuiti abusare di qualche loro allievo, avrebbe il diritto di dire che questo è permesso dalle Costituzioni di Ignazio di Loyola?

A Roma l'amore dei giovinetti era così comune, che nessuno pensava a punire una stupidaggine a cui tutti si lasciavano andare. Ottaviano Augusto, quell'assassino depravato e vile, che osò esiliare Ovidio, trovò bellissimo che Virgilio cantasse Alessi e che Orazio scrivesse piccole odi per Ligurino; ma l'antica legge Scantinia, che proibiva la pederastia, era sempre in vigore: l'imperatore Filippo la ripristinò e cacciò i ragazzi che facevano il mestiere. Insomma, non credo che ci sia stata nessuna nazione bene ordinata che abbia fatto leggi contro il buon costume.

 

 

AMOR PROPRIO

 

Uno straccione dei dintorni di Madrid chiedeva con gran dignità l'elemosina; un passante lo apostrofò: «Non vi vergognate di fare questo mestiere ignobile, mentre potreste lavorare?» «Signore,» rispose il mendicante, «io vi ho chiesto del denaro, non dei consigli»; poi gli voltò le spalle conservando tutta la sua dignità castigliana. Era uno straccione orgoglioso, questo signore, e la sua vanità veniva ferita per un nonnulla. Chiedeva l'elemosina per amor di se stesso e, sempre per amor di se stesso, non tollerava rimproveri.

Un missionario, viaggiando in India, incontrò un fachiro carico di catene, nudo come una scimmia, sdraiato bocconi, che si faceva frustare per i peccati dei suoi compatrioti, i quali gli gettavano qualche soldo. «Che rinuncia a se stesso!» diceva uno degli spettatori. «Rinuncia a me stesso?» ribatté il fachiro. «Sappi che io mi faccio frustare il deretano in questo mondo solo per fare altrettanto con voi nell'altro, quando voi sarete cavalli e io cavaliere.»

Quanti hanno detto che l'amore di sé è la base di tutti i nostri sentimenti e di tutte le nostre azioni hanno dunque avuto pienamente ragione, in India, in Spagna, e in tutta la terra abitabile: e come nessuno scrive per dimostrare agli uomini che hanno una faccia, non c'è bisogno di provar loro che hanno dell'amor proprio. Questo amor proprio è lo strumento della nostra conversazione; assomiglia allo strumento che ci serve a perpetuare la specie: ci è necessario, ci è caro, ci procura piacere, ma bisogna tenerlo nascosto.

 

ANGELO

 

Angelo, in greco, «inviato»; non si sarà molto più edotti in proposito quando si saprà che i persiani avevano dei peri, gli ebrei dei malakim, i greci i loro daimonoi.

Ma quel che forse ci istruirà di più sarà il sapere che una delle prime idee degli uomini fu sempre quella di porre, tra la Divinità e noi, degli esseri intermedi; sono questi dèmoni, questi geni che l'antichità inventò; l'uomo fece sempre gli dei a propria immagine. Come i principi comunicavano i loro ordini per mezzo di messaggeri, si pensò che anche la Divinità mandasse i suoi corrieri: Mercurio, Iride, erano dei corrieri, dei messi.

Gli ebrei, il solo popolo guidato dalla Divinità stessa, non diedero sulle prime nessun nome agli angeli che Dio si degnava di mandare loro; adoperarono i nomi che davano loro i caldei quando la nazione giudaica fu schiava in Babilonia; Michele e Gabriele sono nominati per la prima volta da Daniele, schiavo di quei popoli. L'ebreo Tobia, che viveva a Ninive, conobbe l'angelo Raffaele che viaggiò con suo figlio per aiutarlo a recuperare il denaro che gli doveva l'ebreo Gabaele.

Nelle leggi degli ebrei, ossia nel Levitico e nel Deuteronomio, non c'è il minimo accenno all'esistenza degli angeli, né tanto meno al loro culto; così i sadducei non credevano agli angeli.

Ma nelle storie degli ebrei se ne parla molto. Quegli angeli erano corporei; avevano ali sulla schiena, come i gentili avevano immaginato che Mercurio le avesse ai piedi; qualche volta nascondevano le ali sotto le vesti. E come non avrebbero avuto un corpo, dato che mangiavano e bevevano e gli abitanti di Sodoma tentarono di commettere il peccato di pederastia con gli angeli che andarono da Loth?

L'antica tradizione giudaica, secondo Ben Maimon, ammette dieci gradi o ordini di angeli: 1) i caios acodesh, puri, santi; 2) gli ofamin, rapidi; 3) gli oralim, forti; 4) i chasmalim, fiamme; 5) i serafim, scintille; 6) i malakim, angeli, messi, deputati; 7) gli elohim, iddii o giudici; 8) i ben elohim, figli degli iddii; 9) i cherubim, immagini; 10) gli ychim, gli animati.

La storia della caduta degli angeli non si trova nei libri di Mosè; la prima testimonianza che ne abbiamo è quella del profeta Isaia, il quale, apostrofando il re di Babilonia, esclamò: «Cosa è diventato l'esattore dei tributi? I pini e i cedri si rallegrano della sua caduta; come sei caduto dal cielo, o Hellel, stella del mattino?» Questo Hellel venne tradotto con la parola latina Lucifer; in seguito, si dette, in senso allegorico, il nome di Lucifero al principe degli angeli che fecero la guerra in cielo; e finalmente questo nome, che significa «fosforo» e «aurora», diventò il nome del diavolo.

La religione cristiana è fondata sulla caduta degli angeli. Quelli che si ribellarono furono precipitati dalle sfere celesti, dove risiedevano, nell'inferno, al centro della terra, e si mutarono in diavoli. Un diavolo tentò Eva sotto la figura del serpente, e dannò il genere umano. Gesù venne a riscattare il genere umano e a trionfare sul diavolo, che ancora ci tenta. Tuttavia questa tradizione fondamentale si trova solo nel libro apocrifo di Enoch, e per giunta in una forma del tutto diversa da quella della tradizione accettata.

Sant'Agostino, nella sua lettera CIX, non ha nessuna difficoltà ad attribuire ai buoni e ai cattivi angeli dei corpi sciolti ed agili. Papa Gregorio II ridusse a nove cori, a nove gerarchie o ordini i dieci cori degli angeli riconosciuti dagli ebrei; sono i serafini, i cherubini, i troni, le dominazioni, le virtù, le potenze, gli arcangeli e infine gli angeli che danno il nome alle altre otto gerarchie.

Gli ebrei avevano nel tempio due cherubini, ciascuno con due teste, una di bue e l'altra di aquila, e con sei ali. Oggi, quando li dipingiamo diamo loro l'immagine d'una testa volante, con due alucce sotto le orecchie; dipingiamo gli angeli e gli arcangeli in figura di giovinetti, con due ali sul dorso. Quanto ai troni e alle dominazioni, nessuno s'è ancora azzardato a dipingerli.

San Tommaso, alla questione CVIII, art. 2, dice che i troni sono tanto vicini a Dio quanto lo sono i cherubini e i serafini, perché è su di loro che Dio è assiso. Scoto ha contato mille milioni di angeli. Una volta passata in Grecia e a Roma l'antica mitologia dei buoni e dei cattivi geni, abbiamo consacrato questa credenza, ammettendo per ciascun uomo un angelo buono e uno cattivo, l'uno per assisterlo, l'altro per nuocergli, dalla nascita alla morte; ma ancora non si sa se questi buoni e cattivi angeli volino continuamente da questo a quel posto di guardia, o si diano il cambio con altri angeli.

Nessuno sa con precisione dove si trovano gli angeli, se nell'aria, nel vuoto, o nei pianeti: Dio non ha voluto che ne fossimo edotti.

 

ANIMA

 

Come sarebbe bello vedere la propria anima. «Conosci te stesso» è un ottimo precetto, ma sta soltanto a Dio il metterlo in pratica: chi altri se non Lui può conoscere la propria essenza?

Noi chiamiamo anima quello che anima. Non ne sappiamo di più, dati i limiti della nostra intelligenza. I tre quarti del genere umano sono chiusi nei propri limiti e non si preoccupano dell'essere pensante; l'altro quarto, invece, cerca; nessuno ha trovato, né troverà.

Povero filosofo, tu vedi una pianta che vegeta e dici «vegetazione», o anche «anima vegetativa». Noti che i corpi hanno e comunicano moto e dici «forza»; vedi il tuo cane da caccia imparare, guidato da te, il suo mestiere, e gridi «istinto», «anima sensitiva»; hai delle idee composte, e dici «spirito».

Ma, di grazia, che vuoi dire con queste parole? Sì, questo fiore vegeta, ma c'è un essere reale che si chiama «vegetazione»? Questo corpo ne spinge un altro, ma possiede in sé un essere distinto che si chiama «forza»? Questo cane ti porta una pernice, ma c'è un essere che si chiama «istinto»? Non rideresti di un loico (fosse pur stato il maestro di Alessandro) che ti dicesse: «Tutti gli animali vivono, e dunque c'è in essi un essere, un'energia sostanziale che è la vita?»

Se un tulipano potesse parlare e ti dicesse: «La mia vegetazione ed io siamo due esseri evidentemente congiunti insieme,» non daresti dell'imbecille a quel tulipano?

Vediamo anzitutto quel che sai, e di che cosa sei certo: che cammini coi piedi, digerisci con lo stomaco, senti con tutto il corpo e pensi con la testa. Vediamo se la tua sola ragione ha potuto illuminarti abbastanza da farti concludere, senza un intervento soprannaturale, che hai un'anima.

I primi filosofi, caldei o egiziani che fossero, dissero: «Bisogna che ci sia in noi qualcosa che produce i nostri pensieri; questo quid deve essere molto sottile: un soffio, un fuoco, un etere, una quintessenza, un lieve simulacro, un'entelechia, un numero, un'armonia.» Infine, secondo il divino Platone, si tratterebbe di un composto dell'«identico» e del «diverso». «Sono degli atomi che pensano in noi,» disse Epicuro, seguendo Democrito. Ma, amico mio, come può, un atomo, pensare? Confessa che non ne sai niente.

L'opinione cui senza dubbio dobbiamo attenerci è che l'anima è un ente immateriale; ma è certo che non riusciremo a concepire cosa sia questo ente immateriale. «No,» rispondono i sapienti, «ma sappiamo che la sua natura è quella di pensare.» «E come lo sapete?» «Lo sappiamo perché essa pensa.» O sapienti, temo che siate ignoranti quanto Epicuro! La natura di una pietra è quella di cadere, perché essa cade; ma io vi chiedo che cos'è che la fa cadere.

«Noi sappiamo,» proseguono costoro. «che una pietra non ha anima.» Bravi, la penso come voi. «Sappiamo che una negazione e un'affermazione non sono divisibili, non sono parte della materia.» Sono anch'io del vostro parere. Ma la materia (che d'altronde ci è ignota) possiede qualità che non sono materiali, che non sono divisibili: per esempio, la gravitazione verso un centro, che Dio le ha dato. Ora questa gravitazione non ha parti, non è divisibile. La forza motrice dei corpi non è un ente composto di parti. La vegetazione dei corpi organici, la loro vita, i loro istinti non sono neanch'essi enti a parte, enti divisibili: non potete tagliare in due la vegetazione di una rosa, la vita di un cavallo, l'istinto di un cane, come del resto non potete certo dividere in due una sensazione, una negazione, un'affermazione. Il vostro bell'argomento, tratto dall'indivisibilità del pensiero, non prova assolutamente niente.

Cos'è dunque che chiamate la vostra anima? Quale idea ne avete? La sola cosa che possiate ammettere in voi, senza rivelazione, è un potere, a voi ignoto, di sentire, di pensare.

E adesso ditemi, in buona fede: questo potere di sentire e di pensare è lo stesso che vi fa digerire e camminare? Voi rispondete di no perché il vostro intelletto avrebbe un bel dire al vostro stomaco: «Digerisci!» Quello, se è malato, non farà niente; e invano il vostro ente immateriale comanderà ai vostri piedi di camminare: se hanno la gotta, non muoveranno un passo.

I greci si resero conto che spesso il pensiero non ha niente a che fare con l'azione dei nostri organi; essi ammisero per questi organi un'anima animale, e, per i pensieri, un'anima più fine, più sottile, un $íï(tm)ò$.

Ma ecco che quest'anima del pensiero esercita, in mille occasioni, una giurisdizione su quella animale. L'anima pensante ordina alle mani di prendere, ed esse prendono. Essa però non dice al cuore di battere, al sangue di scorrere, al chilo di formarsi; tutto questo avviene senza di lei: ecco due anime negli impicci e ben poco padrone a casa loro.

Ora, quella prima anima animale sicuramente non esiste: essa non è altro che il moto dei nostri organi. Ma bada, uomo! Grazie alla tua debole ragione, non hai maggiori prove che l'altra anima esista. Puoi saperlo solo grazie alla fede. Sei nato, vivi, agisci, pensi, vegli, dormi senza sapere come. Dio t'ha dato la facoltà di pensare, come t'ha dato tutto il resto; e se non fosse venuto lui ad insegnarti, nel momento fissato dalla sua provvidenza, che tu hai un'anima immateriale e immortale, non ne avresti nessuna prova.

Vediamo adesso i bei sistemi che la tua filosofia ha fabbricato su queste anime.

Uno dice che l'anima dell'uomo è parte della sostanza; un altro, che essa è una parte del gran Tutto; un terzo, che è creata ab aeterno; un quarto, che è fatta e non creata; altri assicurano che Dio forma le anime via via che ce n'è bisogno, e che esse arrivano nel momento della copulazione. «Esse abitano negli animalucoli seminali,» grida l'uno. «No,» sostiene un altro, «vanno ad abitare nelle trombe di Falloppio.» «Avete torto tutti e due,» interviene un terzo, «l'anima attende sei settimane che il feto sia formato, e allora prende possesso della ghiandola pineale; ma se trova un falso germe, se ne torna via, in attesa di un'occasione migliore.» L'ultima opinione è che la sua dimora sia nel corpo calloso: tale è il posto che le assegna La Peyronie; bisogna essere proprio il primo chirurgo del re di Francia per disporre così della dimora dell'anima. Comunque, quel corpo calloso non ha fatto la stessa fortuna di quel chirurgo.

San Tommaso, nella questione LXXV e seguenti, dice che l'anima è una forma subsistante per se, che è tutta in tutto, che la sua essenza differisce dalla sua potenza; che vi sono tre anime vegetative, ossia la nutritiva, l'accrescitiva, la generativa; che la memoria delle cose spirituali è spirituale, e quella delle cose corporee è corporea; che l'anima ragionevole è una forma «immateriale quanto alle operazioni, materiale quanto all'essere». San Tommaso scrisse duemila pagine di tanta potenza e chiarezza: per questo fu detto l'Angelo della Scuola.

Non meno numerosi sono i sistemi sul modo in cui quest'anima sentirà, quando avrà lasciato il suo corpo mediante il quale sentiva: come udrà senza orecchi, odorerà senza naso, e toccherà senza mani; quale corpo riprenderà: quello che aveva a due anni o a ottanta; come sussisterà l'io, l'identità della stessa persona; come l'anima di un uomo rinscemito a quindici anni e morto scemo a settanta, riprenderà il filo delle idee ch'essa aveva al tempo della pubertà; grazie a quale gioco di prestigio un'anima cui sia stata amputata una gamba in Europa e abbia perduto un braccio in America, ritroverà gamba e braccio, i quali, trasformati in ortaggi, saranno nel frattempo passati nel sangue di qualche altro animale. Non la finiremmo più se volessimo render conto di tutte le stravaganze che questa povera anima umana ha inventato intorno a se stessa.

Quello che è assai strano è che nelle leggi del popolo di Dio non è detta una parola sulla spiritualità e l'immortalità dell'anima; niente nel Decalogo, niente nel Levitico, niente nel Deuteronomio.

È certissimo, è indubbio, che in nessun luogo Mosè allude, con gli ebrei, a ricompense o a castighi in una vita futura; che non parla mai dell'immortalità delle loro anime; che non fa mai sperare loro il cielo, non minaccia mai l'inferno: tutto è temporale.

Prima di morire, dice loro nel suo Deuteronomio:

«Se dopo aver avuto figli e figli dei vostri figli, voi prevaricherete, sarete sterminati dal paese, e ridotti a un piccolo numero tra le nazioni.

«Io sono un Dio geloso, che punisce l'iniquità dei padri fino alla terza e alla quarta generazione.

«Onorate il padre e la madre, e vi sarà permesso di vivere a lungo.

«Voi avrete di che mangiare, senza mancarne mai.

«Se servirete dei stranieri, sarete distrutti.

«Se mi obbedirete, avrete la pioggia in primavera; e in autunno, frumento, olio, vino e fieno per il vostro bestiame, perché mangiate e siate sazi.

«Ponete queste parole nel vostro cuore, nell'anima, nelle mani, tra gli occhi; scrivetele sulle vostre porte, e i vostri giorni saran moltiplicati.

«Fate quel che vi ordino, senza aggiungere né omettere niente.

«Se sorge un profeta che predica prodigi; se la sua predizione si avvera, e avverrà quel che ha predetto; se vi dice: "Andiamo, serviamo dei stranieri", mettetelo subito a morte, e tutto il popolo lo colpisca dopo di voi.

«Quando il Signore avrà dato in vostro potere le nazioni, sgozzate tutti senza risparmiare un sol uomo: non abbiate pietà di nessuno.

«Non mangiate uccelli impuri: l'aquila, il grifone, l'issione ecc.

«Non mangiate animali che ruminino e la cui unghia non sia spartita, come il cammello, la lepre, il porcospino ecc.

«Se osservate tutti i comandamenti, sarete benedetti nelle città e nelle campagne; i frutti delle vostre viscere, della vostra terra, del vostro bestiame saranno benedetti...

«Se non osservate tutti i comandamenti e tutte le cerimonie, sarete maledetti nelle città e nelle campagne... Soffrirete la carestia, la povertà; morirete di miseria, di freddo, di indigenza, di febbre; avrete la rogna, la lebbra, la fistola... Avrete ulcere nelle ginocchia e nella parte grassa delle gambe.

«Lo straniero vi presterà denaro a usura, e voi non potrete prestargli a usura... perché non avrete servito il Signore.

«E mangerete il frutto del vostro ventre, e la carne dei vostri figli e delle vostre figlie ecc.»

È evidente che in tutte queste promesse e in tutte queste minacce non c'è niente che non sia temporale, e che non si trova parola sull'immortalità dell'anima o la vita futura.

Molti illustri commentatori hanno creduto che Mosè fosse perfettamente al corrente di questi due grandi dogmi, e lo provano con le parole di Giacobbe, il quale, credendo che suo figlio fosse stato divorato dalle fiere, diceva nel suo dolore: «Scenderò con mio figlio nella fossa, in infernum, nell'inferno»; ossia, morirò, poiché mio figlio è morto.

Lo provano anche con passi di Isaia e di Ezechiele, ma gli ebrei cui si rivolgeva Mosè non potevano aver letto né Ezechiele né Isaia, i quali vennero solo molti secoli dopo.

È assolutamente inutile disputare sulle segrete convinzioni di Mosè. Il fatto è che, nelle leggi pubbliche, egli non ha mai parlato di una vita futura, che egli limita tutti i castighi e le ricompense al tempo presente. Se conosceva la vita futura, perché non palesò esplicitamente questo grande dogma? E se non la conosceva, qual era lo scopo della sua missione? È un quesito che si pongono molti grandi personaggi, i quali rispondono che il Signore di Mosè e di tutti gli uomini si riservava il diritto di spiegare a suo tempo, agli ebrei, una dottrina che non sarebbero stati in grado di comprendere fintanto che fossero restati nel deserto.

Se Mosè avesse annunziato il dogma dell'immortalità dell'anima, una grande scuola ebraica non l'avrebbe sempre combattuto; quella grande scuola dei sadducei non sarebbe mai stata ammessa nello Stato; i sadducei non avrebbero occupato le più alte cariche; non sarebbero stati tratti, dal loro seno, grandi sacerdoti.

Sembra che solo dopo la fondazione di Alessandria gli ebrei si siano divisi in tre grandi sette: i farisei, i sadducei e gli esseni. Lo storico Giuseppe, che era fariseo, ci fa sapere, nel libro XIII delle sue Antichità, che i farisei credevano nella metempsicosi; i sadducei credevano che l'anima morisse con il corpo; e gli esseni, dice sempre Giuseppe, la consideravano immortale: le anime, secondo loro, scendevano in forma aerea nei corpi, dalla più alta regione dell'aria; esse vi sono riportate da una violenta attrazione e, dopo la morte, quelle che sono appartenute ai buoni dimorano al di là dell'oceano, in un paese dove non c'è né caldo né freddo, né vento né pioggia. Le anime dei malvagi vanno invece in un paese dal clima completamente opposto. Tale era la teologia degli ebrei.

Colui che, solo, doveva istruire tutti gli uomini, condannò tutte e tre quelle sette; ma senza di lui noi non avremmo mai potuto saper niente della nostra anima, poiché i filosofi non ne ebbero mai un'idea precisa, e Mosè, il solo vero legislatore del mondo prima del nostro, Mosè, che parlava faccia a faccia con Dio, lasciò gli uomini in una profonda ignoranza su questo punto capitale. Dunque, solo da millesettecento anni si è certi dell'esistenza dell'anima e della sua immortalità.

Cicerone non aveva che dubbi; suo nipote e sua nipote poterono conoscere la verità dai primi galilei che vennero a Roma.

Ma prima di quel tempo e dopo, in tutto il resto della terra dove gli apostoli non giunsero, ognuno doveva dire alla propria anima: «Chi sei? Da dove vieni? Che fai? Dove vai? Tu sei un non so che, che pensa e sente, e quand'anche tu continuassi a sentire e a pensare per cento milioni di anni, non ne sapresti di più su te stessa, con i tuoi lumi, senza l'aiuto di un Dio.»

O uomo, quel Dio ti ha dato l'intelletto perché tu possa condurti bene, non per penetrare nell'essenza delle cose che ha creato.

È così che ha pensato Locke e, prima di Locke, Gassendi, e prima di Gassendi, un gran numero di saggi; ma noi abbiamo dei baccellieri che sanno tutto ciò che quei grandi uomini ignoravano.

Alcuni crudeli nemici della ragione hanno osato dar contro a queste verità riconosciute da tutti i saggi. Essi hanno spinto la malafede e l'impudenza fino a imputare agli autori di quest'opera la tesi che l'anima è materiale. Ma voi, persecutori dell'innocenza, sapete benissimo che abbiamo detto proprio il contrario.

Sapete bene che in fondo a pagina ..., ci sono queste precise parole contro Epicuro, Democrito e Lucrezio: «Amico mio, come può un atomo, pensare? Confessa che non ne sai niente.» Voi siete, evidentemente, dei calunniatori.

Nessuno sa cos'è l'essere chiamato «spirito», cui anche voi date questo nome materiale, che significa «soffio». Tutti i primi padri della Chiesa credettero che l'anima fosse corporea. È impossibile, a noi esseri limitati, sapere se la nostra intelligenza è una sostanza o una facoltà: noi non possiamo conoscere a fondo né l'essere esteso, né l'essere pensante, né il meccanismo del pensiero.

Noi vi gridiamo, con i rispettabili Gassendi e Locke, che, con tutta la nostra intelligenza, nulla sappiamo dei segreti del Creatore. Siete dunque degli dei, voi che sapete tutto? Vi ripetiamo che possiamo conoscere la natura e la destinazione dell'anima soltanto per mezzo della Rivelazione. Come? Questa non vi basta? È allora evidente che siete nemici di questa rivelazione che noi invochiamo, dato che perseguitate coloro che tutto si attendono da essa e non credono che in essa.

Noi - diciamo - ci rimettiamo alla parola di Dio e voi, nemici della ragione e di Dio, voi che bestemmiate l'una e l'altro, trattate l'umile dubbio e l'umile sottomissione del filosofo come il lupo tratta l'agnello nelle favole di Esopo; voi gli dite: «Tu hai detto male di me, l'anno passato, e io adesso mi bevo il tuo sangue.» Eccola, la vostra condotta. Avete perseguitato la saggezza perché avete creduto che il saggio vi disprezzasse. Avete capito ciò che vi meritavate, e vi siete voluti vendicare. Ma la filosofia non si vendica; se la ride, imperturbabile, dei vostri vani sforzi; essa illumina serena gli uomini, che volete abbrutire per renderli simili a voi.

 

ANTITRINITARI

 

Per far conoscere le loro idee, basterà dire che essi sostengono che nulla è più contrario alla retta ragione di quanto viene insegnato fra i cristiani intorno alla trinità delle persone in una sola essenza divina, delle quali la seconda è generata dalla prima, e la terza procede dalle altre due.

Che questa dottrina inintelligibile non si trova in alcun passo della Scrittura.

Che non è possibile produrne nessun passo che l'autorizzi, e al quale non si possa, senza minimamente scostarsi dallo spirito del testo, dare un significato più chiaro, più naturale, più conforme alle nozioni comuni e alle verità prime e immutabili.

Che il sostenere, come fanno i loro avversari, che nell'essenza divina ci sono più persone distinte, e che l'Eterno non è il solo e vero Dio, ma che bisogna aggiungergli il Figlio e lo Spirito Santo, significa introdurre nella Chiesa di Gesù Cristo l'errore più grossolano e pericoloso, perché così si favorisce apertamente il politeismo.

Che implica contraddizione dire che non c'è che un solo Dio, e tuttavia ci sono tre persone, ciascuna delle quali è veramente Dio.

Che questa distinzione, uno in essenza e trino nelle persone, non c'è mai stata nella Scrittura.

Che essa è manifestamente falsa, perché è certo che non ci sono meno essenze che persone, né meno persone che essenze.

Che le tre persone della Trinità sono o tre sostanze differenti, o accidenti dell'essenza divina, o questa essenza stessa senza distinzione.

Che nel primo caso si ammetterebbero tre dei.

Che nel secondo, facciamo un Dio composto di accidenti, adoriamo degli accidenti, e trasformiamo questi accidenti in persona.

Che nel terzo si divide inutilmente e senza fondamento un soggetto indivisibile e si distingue in tre quel che in sé non è distinto.

Che se diciamo che le tre persone non sono né sostanze diverse nell'essenza divina, né accidenti di tale essenza, faticheremo parecchio a persuaderci che esse siano qualcosa.

Che non bisogna credere che i trinitari più rigidi e decisi abbiano essi stessi qualche idea chiara del modo in cui le tre ipostasi sussistono in Dio, senza dividere la sua sostanza, e per conseguenza senza moltiplicarla.

Che lo stesso sant'Agostino, dopo aver avanzato su questo tema mille ragionamenti tanto falsi quanto tenebrosi, fu obbligato a confessare che, su di esso, nulla si poteva dire d'intelligibile.

Gli antitrinitari riferiscono, poi, anche un passo, in realtà è assai curioso, di quel Padre della Chiesa: «Quando ci si domanda che cosa sono i tre, il linguaggio degli uomini è insufficiente, e mancano i termini per esprimerlo: tuttavia si è detto tre persone non per dire qualcosa, ma perché bisogna parlare e non restare muti. «Dictum est tamen tres personae, non ut aliquid diceretur, sed ne taceretur» (De Trinit., libro V, cap. IX).

Che i teologi moderni non han chiarito meglio questo problema.

Che quando si domanda loro cosa intendono con questa parola «persona», essi non la spiegano se non dicendo che si tratta di una certa distinzione incomprensibile che fa sì che si distingua, in una natura unica per numero, un Padre, un Figlio e uno Spirito Santo.

Che la spiegazione che danno dei termini «generare» e «procedere» non è più soddisfacente, poiché si riduce a dire che questi termini designano certe relazioni incomprensibili fra le tre persone della Trinità.

Che da ciò si può concludere che lo stato della questione fra gli ortodossi e loro consiste nel sapere che ci sono in Dio tre distinzioni, di cui non si ha alcuna idea, e fra le quali ci sono certe relazioni su cui parimenti non si hanno idee.

Da tutto questo concludono che sarebbe più saggio attenersi all'autorità degli apostoli, i quali non nominarono mai la Trinità, e bandire per sempre dalla religione tutti i termini che non si trovano nella Scrittura, come Trinità, Persona, Essenza, Ipostasi, Unione ipostatica e personale, Incarnazione, Generazione, Processione, e tanti altri simili che, essendo assolutamente vuoti di senso, poiché non corrispondono a nessun essere reale rappresentabile, non possono suscitare nella nostra mente che delle nozioni vaghe, oscure e incomplete.

(Tratto in gran parte dalla voce «Unitaire» dell'Encyclopédie)

Aggiungiamo a quest'articolo quel che dice don Calmet nella sua dissertazione su quel passo dell'epistola di Giovanni l'evangelista: «Tre sono le verità che rendono testimonianza in terra: lo Spirito, l'acqua e il sangue; e questi tre sono uno.» Don Calmet riconosce che questi due passi non si trovano in nessuna Bibbia antica; e infatti sarebbe molto strano che san Giovanni avesse parlato della Trinità in una lettera e non ne avesse detto nemmeno una parola nel suo Vangelo. Non si trova traccia di questo dogma né nei vangeli canonici né in quelli apocrifi.

Tutte queste ragioni, e molte altre, potrebbero scusare gli antitrinitari, se i concili non avessero già deciso contro di loro. Ma siccome gli eretici non fanno nessun conto dei concili, non si sa più come fare per confonderli.

 

ANTROPOFAGI

 

Abbiamo parlato dell'amore. È duro passare dalla gente che si bacia a quella che si mangia. Ma è fin troppo vero che ci sono stati degli antropofagi; ne abbiamo trovati in America; forse ce ne sono ancora, e nell'antichità i ciclopi non erano i soli a cibarsi talvolta di carne umana. Giovenale riferisce che presso gli egiziani, quel popolo così saggio, così rinomato per le sue leggi, quel popolo così pio che adorava i coccodrilli e le cipolle, i tintiriti mangiarono uno dei loro nemici caduto nelle loro mani; e non fa questo racconto per sentito dire: fu un delitto commesso quasi sotto i suoi occhi; egli era allora in Egitto e a poca distanza da Tintiro. Giovenale cita, in quest'occasione, i guasconi e i saguntini, che si nutrirono un tempo delle carni dei loro compatrioti.

Nel 1725 quattro selvaggi del Mississippi vennero condotti a Fontainebleau, e io ebbi l'onore di intrattenerli; c'era fra loro una donna di laggiù, alla quale chiesi se avesse mai mangiato uomini: mi rispose con grande ingenuità che ne aveva mangiati. Le sembrai un po' scandalizzato, e lei si scusò dicendo che è meglio mangiare il proprio nemico morto che lasciarlo divorare dagli animali, e che i vincitori meritavano di avere la preferenza. Noi ammazziamo in battaglia, campale o meno, i nostri vicini e per la più misera ricompensa lavoriamo per fornire il pasto a corvi e vermi. Questo è l'orrore, questo il delitto; che importa, quando si è uccisi, se si viene mangiati da un soldato o da un corvo o da un cane?

Noi rispettiamo più i morti che i vivi. Dovremmo rispettare gli uni e gli altri. Le nazioni cosiddette civili hanno avuto ragione a non mettere allo spiedo i loro nemici vinti, perché, se fosse permesso mangiare i propri vicini, non tarderemmo a mangiare i nostri compatrioti; il che sarebbe un grosso inconveniente per le virtù sociali. Ma le nazioni civili non sempre sono state tali; tutti i popoli furono a lungo selvaggi; e nell'infinito numero di rivoluzioni che questo globo ha subito, il genere umano fu ora numeroso, ora assai scarso. È successo degli uomini quello che succede oggi degli elefanti, delle tigri e dei leoni, la cui specie è molto diminuita. Nei tempi in cui una contrada era poco popolata d'uomini, essi avevano poche arti, erano cacciatori. L'abitudine di nutrirsi di quel che avevano ucciso li portò facilmente a trattare i nemici al pari dei loro cervi o dei loro cinghiali. Fu la superstizione a far immolare vittime umane, e la necessità a farle mangiare.

Qual è il delitto più grande: riunirsi piamente per piantare un coltello nel cuore di una giovinetta ornata di bende, in onore della Divinità, o mangiare un soldataccio ucciso per caso?

Tuttavia abbiamo molti più esempi di giovinette e giovani sacrificati che non di giovinette e giovani mangiati: quasi tutti i popoli conosciuti ne sacrificarono. Ne immolarono anche gli ebrei: questo si chiamava l'«anatema»: era un vero e proprio sacrificio, e nel ventinovesimo capitolo del Levitico è prescritto di non risparmiare le anime viventi che siano state consacrate; ma in nessun luogo è prescritto di mangiarle, lo si minaccia soltanto; e Mosè, come abbiamo visto, dice agli ebrei che, se non osserveranno le sue cerimonie, non solamente avranno la rogna, ma le madri mangeranno i propri figli. È vero che ai tempi d'Ezechiele i giudei dovevano avere l'usanza di mangiare carne umana, perché egli predice, nel capitolo XXXIX, che Dio farà loro mangiare non solo i cavalli dei loro nemici, ma anche i cavalieri e i loro guerrieri. Questo è certo. E, d'altra parte, perché gli ebrei non avrebbero dovuto essere antropofagi? Sarebbe stata la sola cosa che mancava al popolo di Dio per essere il più abominevole popolo della terra.

Ho letto in alcuni aneddoti della storia d'Inghilterra dei tempi di Crornwell che una candelaia di Dublino vendeva ottime candele fatte con il grasso degli inglesi. Qualche tempo dopo uno dei suoi clienti si lamentò con lei perché le sue candele non erano più così buone. «Ahimè!» rispose quella, «il fatto è che questo mese ci sono venuti a mancare gli inglesi.» Io mi domando chi era più colpevole: se quelli che sgozzavano gli inglesi o questa donna che con il loro grasso faceva candele.

 

API

 

Il bue Api era adorato a Menfi come dio, come simbolo o come bue? C'è da credere che i fanatici vedessero in lui un dio, i saggi un semplice simbolo e che il popolo ignorante adorasse il bue. Fece bene Cambise, quando, conquistato l'Egitto, l'uccise di sua mano? E perché no? Fece così vedere agli imbecilli che si poteva mettere il loro dio allo spiedo, senza che la natura si scatenasse a vendicare tale sacrilegio. Gli egiziani sono stati molto celebrati. Io non conosco popolo più spregevole; deve esserci sempre stato nel loro carattere e nel loro governo un vizio radicale che ne ha fatti sempre dei vili schiavi. Ammetto che in tempi a noi quasi ignoti essi abbiano conquistato la terra; ma, nei tempi storici, essi furono soggiogati da tutti coloro che se ne vollero prendere la briga: dagli assiri, dai persi, dai greci, dai romani, dagli arabi, dai mamelucchi, dai turchi, da quasi tutti insomma, meno che dai nostri crociati, giacché questi erano più malaccorti di quanto gli egiziani fossero vili. Fu la milizia dei mamelucchi a battere i francesi. In questa nazione non ci sono forse che due cose passabili: la prima, che coloro che adoravano un bue non vollero mai obbligare quelli che adoravano una scimmia a cambiare religione; la seconda, che hanno sempre covato le uova di gallina nei forni.

Si vantano le loro piramidi, ma sono monumenti di un popolo di schiavi. Certo fu necessario farvi lavorare l'intera nazione: altrimenti non si sarebbe mai riusciti ad innalzare quelle rozze moli. E a che servivano, poi? A conservarvi in una celletta la mummia di qualche principe o governatore o intendente, che la sua anima avrebbe fatto rivivere dopo mille anni. Ma, se speravano in questa resurrezione dei corpi, perché togliergli il cervello prima d'imbalsamarli? Dovevan risuscitare senza cervello, gli egiziani?

 

APOCALISSE

 

Giustino martire, che scriveva verso l'anno 170 della nostra era, è il primo che abbia parlato dell'Apocalisse; egli l'attribuisce all'apostolo Giovanni, l'evangelista: nel suo dialogo con Trifone, questo ebreo gli domanda se non crede che Gerusalemme debba, un giorno, essere ricostruita.

Giustino risponde che lo crede, insieme a tutti i cristiani che pensano rettamente. «Ci fu tra noi, un certo personaggio chiamato Giovanni, uno dei dodici apostoli di Gesù; egli predisse che i fedeli passeranno mille anni in Gerusalemme.» Questa, del regno di mille anni, fu un'opinione a lungo accreditata fra i cristiani. Tale periodo di tempo era in gran credito anche fra i gentili. Le anime degli egiziani riprendevano i loro corpi dopo mille anni; le anime del purgatorio, in Virgilio, venivano tormentate per lo stesso spazio di tempo, et mille per annos. La nuova Gerusalemme millenaria doveva avere dodici porte, in memoria dei dodici apostoli; la sua forma doveva essere quadrata; la sua lunghezza, la sua larghezza e la sua altezza dovevano essere di dodicimila stadi, ossia di cinquecento leghe, di modo che le case dovevano avere anch'esse un'altezza di cinquecento leghe. Sarebbe stato piuttosto scomodo abitare all'ultimo piano; ma, che volete, così dice l'Apocalisse nel capitolo XXI.

Se Giustino fu il primo ad attribuire l'Apocalisse a san Giovanni, taluni hanno rifiutato la sua testimonianza, perché in quello stesso dialogo con l'ebreo Trifone, Giustino dice che secondo il racconto degli apostoli, Gesù Cristo scendendo nel Giordano, ne fece ribollire le acque e le infiammò: il che però non si ritrova in nessuno scritto degli apostoli.

Lo stesso san Giustino cita fiduciosamente gli oracoli delle Sibille; in più, pretende di aver visto i resti delle celle dove, nel faro d'Egitto, furono rinchiusi i settantadue interpreti, ai tempi di Erode. La testimonianza di uno che ebbe la sventura di vedere quelle celle sembra indicare che l'autore dovette esservi rinchiuso.

Sant'Ireneo, che viene dopo, e che credeva anche lui nel regno di mille anni, dice di aver saputo da un vegliardo che l'autore dell'Apocalisse era san Giovanni. Ma a sant'Ireneo fu rimproverato di aver scritto che non ci devono essere più di quattro Vangeli, perché non ci sono solo che quattro parti del mondo e quattro punti cardinali, e perché Ezechiele non vide che quattro animali. Egli chiama questo ragionamento una «dimostrazione». Bisogna ammettere che il modo con cui Ireneo dimostra equivale a quello con cui Giustino ha veduto.

Clemente d'Alessandria, nei suoi Electa, parla soltanto di un'Apocalisse di san Pietro, di cui si faceva grandissimo conto. Tertulliano, uno dei più accesi sostenitori del regno di mille anni, non solo assicura che san Giovanni predisse questa resurrezione e questo regno di mille anni della città di Gerusalemme, ma pretende che questa Gerusalemme cominciava già a formarsi nell'aria; che tutti i cristiani della Palestina, e anche i pagani, l'avevan vista quaranta giorni di fila, ad ogni finir della notte; disgraziatamente la città dileguava, appena spuntava il giorno.

Origene, nella sua prefazione al Vangelo di san Giovanni, e nelle sue Omelie, cita gli oracoli dell'Apocalisse; e cita egualmente gli oracoli delle Sibille. Ma san Dionigi di Alessandria, che scriveva verso la metà del III secolo, dice, in uno dei suoi frammenti conservati da Eusebio, che quasi tutti i dottori respingevano l'Apocalisse come un libro del tutto privo di senso; che questo libro non è stato affatto scritto da san Giovanni ma da un tal Cerinto, il quale si era servito di un gran nome per dare maggior peso alle sue fantasie.

Il concilio di Laodicea, tenuto nel 360, non comprese affatto l'Apocalisse fra i libri canonici. È ben curioso che Laodicea, una delle chiese cui l'Apocalisse si rivolgeva, respingesse un tesoro ad essa destinato; e che il vescovo di Efeso, presente al concilio, respingesse anche lui questo libro di san Giovanni, sepolto in Efeso.

Era visibile a tutti che san Giovanni si rivoltava di continuo nella sua fossa, facendo di continuo sollevare e abbassare la terra. Pure, gli stessi personaggi che erano sicuri che san Giovanni non fosse morto, erano altrettanto sicuri che egli non aveva scritto l'Apocalisse. Ma quelli che credevano nel regno di mille anni furono inflessibili nella loro opinione. Sulpicio Severo, nella sua Storia sacra, libro IX, tratta da empi e insensati coloro che non riconoscevano l'Apocalisse. E infine, dopo molti dubbi, dopo opposizioni perpetuatesi di concilio in concilio, l'opinione di Sulpicio Severo prevalse. Chiarita la questione, la Chiesa decise che l'Apocalisse è incontestabilmente di san Giovanni: decisione inappellabile.

Ogni confessione cristiana s'è attribuita le profezie contenute in questo libro: gli inglesi vi hanno trovato le rivoluzioni della Gran Bretagna; i luterani, i disordini della Germania; i riformati di Francia, il regno di Carlo IX e la reggenza di Caterina de' Medici: e tutti hanno egualmente ragione. Bossuet e Newton commentarono entrambi l'Apocalisse; ma, tutto sommato, le eloquenti declamazioni dell'uno e le sublimi scoperte dell'altro han fatto loro più onore che non quei commentari.

 

ARIO

 

Ecco un problema incomprensibile che ha messo alla prova, per più di sedici anni, la curiosità, la sottigliezza sofistica, l'acredine, lo spirito d'intrigo, la bramosia del dominio, il furore di persecuzione, il fanatismo cieco e sanguinario, la barbara credulità, e che ha provocato più orrori che non l'ambizione dei principi, la quale ne ha pur provocati tantissimi. Gesù è il Verbo? E se è il Verbo, è emanato da Dio nel tempo o prima del tempo? E se è emanato da Dio, è coeterno e consustanziale con lui, o è di una sostanza simile? È distinto da lui o no? È creato o generato? Può generare a sua volta? Ha la paternità o la virtù produttiva senza paternità? E lo Spirito Santo, è creato o generato, o prodotto o procedente dal Padre o procedente dal Figlio, o procedente da tutti e due? Può generare, può produrre? E la sua ipostasi è consustanziale con l'ipostasi del Padre e del Figlio? E in qual modo, avendo precisamente la stessa natura e la stessa essenza del Padre e del Figlio, può non fare le stesse cose di quelle due persone, che sono lui stesso?

Io non ci capisco assolutamente niente; nessuno ci ha mai capito niente: e questa è la ragione per la quale ci si è scannati.

Si sofisticò, si disquisì, ci si odiò, ci si scomunicò fra cristiani per qualcuno di questi dogmi inaccessibili all'intelletto umano, prima dei tempi d'Ario e d'Atanasio. I greci d'Egitto erano gente assai abile, capace di spaccare un capello in quattro; ma questa volta lo spaccarono soltanto in tre. Alessandro, vescovo di Alessandria, ritenne di dover predicare che, essendo Dio necessariamente individuale, semplice, una monade in tutto il rigore della parola, questa monade è trina.

Il prete Arios o Arius, che noi chiamiamo Ario, restò scandalizzato dalla monade di Alessandro; egli spiega la cosa in modo diverso; ragiona, in parte, come il prete Sabellio, che aveva ragionato a sua volta come il frigio Prassea, grande loico. Alessandro riunisce in fretta un piccolo concilio di gente della sua opinione, e scomunica il prete Ario. Eusebio, vescovo di Nicomedia, prende le difese di Ario: ecco così tutta la Chiesa in fiamme.

L'imperatore Costantino era uno scellerato, lo ammetto, un parricida che aveva soffocato la moglie in un bagno, sgozzato il figlio, assassinato il suocero, il cognato e il nipote, non lo nego; un uomo gonfio d'orgoglio e immerso nei piaceri, lo concedo; un odioso tiranno, come i suoi figli, transeat; ma non era privo di buon senso. Non si arriva all'impero, non si sottomettono tutti i rivali se non si sa ragionare.

Quando vide accendersi quella guerra civile di cervelli scolastici egli inviò, alle due parti belligeranti, il celebre vescovo Osio con lettere dissuasorie: «Siete dei gran pazzi,» dice loro senza ambagi nella sua lettera, «a litigare per cose che non capite. È indegno della gravità dei vostri ministeri fare tanto chiasso per una questione così poco importante.»

Per «questione così poco importante» Costantino non intendeva alludere al tema della Divinità, ma al modo incomprensibile con cui ci si sforzava di spiegarne la natura. Il patriarca arabo che scrisse la Storia della Chiesa d'Alessandria fa parlare così Osio, mentre presenta la lettera dell'imperatore:

«Fratelli miei, il cristianesimo comincia appena a godere della pace, e voi volete travolgerlo in una eterna discordia. L'imperatore ha fin troppa ragione di dirvi che voi litigate per una questione "così poco importante". Certo, se l'oggetto della disputa fosse essenziale, Gesù Cristo, che tutti riconosciamo per nostro legislatore, ne avrebbe parlato: Dio non avrebbe mandato suo figlio sulla terra per non farci conoscere il nostro catechismo. Tutto quel che non ci ha detto in modo esplicito è opera degli uomini, e l'errore è il retaggio. Gesù vi ha comandato di amarvi, e voi cominciate col disobbedirgli odiandovi, e suscitando la discordia nell'impero. È solo l'orgoglio che genera le dispute, e Gesù, vostro signore, vi ha comandato d'essere umili. Nessuno di voi può sapere se Gesù fu creato o generato. E che v'importa della sua natura, purché la vostra sia d'essere giusti e ragionevoli? Che cos'ha di comune una vana scienza di parole con la morale che deve guidare le vostre azioni? Voi sovraccaricate la dottrina di misteri: voi che siete stati creati per confermare la religione con la virtù. Volete che la religione cristiana sia soltanto un ammasso di sofismi? È per questo che il Cristo è venuto sulla terra? Finitela di disputare: adorate, edificate, umiliatevi, nutrite i poveri, placate le discordie nelle famiglie, invece di scandalizzare tutto l'impero con le vostre discordie.»

Osio parlava a dei cocciuti. Si riunì il concilio di Nicea, e nell'impero romano ci fu una guerra civile di trecento anni. Quella guerra ne provocò altre, e di secolo in secolo, fino ai giorni nostri, ci si è perseguitati a vicenda.

 

ATEO, ATEISMO

 

I

In passato, chiunque possedesse un segreto in un'arte correva il rischio d'esser considerato uno stregone; ogni nuova setta era accusata di sgozzare i bambini nei suoi misteri; e qualsiasi filosofo non osservasse alla lettera il gergo delle scuole era accusato d'ateismo dai fanatici e dai cialtroni e condannato dagli sciocchi.

Anassagora osa pretendere che a guidare il sole non è Apollo dall'alto di una quadriglia? Lo chiamano ateo, ed è costretto a fuggire.

Aristotele viene accusato d'ateismo da un sacerdote e, non potendo far condannare il suo accusatore, si ritira a Calcide. Ma la morte di Socrate è quanto la storia della Grecia ha di più odioso.

Aristofane (quell'uomo che i commentatori ammirano perché era greco, senza pensare che era greco anche Socrate), Aristofane fu il primo che abituò gli ateniesi a considerare Socrate un ateo.

Da noi questo poeta comico, che non è né comico né poeta, non sarebbe stato ammesso a rappresentar farse nemmeno alla fiera di Saint-Laurent; mi sembra molto più volgare e spregevole di quanto non lo dipinga Plutarco. Ecco ciò che il saggio Plutarco dice di questo buffone: «Il linguaggio di Aristofane è quello di un miserabile ciarlatano: tutto battute oscene e ributtanti; non è nemmeno divertente per il volgo, ed è insopportabile per l'uomo di giudizio e d'onore; la sua arroganza è intollerabile, e la sua malignità detestata dalla gente perbene.»

Questo è dunque, sia detto di passata, il guitto che madame Dacier, ammiratrice di Socrate, non si vergogna di ammirare; è questo l'uomo che preparò di lontano il veleno con cui giudici infami fecero morire l'uomo più virtuoso della Grecia.

I conciapelli, i calzolai e le sarte di Atene applaudirono una farsa in cui si rappresentava Socrate che, sollevato in aria dentro un paniere, annunciava che non c'era nessun dio e si vantava d'aver rubato un mantello insegnando filosofia. Un popolo intero, il cui cattivo governo autorizzava licenze tanto infami, si meritava proprio quel che gli è accaduto, di finire schiavo dei romani, e di esserlo oggi dei turchi.

Saltiamo tutto il tempo che intercorre tra la repubblica romana e noi. I romani, assai più saggi dei greci, non hanno mai perseguitato nessun filosofo per le sue idee. Non fu così presso i popoli barbari succeduti all'impero romano. Non appena l'imperatore Federico II si mise a disputare con i papi, lo si accusò di essere ateo, e per di più autore, insieme al suo cancelliere Pier delle Vigne, del libro I tre impostori.

Il nostro gran cancelliere dell'Hospital si dichiara contro le persecuzioni, ed ecco che subito lo accusano di ateismo. «Homo doctus, sed verus atheos.» Un gesuita tanto al disotto di Aristofane quanto Aristofane è al disotto di Omero, un disgraziato il cui nome è diventato ridicolo persino tra i fanatici, in breve il gesuita Garasse, scopre ovunque degli «ateisti»: così chiama tutti coloro contro i quali si scatena. Garasse chiama «ateista» Teodoro di Beza; è lui che ha indotto in errore la gente su Vanini.

La misera fine di Vanini non ci muove a sdegno e pietà come quella di Socrate, perché Vanini non era che un pedante forestiero privo di meriti; ma non era affatto un ateo, come si è voluto far credere; anzi, era esattamente il contrario. Era un povero prete napoletano, predicatore e teologo di professione, portato a disputare all'eccesso sulle quiddità e sugli universali, «et utrum chimera bombinans in vacuo possit comedere secundas intentiones», ma nel quale non c'era nessuna tendenza all'ateismo. Il suo concetto di Dio si ispirava alla teologia più sana e accreditata: «Dio è principio e fine di se stesso, padre dell'una e dell'altra cosa, e niente affatto bisognoso né dell'una né dell'altra; eterno senza essere nel tempo, presente dappertutto, senza essere in nessun luogo. Non c'è per lui né passato né futuro; è dappertutto e fuori di tutto, tutto governa, tutto ha creato, immutabile e indivisibile; il suo potere è la sua volontà ecc.»

Vanini ambiva a rinnovare quella bella intuizione di Platone, accolta poi da Averroé, che Dio avrebbe creato una catena di esseri, dal più piccolo al più grande, il cui ultimo anello sarebbe congiunto al suo trono eterno; idea, in verità più sublime che vera, ma tanto lontana dall'ateismo quanto l'essere dal nulla.

Egli si mise a viaggiare per far fortuna e disputare; ma disgraziatamente il disputare è la via opposta a quella del fare fortuna; ci si fa tanti nemici mortali quanti sono i sapienti o i pedanti contro i quali si disputa. Ecco la fonte delle disgrazie di Vanini: il suo ardore e la sua rudezza nel disputare gli attirarono l'odio di alcuni teologi; ed essendo venuto a lite con un certo Francon o Franconi, costui, amico dei suoi nemici, non mancò di accusarlo d'essere ateo e di insegnare l'ateismo.

Questo Francon o Franconi, con l'appoggio di qualche testimone, ebbe la barbarie di sostenere, in giudizio, l'accusa. Vanini, sul banco degli imputati, interrogato su quel che pensasse dell'esistenza di Dio, rispose che adorava, con la Chiesa, un Dio in tre persone. Raccolta da terra una pagliuzza, disse: «Basta questa festuca a provare che esiste un creatore.» E pronunciò un bellissimo discorso sulla vegetazione e sul moto e sulla necessità di un Essere supremo, senza il quale non ci sarebbe né moto né vegetazione.

Il presidente Grammont, che si trovava allora a Tolosa, riferisce questo discorso nella sua Storia di Francia, oggi così dimenticata; e questo stesso Grammont, per un preconcetto inconcepibile, osa dire che Vanini disse tutto ciò «per vanità o per paura, piuttosto che per intima convinzione».

Su che cosa si può fondare questo giudizio temerario e atroce del presidente Grammont? E evidente che, dopo la sua risposta, Vanini doveva venir assolto dall'accusa di ateismo. Ma che accadde, invece? Questo disgraziato prete straniero si occupava anche di medicina: si trovò un grosso rospo vivo, che conservava in casa sua in un vaso pieno d'acqua; e così non si mancò di accusarlo di stregoneria. Si sostenne che quel rospo era il dio che adorava; si attribuì un significato empio a molti passaggi dei suoi libri - la qual cosa è assai facile e comune - scambiando le obiezioni per affermazioni e interpretando malignamente qualche frase ambigua, avvelenando qualche espressione innocente. Infine, la fazione che lo perseguitava strappò ai giudici la sentenza che condannò l'infelice a morte.

Per giustificare questa morte bisognava accusare il disgraziato dei più orrendi crimini. Il minimo e minimissimo Mersenne spinse la demenza fino a far stampare che Vanini «era partito da Napoli con dodici dei suoi apostoli, per andare a convertire tutte le nazioni all'ateismo». Che miseria! E come avrebbe potuto avere, un povero prete, dodici persone alle sue dipendenze? Come avrebbe potuto convincere dodici napoletani a viaggiare insieme a lui con grande spesa per recarsi a diffondere dappertutto quell'abominevole e rivoltante dottrina, a rischio della vita? Un re sarebbe abbastanza potente da pagare dodici predicatori d'ateismo? Nessuno, prima del padre Mersenne, aveva mai detto una simile assurdità. Ma, dopo di lui, la si è ripetuta, se ne appestarono i giornali, i dizionari storici; e la gente, che ama le cose incredibili, ha creduto ad occhi chiusi a questa favola.

Lo stesso Bayle, nelle sue Oeuvres diverses, parla di Vanini come di un ateo: si serve di questo esempio per sostenere il suo paradosso «che una società d'atei può sussistere». Egli assicura che Vanini era un uomo di ottimi costumi, e che fu il martire della propria opinione filosofica. Ma si inganna su entrambi i punti; il prete Vanini ci confessa nei suoi Dialoghi, fatti a imitazione di Erasmo, di aver avuto un'amante di nome Isabella. Egli era libero nella sua condotta, come nei suoi scritti, ma non era ateo.

Un secolo dopo la sua morte, il dotto La Croze e colui che prese il nome di Filalete, tentarono di giustificarlo; ma siccome nessuno si interessa della memoria di un disgraziato napoletano, pessimo scrittore, quasi nessuno ha letto quelle apologie.

Il gesuita Hardouin, più dotto di Garasse, e non meno temerario, accusa di ateismo, nel suo libro Athei detecti, uomini come Descartes, Arnauld, Pascal, Nicole, Malebranche: fortunatamente, costoro non subirono la stessa sorte di Vanini.

Passo al problema morale agitato da Bayle, e cioè se una società d'atei possa sussistere. Notiamo prima di tutto, a questo punto, in quali enormi contraddizioni gli uomini possano incorrere disputando in proposito: coloro che sono insorti con maggiore veemenza contro l'opinione di Bayle, che hanno negato con le più aspre ingiurie la possibilità di una società d'atei, hanno poi sostenuto con altrettanta decisione che l'ateismo è la religione di governo in Cina.

Certo han preso un bell'abbaglio riguardo al governo cinese; bastava che leggessero gli editti degli imperatori di questo immenso paese, e avrebbero visto che quegli editti sono dei sermoni, e che dovunque si parla dell'Essere supremo, governatore, vendicatore e remuneratore.

Ma al tempo stesso non si sono meno ingannati sull'impossibilità di una società di atei, e non so come Bayle abbia potuto non ricordarsi di un esempio sbalorditivo che avrebbe potuto rendere vittoriosa la sua causa.

Per quale motivo sembra impossibile una società di atei? Perché si reputa impossibile che uomini che non abbiano freni non potrebbero mai vivere insieme; che niente possono le leggi contro i delitti segreti; che è indispensabile un Dio vendicatore che punisca in questo o nell'altro mondo i malvagi sfuggiti alla giustizia umana.

È vero che le leggi di Mosè non parlavano affatto di una vita futura, non minacciavano pene dopo la morte, non insegnavano ai primi ebrei l'immortalità dell'anima; però gli ebrei, lungi dall'essere atei, lungi dal credere di potersi sottrarre alla vendetta divina, erano gli uomini più religiosi della terra. Non solo credevano all'esistenza di un Dio eterno ma lo credevano sempre presente tra loro; tremavano d'essere puniti in loro stessi, nelle loro mogli, nei loro figli, nei loro discendenti, fino alla quarta generazione, e questo freno era potentissimo.

Ma presso i gentili molte sette non avevano alcun freno; gli scettici dubitavano di tutto; gli accademici sospendevano il giudizio su tutto; gli epicurei erano persuasi che la divinità non potesse immischiarsi nelle faccende degli uomini e, in fondo, non ammettevano alcuna divinità. Erano convinti che l'anima non è una sostanza ma una facoltà che nasce e muore con il corpo: di conseguenza, non avevano altro giogo che quello della morale e dell'onore. I senatori e i cavalieri romani erano autentici atei, perché gli dei non esistevano per uomini che non temevano né speravano niente da loro. Il senato romano era dunque realmente un'assemblea di atei al tempo di Cesare e di Cicerone.

Questo grande oratore, nella sua arringa in difesa di Cluenzio, dice a tutto il senato riunito: «Che male gli fa la morte? Noi respingiamo tutte le assurde favole sugli Inferi. Che cosa dunque gli ha tolto la morte? Nient'altro che il sentimento dei dolori.»

E Cesare, l'amico di Catilina, volendo salvare contro lo stesso Cicerone la vita del suo amico, non gli obietta che far morire un criminale non è punirlo, che la morte non è niente, è soltanto la fine dei nostri mali, è un momento più felice che fatale? E Cicerone e tutto il senato non si arrendono forse a queste ragioni? I vincitori e i legislatori dell'universo conosciuto formavano dunque, in modo evidente, una società d'uomini che non temevano niente dagli dei, che erano degli autentici atei.

Bayle esamina poi se l'idolatria sia più pericolosa dell'ateismo; se sia un delitto più grande non credere alla divinità che avere su di essa opinioni indegne: in questo è dello stesso parere di Plutarco: crede che sia meglio non avere nessuna opinione piuttosto che una cattiva opinione; ma, non dispiaccia a Plutarco, è evidente che era infinitamente meglio per i greci temere Cerere, Nettuno e Giove che non temere niente del tutto. È chiaro che la santità dei giuramenti è necessaria, e che bisogna fidarsi maggiormente di chi pensa che un giuramento falso sarà punito, che non di chi pensa di poter fare, impunito, un falso giuramento. È indubitabile che, in una società civile, è infinitamente più utile avere una religione (anche cattiva) che non averne nessuna.

Sembra dunque che Bayle avrebbe dovuto piuttosto esaminare se sia più pericoloso il fanatismo o l'ateismo. Il fanatismo è indubbiamente mille volte più funesto, perché l'ateismo non ispira passioni sanguinarie, ma il fanatismo ne ispira; l'ateismo non si oppone al crimini, ma il fanatismo porta a commetterli. Supponiamo, con l'autore del Commentarium rerum Gallicarum, che il cancelliere dell'Hospital non fece altro che leggi sagge, non consigliò altro che la moderazione e la concordia; i fanatici commisero le stragi della notte di San Bartolomeo. Hobbes passò per ateo: condusse una vita tranquilla e morigerata; i fanatici del suo tempo inondarono di sangue l'Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda. Spinoza non solo era ateo, ma insegnò l'ateismo; non fu certamente lui a prender parte all'assassinio giuridico di Barneveldt; non fu lui a fare a pezzi i due fratelli De Witt e a mangiarseli arrosto.

Gli atei sono per lo più studiosi arditi e fuorviati che ragionano male e che, non riuscendo a comprendere la creazione, l'origine del male, e altre difficoltà, ricorrono all'ipotesi dell'eternità delle cose e della necessità.

Gli ambiziosi, i viziosi, non hanno tempo di ragionare e di abbracciare un cattivo sistema: hanno altro da pensare che far confronti tra Lucrezio e Socrate. Così vanno le cose tra noi.

Non andavano così nel senato di Roma, quasi tutto composto di atei per teoria e pratica, ossia di gente che non credeva né alla provvidenza, né alla vita futura: quel senato era un'assemblea di filosofi, di dissoluti e di ambiziosi, tutti pericolosissimi, che portarono allo sfacelo la repubblica. L'epicureismo continuò a sussistere sotto l'impero: gli atei del senato erano stati dei faziosi, ai tempi di Silla e di Cesare; sotto Augusto e Tiberio, furono degli atei schiavi.

Io non vorrei avere a che fare con un principe ateo che avesse il suo interesse a farmi pestare in un mortaio: sono sicurissimo che sarei pestato. Non vorrei, se fossi un sovrano, avere a che fare con dei cortigiani atei, che avessero interesse ad avvelenarmi: mi sentirei costretto a prendere del contravveleno tutti i giorni. È dunque assolutamente necessario, per i principi e per i popoli, che l'idea di un Essere supremo, creatore, reggitore, remuneratore e vendicatore, sia profondamente radicata negli animi.

Ci sono dei popoli atei, dice Bayle nelle sue Pensées sur les comètes. I cafri, gli ottentotti, i tupinamba e molti altri piccoli popoli non hanno nessun dio; questo può essere; non ne negano né ne affermano l'esistenza; è che non ne hanno mai sentito parlare. Dite loro che ce n'è uno, lo crederanno facilmente; dite loro che tutto accade in virtù della natura delle cose, vi crederanno ugualmente. Dire che sono atei è come accusarli d'essere anticartesiani; non sono né pro né contro Descartes. Sono dei veri bambini; un bambino non è né ateo ne deista: non è niente.

Che conclusione trarremo da tutto questo? Che l'ateismo è un mostro assai pericoloso in coloro che governano; che lo è anche nelle persone colte, anche se la loro vita è innocente, perché dal loro scrittoio essi possono arrivare fino a coloro che vivono in piazza; che, se non è funesto quanto il fanatismo, è però quasi sempre fatale alla virtù. Aggiungiamo soprattutto che oggi ci sono meno atei di quanti ce ne siano mai stati, da quando i filosofi hanno riconosciuto che non c'è alcun essere vegetale senza un germe, nessun germe senza uno scopo, e che il grano non nasce dalla putredine.

Alcuni geometri non filosofi hanno respinto le cause finali, ma i veri filosofi le ammettono; e come ha detto un noto scrittore, un catechista annuncia Dio ai pargoli, e Newton lo dimostra ai saggi.

II

Ma se vi sono degli atei, con chi prendersela se non con quei tiranni mercenari delle anime, che, costringendoci a ribellarci contro le loro nefandezze, forzano gli spiriti deboli a negare il Dio che quei mostri disonorano? Quante volte le sanguisughe di un popolo hanno portato i cittadini oppressi a rivoltarsi contro il loro re?

Certi uomini, ingrassati con i nostri averi, ci gridano: «Mettetevi in testa che un'asina ha parlato; credete che un pesce ha inghiottito un uomo e lo ha vomitato, tre giorni dopo, sano e gagliardo, sulla riva; non dubitate che il Dio dell'universo abbia ordinato a un profeta ebreo di mangiare della merda (Ezechiele) e a un altro profeta di comperare due puttane e di far con loro dei figli di puttana (Osea) (sono le precise parole che vengon fatte pronunziare dal Dio di verità e di purezza); credete a cento cose evidentemente abominevoli o matematicamente impossibili: altrimenti, il Dio di misericordia vi brucerà non solo per milioni di miliardi di secoli nel fuoco infernale, ma per tutta l'eternità, sia che abbiate un corpo, sia che non l'abbiate.»

Queste inconcepibili idiozie rivoltano tanto le menti deboli e temerarie, quanto gli spiriti fermi e saggi. Essi dicono: «I nostri maestri ci dipingono Dio come il più insensato e il più barbaro di tutti gli esseri; dunque, Dio non esiste!» Mentre dovrebbero dire: «Questi nostri maestri attribuiscono a Dio le loro assurdità e i loro furori; dunque, Dio è il contrario di quello che essi annunciano, dunque Dio è tanto saggio e buono quanto costoro lo dicono pazzo e malvagio.» Così parlano i saggi. Ma se un fanatico li ode, li denuncia al braccio secolare, e questo li fa bruciare a fuoco lento, credendo così di vendicare e imitare la maestà divina ch'egli oltraggia.

 

 


Ultima modifica 12.01.2009