Voltaire

Dizionario Filosofico

 

L

 

 

 

 

LEGGI
LETTERE
LETTERATI
LIBERTA'
LIBERTA'
DI PENSIERO
LUSSO

 

 

 

 

LEGGI (DELLE)

 

I

Al tempo di Vespasiano e di Tito, mentre i romani sventravano i giudei, un israelita molto ricco, che non voleva essere sventrato, fuggì portandosi via tutto l'oro che aveva guadagnato con il suo mestiere d'usuraio, e condusse verso Esion Gheber tutta la sua famiglia, composta della vecchia moglie, di un figlio e di una figlia. Aveva al suo seguito due eunuchi, uno dei quali gli serviva da cuoco, e l'altro era zappatore e vignaiolo. Un buon esseno, che sapeva a memoria il Pentateuco, gli faceva da elemosiniere. Costoro s'imbarcarono nel porto di Esion Gheber, attraversarono il mare chiamato Rosso e che non è per niente tale, ed entrarono nel golfo Persico, per andare a cercare la terra di Ofir, senza sapere dove fosse. Ed ecco abbattersi una terribile tempesta che spinse la famiglia ebraica verso le coste delle Indie; il vascello fece naufragio presso una delle isole Maldive, oggi chiamata Padrabranca, che era a quel tempo deserta.

Il vecchio riccone e la vecchia annegarono; il figlio, la figlia, i due eunuchi e l'elemosiniere si salvarono: trassero come poterono qualche provvista dal vascello, costruirono delle capannucce nell'isola, e qui vissero abbastanza comodamente. Sapete come l'isola di Padrabranca sia situata a cinque gradi dall'equatore, e come vi si trovino le più grosse noci di cocco e i migliori ananas del mondo; era dolce viverci al tempo in cui altrove si sgozzava il resto della nazione diletta, ma l'esseno piangeva pensando che forse non restavano più altri ebrei sulla terra, e che il seme di Abramo si sarebbe estinto.

«Sta in voi risuscitarlo,» disse il giovane ebreo: «sposate mia sorella» «Lo farei volentieri,» disse l'elemosiniere, «ma la legge vi si oppone. Sono esseno, ho fatto voto di non sposarmi; la legge esige che si adempiano i propri voti; s'estingua pure la razza ebrea, ma certo io non sposerò vostra sorella, per quanto graziosa sia.»

«I miei due eunuchi non possono darle dei figli,» riprese l'ebreo; «perciò gliene darò io, se vi sta bene, e sarete voi a benedire il matrimonio.»

«Preferirei mille volte essere sventrato dai soldati romani,» disse l'elemosiniere, «che autorizzarvi a commettere un incesto; fosse almeno vostra sorella da parte di padre, passi ancora, la legge lo permette; ma è vostra sorella da parte di madre, e ciò è abominevole.»

«Capisco,» disse il giovane, «che sarebbe un delitto a Gerusalemme, dove potrei trovare altre ragazze; ma nell'isola di Padrabranca, dove non vedo altro che noci di cocco, ananas e ostriche, credo che la cosa sia più che permessa.»

L'ebreo, nonostante le proteste dell'esseno sposò dunque la sorella, e ne ebbe una figlia: fu l'unico frutto di un matrimonio che l'uno reputava legittimo e l'altro abominevole.

In capo a quattordici anni, la madre morì; il padre disse all'elemosiniere: «Vi siete finalmente sbarazzato dei vostri vecchi pregiudizi? Volete sposare mia figlia?» «Dio mi guardi!» disse l'esseno. «Ebbene, allora la sposerò io,» disse il padre, «e avvenga quel che può; ma io non voglio che il seme d'Abramo sia annientato.» L'esseno, spaventato da questo orribile proposito, non volle più restare con un uomo che trasgrediva tanto la legge, e fuggì. Il novello sposo aveva un bel gridargli: «Restate, amico mio; osservo la legge naturale, servo la patria, non abbandonate i vostri amici.» L'altro lo lasciava gridare, ossessionato dalla legge, e fuggì a nuoto nell'isola vicina.

Era la grande isola d'Attolo molto popolosa e molto civile; non appena vi approdò, lo fecero schiavo. Imparò a balbettare la lingua attolica; si lamentava amaramente del modo inospitale con cui l'avevano ricevuto; gli dissero che quella era la legge, e che, da quando l'isola era stata sul punto d'essere sorpresa dagli abitanti di Adà, si era saggiamente decretato che tutti gli stranieri che fossero approdati in Attolia venissero fatti schiavi. «Non può essere una legge,» disse l'esseno «perché non è nel Pentateuco.» Gli risposero che però era nel Digesto del paese, e così restò schiavo: per sua fortuna, aveva un ottimo e ricchissimo padrone, che lo trattò bene, e al quale si affezionò molto.

Un giorno degli assassini vennero per uccidere il padrone e rubare i suoi tesori; chiesero agli schiavi se il padrone era in casa, e se aveva molto denaro. «Vi giuriamo,» dissero gli schiavi, «che non ha un soldo, e che non è in casa.» Ma l'esseno disse: «La legge non permette di mentire; vi giuro che è in casa, e che ha un sacco di soldi.» E così il padrone fu ucciso e derubato. Gli schiavi accusarono l'esseno davanti ai giudici di aver tradito il padrone; l'esseno disse che non voleva mentire, e che non avrebbe mentito per niente al mondo; e fu impiccato.

Mi raccontavano questa storia, e molte altre, nell'ultimo viaggio che feci dall'India in Francia. Arrivato, andai a Versailles per certi miei affari; vidi passare una bella donna seguita da molte altre bellezze. «Chi è quella bella donna?» chiesi al mio avvocato in parlamento, che era venuto con me: perché avevo un processo in parlamento a Parigi per gli abiti che m'ero fatto fare nelle Indie, e volevo avere sempre a fianco il mio avvocato. «È la figlia del re,» disse; «è incantevole e di ottimo cuore; peccato che in nessun caso possa diventare regina di Francia.» «Come!» gli dissi, «se le toccasse la disgrazia di perdere tutti i suoi parenti e i principi del sangue (Dio non voglia!), essa non potrebbe ereditare il regno del padre!» «No,» disse l'avvocato, «la legge salica vi si oppone formalmente.» «E chi ha fatto questa legge salica?» chiesi all'avvocato. «Non ne so niente: ma si pretende che presso un antico popolo, detto dei sali, che non sapevano né leggere né scrivere, esistesse una legge scritta la quale diceva che in terra salica una ragazza non può ereditare nemmeno un podere; e questa legge è stata adottata in terra non salica.» «E io,» dissi, «la abrogo; mi avete assicurato che questa principessa è dolce e generosa; dunque avrebbe un diritto incontestabile alla corona, se sventura volesse che non restasse altri che lei di sangue reale: mia madre ha ereditato da suo padre; e voglio che una principessa erediti dal suo.»

L'indomani la mia causa fu giudicata in una camera del parlamento, e la perdetti per un voto; il mio avvocato mi disse che l'avrei vinta per un voto in un'altra camera. «Questa poi è comica,» gli dissi. «Dunque, ad ogni camera una legge.» «Sì,» disse, «ci sono venticinque commenti sul diritto consuetudinario di Parigi; vale a dire che si è provato venticinque volte che il diritto consuetudinario di Parigi è equivoco; e, se ci fossero venticinque camere di consiglio, ci sarebbero venticinque giurisprudenze diverse. Abbiamo,» proseguì, «a venticinque leghe da Parigi una provincia chiamata Normandia, dove sareste stato giudicato in tutt'altro modo.» Questo mi fece venir voglia di vedere la Normandia. Vi andai con uno dei miei fratelli. Incontrammo, nella prima locanda, un giovane che si disperava; gli chiesi quale fosse mai la sua sventura, mi rispose che era quella d'avere un fratello maggiore. «Ma che sventura è avere un fratello maggiore?» gli dissi; «mio fratello è maggiore di me, e viviamo benissimo insieme.» «Ahimè, signore» mi disse, «qui la legge dà tutto ai maggiori e non lascia niente ai minori,» «Avete ragione,» dissi, «d'essere in collera; dalle mie parti si divide in parti uguali, e non per questo, a volte, i fratelli si amano di più.»

Queste piccole avventure mi indussero a fare alcune belle e profonde riflessioni sulle leggi, e vidi che anche per queste è come per i nostri vestiti: ho dovuto portare un dolman a Costantinopoli e un giustacuore a Parigi.

Se tutte le leggi umane sono convenzioni, dicevo, non resta altro che far bene i propri affari. I borghesi di Delhi e di Agra dicono di aver fatto un pessimo affare con Tamerlano; i borghesi di Londra si congratulano di aver fatto un ottimo affare con re Guglielmo d'Orange. Un cittadino di Londra mi diceva un giorno: «È la necessità a fare le leggi, e la forza a farle osservare.» Gli domandai se talvolta non facesse le leggi anche la forza, e se Guglielmo il Bastardo e il Conquistatore non avesse dato ordini nel paese senza fare con loro alcun contratto. «Sì,» disse, «allora eravamo tanti buoi; Guglielmo ci mise un giogo, e ci fece marciare a forza di pungolo; più tardi ci mutammo in uomini, ma le corna ci sono rimaste, e con quelle colpiamo chiunque voglia farci lavorare per sé e non per noi.»

Assorto in tutte queste riflessioni, mi compiacevo di pensare che c'è una legge naturale, indipendente da tutte le convenzioni umane: il frutto del mio lavoro dev'essere mio; devo onorare il padre e la madre; non ho alcun diritto sulla vita del mio prossimo, e il mio prossimo non ne ha sulla mia ecc. Ma quando pensai che da Shodorlahomor fino a Mentzel colonnello degli ussari, ognuno può assassinare lealmente e depredare il suo prossimo con una patente in tasca ne restai molto afflitto.

Mi dissero che anche tra i ladri ci sono certe leggi, e che ce ne sono perfino in guerra. Domandai che cosa fossero queste leggi di guerra. «Sono,» mi dissero, «quella d'impiccare un valoroso ufficiale che abbia resistito in una cattiva postazione, senza cannone, contro un esercito regio; quella di far impiccare un prigioniero, se ne hanno impiccato uno dei vostri; di mettere a ferro e a fuoco i villaggi che non vi abbiano portato tutte le loro provviste nel giorno prescritto, secondo gli ordini del grazioso sovrano del vicinato.» «Bene,» dissi, «ecco Lo spirito delle leggi

Dopo essere stato istruito per bene, scoprii che esistono sagge leggi per le quali un pastore è condannato a nove anni di galera per aver dato ai suoi montoni un po' di sale proveniente dall'estero. Il mio vicino è stato rovinato da un processo per due querce che gli appartenevano, e che aveva fatto tagliare nel suo bosco, perché non aveva potuto osservare una formalità di cui non poteva essere a conoscenza. Sua moglie è morta in miseria, suo figlio tira avanti ancor più miseramente. Riconosco che queste leggi sono giuste, per quanto la loro esecuzione sia piuttosto dura: ma non sono certo soddisfatto delle leggi che autorizzano centomila uomini ad andare legalmente a sgozzare centomila vicini. Mi è parso che la maggior parte degli uomini abbia ricevuto dalla natura abbastanza buon senso per fare le leggi, ma che non tutti abbiano abbastanza giudizio per farne di buone.

Radunate da un capo all'altro della terra i semplici e tranquilli agricoltori: converranno tutti facilmente che dev'essere lecito vendere al vicino l'eccedenza del proprio grano, e che la legge contraria è inumana e assurda; che le monete, rappresentative delle derrate, non devono essere alterate più che non lo siano i frutti della terra; che un padre di famiglia dev'essere padrone in casa sua; che la religione deve raccogliere gli uomini per unirli, e non per farne dei fanatici e dei persecutori; che quelli che lavorano non devono privarsi del frutto del proprio lavoro per dotarne la superstizione e l'ozio: insomma, potranno fare in un'ora trenta leggi di questa specie, tutte utili al genere umano.

Ma lasciate che arrivi Tamerlano e soggioghi l'India: allora non vedrete altro che leggi arbitrarie. L'una opprimerà una provincia per arricchire un pubblicano di Tamerlano; Per un'altra sarà un crimine di lesa maestà l'aver detto male dell'amante del primo cameriere di un rajah; una terza porterà via all'agricoltura metà del raccolto, e gli contesterà il resto; infine ci saranno leggi per le quali un usciere tartaro verrà a prendervi i vostri figli in culla, farà del più robusto un soldato e del più debole un eunuco, e lascerà il padre e la madre senza soccorso e senza consolazione.

Ora, è meglio essere il cane di Tamerlano o un suo suddito? È chiaro che la condizione del suo cane è di gran lunga preferibile.

II

I montoni vivono del tutto pacificamente in società; si crede che la loro natura sia molto mite, perché nessuno vede la prodigiosa quantità di animaletti che divorano. C'è da credere anzi che essi li mangino innocentemente, senza saperlo, come quando noi mangiamo del formaggio di Sassenage. La repubblica dei montoni è l'immagine fedele dell'età dell'oro.

Un pollaio è chiaramente lo Stato monarchico più perfetto. Non c'è nessun re che possa essere paragonato a un gallo. Il gallo, se cammina fiero in mezzo al suo popolo, non lo fa per vanità. Se il nemico si avvicina, esso non ordina ai suoi sudditi di andare a farsi ammazzare per lui, in virtù della sua scienza e onnipotenza; ci va lui stesso, schiera dietro di sé le sue galline e combatte fino alla morte. Se la vittoria è sua, canta lui stesso il Te Deum. Nella vita civile, nessuno è tanto galante, onesto, disinteressato. Ha tutte le virtù. Se ha nel suo becco regale un chicco di grano o un vermiciattolo, lo dona alla prima delle sue suddite che gli capita davanti. Insomma, Salomone nel suo serraglio non somigliava nemmeno da lontano a un gallo del suo pollaio.

Se è vero che le api sono governate da una regina con cui tutti i sudditi fanno l'amore, il loro è un governo ancora più perfetto.

Il mondo delle formiche passa per un'eccellente democrazia. Essa è al di sopra di tutti gli altri Stati perché tutti vi sono eguali e il singolo lavora per la felicità di tutti.

La repubblica dei castori è ancora superiore a quella delle formiche, almeno a giudicare dalle loro costruzioni.

Le scimmie somigliano più a saltimbanchi che a un popolo ben ordinato, e non sembra che siano riunite sotto leggi fisse e fondamentali, come le specie precedenti.

Noi assomigliamo più alle scimmie che ad ogni altro animale, per il dono dell'imitazione, per la superficialità delle nostre opinioni, e per la nostra incostanza, che non ci ha mai permesso di avere leggi uniformi e durature.

Quando la natura formò la nostra specie e ci diede alcuni istinti - l'amor proprio per la nostra conservazione, la benevolenza per quella degli altri, l'amor, che è comune a tutte le specie e il dono inesplicabile di combinare più idee di tutti gli altri animali riuniti assieme - dopo averci assegnata la nostra parte, ci disse: «Fate come potrete.»

In nessun paese del mondo c'è un buon codice. La ragione è evidente: le leggi sono state fatte via via, secondo i tempi, i luoghi, i bisogni ecc.

Quando i bisogni cambiano, le leggi, che restano immutate, diventano ridicole. Così la legge che proibiva di mangiare carne di maiale e di bere vino, era assai ragionevole in Arabia, dove il maiale e il vino sono perniciosi; a Costantinopoli è assurda.

La legge che assegna tutto il feudo al primogenito è ottima in tempi di anarchia e di saccheggio. Allora, il primogenito è il capitano del castello che prima o poi i briganti assaliranno; i cadetti saranno i suoi ufficiali, e i contadini i suoi soldati. Tutto quello che c'è da temere è che il cadetto assassini o imprigioni il signore salico, suo fratello maggiore, per diventare a sua volta il padrone della bicocca, ma questo avviene raramente perché la natura ha combinato in tale modo i nostri istinti e le nostre passioni che proviamo più orrore di assassinare il nostro fratello maggiore che non desiderio di prendere il suo posto. Ora tale legge, conveniente per i possessori di castelli al tempo di Chilperico, è detestabile quando si tratti di spartire le rendite in una città.

A vergogna degli uomini, si sa che le leggi del gioco sono le sole che dappertutto siano giuste, chiare, inviolabili e osservate. Perché l'indiano che ha dettato le regole del gioco degli scacchi è obbedito di buon grado in tutto il mondo, e invece le decretali dei papi, per esempio, sono ai nostri giorni oggetto di orrore e di disprezzo? Perché l'inventore degli scacchi combinò ogni cosa con esattezza per la soddisfazione dei giocatori, mentre i papi, nelle loro decretali, non mirarono che al loro interesse. L'indiano volle, nello stesso tempo, esercitare l'ingegno degli uomini e procurare loro un divertimento; i papi vollero invece abbrutire lo spirito umano. Così, da cinquemila anni, le regole fondamentali del gioco degli scacchi sono rimaste immutate e sono comuni a tutti gli uomini della terra; mentre le decretali sono osservate soltanto a Spoleto, a Orvieto, a Loreto, dove il più meschino giureconsulto le detesta e le disprezza in segreto.

 

Leggi civili ed ecclesiastiche

Tra le carte di un giureconsulto si sono trovate queste note, che forse meritano d'esser prese in esame.

Che nessuna legge ecclesiastica abbia vigore se non quando riceva l'esplicita sanzione del governo. Appunto con questo mezzo Atene e Roma non ebbero mai lotte religiose. Queste discordie sono proprie delle nazioni barbare, o imbarbarite.

Che solo al magistrato sia dato di permettere o vietare il lavoro nei giorni festivi, perché non sta ai sacerdoti proibire agli uomini di coltivare il proprio campo.

Che tutto ciò che riguarda i matrimoni dipenda unicamente dal magistrato, e i sacerdoti si limitino all'augusta funzione di benedirli.

Che il prestito a interesse sia oggetto solo della legge civile, perché questa sola presiede al commercio.

Che tutti gli ecclesiastici siano sottomessi in tutti i casi al governo, perché sono tutti sudditi dello Stato.

Che non si cada mai nella ridicola vergogna di pagare a un sacerdote straniero la prima annata del reddito di una terra che dei cittadini han donato a un sacerdote loro cittadino.

Che nessun sacerdote possa mai privare un cittadino della minima prerogativa, sotto pretesto che quel cittadino è un peccatore, perché il prete, anch'egli peccatore, deve pregare per i peccatori e non giudicarli.

Che i magistrati, i lavoratori e i preti paghino egualmente le imposte dello Stato, perché tutti appartengono egualmente allo Stato.

Che ci sia un solo peso, una sola misura, un solo diritto.

Che i supplizi dei criminali siano utili. Un uomo impiccato non è utile a nessuno, mentre un uomo condannato ai lavori forzati serve ancora la patria ed è una lezione vivente.

Che ogni legge sia chiara, uniforme e precisa: interpretarla porta quasi sempre a corromperla.

Che niente sia infame se non il vizio.

Che le imposte siano sempre proporzionali.

Che la legge non sia mai in contraddizione con la consuetudine: perché, se la consuetudine è buona, la legge non vale.

 

LETTERE, UOMINI DI LETTERE O LETTERATI

 

Nei tempi barbari, quando i franchi, i germani, i bretoni, i longobardi, i mozarabi spagnoli non sapevano né leggere né scrivere, furono istituite scuole, università, composte quasi tutte di ecclesiastici, i quali, non conoscendo che il loro gergo, lo insegnarono a coloro che vollero impararlo; le accademie vennero molto tempo dopo; esse hanno disprezzato le sciocchezze delle scuole, ma non sempre hanno osato levarsi contro di esse, perché ci sono sciocchezze che si rispettano, se sono collegate a cose rispettabili.

Gli uomini di lettere che hanno reso i maggiori servigi al piccolo numero d'esseri pensanti sparsi per il mondo sono i letterati isolati, i veri dotti chiusi nel loro studio, che non hanno né argomentato sui banchi delle università, né detto le cose a metà nelle accademie; e costoro sono stati quasi tutti perseguitati. La nostra miserabile specie è fatta in modo tale che quelli che camminano sulle vie battute gettano sempre pietre contro quelli che insegnano vie nuove.

Montesquieu dice che gli sciti cavavano gli occhi ai loro schiavi perché, nel fare il burro, non si distraessero: così fa l'Inquisizione, e nei paesi dove questo mostro regna, quasi tutti sono ciechi. Da oltre cent'anni, in Inghilterra si hanno due occhi; i francesi cominciano adesso ad aprirne uno; ma talvolta si trovano degli uomini altolocati che non vogliono nemmeno permettere che si sia monocoli.

Questi poveri diavoli sono come il dottor Balanzone della commedia italiana, che non vuole essere servito che dal balordo Arlecchino, e teme di avere un valletto troppo furbo.

Scrivete odi in lode di monsignor Superbus Fadus, e madrigali per la sua amante; dedicate al suo portiere un libro di geografia, sarete ben ricevuto; illuminate gli uomini, e sarete schiacciato.

Descartes è obbligato a lasciare la sua patria, Gassendi è calunniato; Arnauld trascina i suoi giorni in esilio; ogni filosofo è trattato come i profeti presso gli ebrei.

Chi crederebbe che, nel XVIII secolo, un filosofo sia stato trascinato davanti ai tribunali secolari, e trattato da empio dai tribunali ecclesiastici per aver detto che gli uomini non potrebbero esercitare le arti se non avessero le mani? Non dispero di sapere ben presto che è stato condannato alle galere il primo che avrà avuto l'insolenza di dire che un uomo non penserebbe, se fosse senza testa: «Infatti,» gli dirà un cancelliere, «l'anima è puro spirito, la testa non è che materia; Dio può collocare l'anima nel calcagno altrettanto bene che nel cervello; e dunque vi denunzio come empio.»

La più grande sventura di un uomo di lettere non è forse d'essere oggetto della gelosia dei suoi confratelli, vittima degli intrighi, disprezzato dai potenti del mondo: è di essere giudicato dagli stupidi. Gli stupidi arrivano lontano, qualche volta, soprattutto quando il fanatismo si sposa alla stupidità, e la stupidità allo spirito di vendetta. Un'altra grande sventura per un uomo di lettere è, di solito, quella di non essere appoggiato da nessuno e da niente. Un borghese compera una piccola carica, ed eccolo sostenuto dai suoi confratelli; se è colpito da un'ingiustizia, trova subito chi lo difende. L'uomo di lettere non trova aiuti: assomiglia ai pesci volanti. Se si innalza un poco, gli uccelli lo divorano; se si immerge, lo divorano i pesci.

Ogni uomo pubblico paga il proprio tributo alla malignità, ma ne è ripagato con denaro e onori. L'uomo di lettere paga lo stesso tributo, senza ricevere niente; è sceso nell'arena per suo diletto, si è condannato da solo alle belve.

 

LIBERTÀ (DELLA)

A

Ecco una batteria di cannoni che ci assorda: avete la libertà di udirla o di non udirla?

B

Senza dubbio, non posso fare a meno di udirla.

A

Volete che quel cannone tronchi la vostra testa, quella di vostra moglie e di vostra figlia, che passeggiano al vostro fianco?

B

Che discorso mi fate? Io non posso, finché mi funziona il cervello, volere una cosa simile: ciò m'è impossibile.

A

Bene, voi udite di necessità questo cannone, e di necessità non volete morire per una cannonata, voi e la vostra famiglia, mentre passeggiate. Voi non avete né il potere di non udire né il potere di voler restare qui.

B

Questo è chiaro.

A

Di conseguenza, avete fatto una trentina di passi per mettervi al riparo dal cannone e avete avuto il potere di camminare con me in questo breve spostamento?

B

Anche questo è chiarissimo.

A

Al contrario, se foste stato paralitico non avreste potuto evitare di restare esposto a quella batteria; non avreste avuto il potere di essere dove adesso siete; avreste necessariamente sentito e ricevuto un colpo di cannone, e sareste necessariamente morto?

B

Niente di più vero.

A

E in che consiste dunque la vostra libertà se non nel potere che la vostra persona ha esercitato, di fare quel che la vostra volontà esigeva per assoluta necessità?

B

Voi mi mettete in imbarazzo: la libertà non sarebbe altro che il potere di fare ciò che voglio?

A

Rifletteteci, e vedete se la libertà può essere intesa in altro modo.

B

In questo caso, il mio cane da caccia è libero quanto me; egli ha necessariamente la volontà di correre quando vede una lepre, e il potere di correre se non ha male alle zampe. Io non ho dunque niente al di sopra del mio cane: voi mi riducete allo stato delle bestie.

A

Ecco qua i miseri sofismi dei poveri sofisti che vi hanno istruito. Eccovi sconvolto di sapervi libero come il vostro cane. Ebbene, non assomigliate al vostro cane in mille cose? La fame, la sete, la veglia, il sonno, i cinque sensi, non li avete tutti e due tali e quali? Vorreste sentire gli odori altrimenti che con il naso? Perché volete avere una libertà diversa da quella che ha lui?

B

Ma io ho un'anima che ragiona molto, e il mio cane ragiona a malapena. Ha poco più che qualche idea elementare, mentre io ho mille idee metafisiche.

A

Ebbene, voi siete mille volte più libero di lui; ossia avete mille volte più di lui il potere di pensare, ma non siete libero in modo diverso da lui.

B

Cosa? Non sono libero di volere quel che voglio?

A

Che intendete con ciò?

B

Quel che intendono tutti. Non diciamo forse tutti i giorni: «le volontà sono libere»?

A

Un proverbio non è un argomento: spiegatevi meglio.

B

Intendo dire che sono libero di volere come mi piacerà.

A

Col vostro permesso, questo non ha senso. Non vi rendete conto che è ridicolo dire «Io voglio volere»? Voi volete necessariamente, in conseguenza delle idee che vi sono balzate alla mente. Volete sposarvi, sì o no?

B

E se vi dicessi che non voglio né l'una cosa né l'altra?

A

Rispondereste come quel tale che diceva: «Gli uni credono che il cardinal Mazzarino sia morto, gli altri che sia ancora vivo, e io non credo né l'una cosa né l'altra».

B

Va bene. Voglio sposarmi.

A

Questa è una risposta. Perché volete sposarvi?

B

Perché amo una ragazza bella, dolce, bene educata, abbastanza ricca, che canta benissimo, i cui genitori sono gente civile, e perché mi lusingo d'essere riamato da lei e molto ben visto dalla sua famiglia.

A

Giuste ragioni. Vedete che non potete volere senza ragione. Io vi dichiaro che siete libero di sposarvi: ossia, che avete il potere di firmare il contratto nuziale.

B

Come? Non posso volere senza ragione? Che ne sarebbe allora di quest'altro proverbio: «Sit pro ratione voluntas», la mia volontà è la mia ragione, voglio perché voglio?

A

Questo è assurdo, mio caro amico, ci sarebbe in voi un effetto senza causa.

B

Come? Quando gioco a pari o dispari, ho forse una ragione di scegliere pari piuttosto che dispari?

A

Sì, senza dubbio.

B

E qual è questa ragione, se non vi spiace?

A

È il fatto che alla vostra mente si è presentata l'idea del pari prima dell'idea opposta. Sarebbe buffo se ci fossero casi in cui voi volete perché c'è una causa di volere, e casi in cui invece volete senza causa. Quando vi volete sposare, ne sentite indubbiamente la ragione dominante; quando giocate a pari o dispari, non la sentite: e tuttavia bisogna bene che ce ne sia una.

B

Ma, ancora una volta, io dunque non sono libero?

A

La vostra volontà non è libera, ma le vostre azioni lo sono. Voi siete libero di agire solo se avete il potere di agire.

B

Ma tutti i libri che ho letto sulla libertà d'indifferenza?...

A

Sono sciocchezze: la libertà d'indifferenza non esiste; è un modo di dire privo di senso, inventato da gente abbastanza scriteriata.

 

LIBERTÀ DI PENSIERO

 

Verso l'anno 1707, quando gli inglesi vinsero la battaglia di Saragozza, posero sotto la loro protezione il Portogallo, e diedero per qualche tempo un re alla Spagna; milord Boldmind, ufficiale generale, che era rimasto ferito, si trovava alle acque di Barèges. Vi incontrò il conte Medroso, il quale, caduto da cavallo dietro le salmerie, a una lega e mezzo dal campo di battaglia, era venuto anche lui a passare le acque. Costui era familiare con l'Inquisizione; milord Boldmind non era familiare che nella conversazione; un giorno, dopo aver bevuto, ebbe con Medroso questo scambio d'idee:

BOLDMIND

Voi dunque, siete sergente dei domenicani? Fate davvero un gran brutto mestiere!

MEDROSO

È vero; ma preferisco essere il loro servo che la loro vittima, e la sventura di bruciare il mio prossimo a quella di venir bruciato io.

BOLDMIND

Che orribile alternativa! Eravate cento volte più felici sotto il giogo dei mori, che vi lasciavano liberamente marcire in tutte le vostre superstizioni, e che, pur essendo i vostri padroni, non si arrogavano il diritto inaudito di tenere incatenate le anime.

MEDROSO

Che volete? Non ci è permesso né di scrivere, né di parlare, né di pensare. Se parliamo, è facile interpretare le nostre parole e ancor più i nostri scritti. Infine, poiché non ci possono condannare in un autodafè per i nostri pensieri segreti, siamo minacciati d'essere bruciati in eterno per ordine di Dio stesso, se non la pensiamo come i domenicani. Essi hanno persuaso il governo che, se usassimo il senso comune, tutto lo stato andrebbe a fuoco, e la nazione diventerebbe la più sfortunata della terra.

BOLDMIND

Trovate che siamo tanto sventurati, noi inglesi, che copriamo i mari di vascelli, e veniamo a vincere battaglie per voi, qua, nella punta estrema dell'Europa? Vi pare che gli olandesi, i quali vi hanno portato via quasi tutte le terre da voi scoperte in India, e oggi sono vostri protettori, siano maledetti da Dio per aver concesso piena libertà di stampa e per fare commercio dei pensieri degli uomini? L'impero romano è stato forse meno potente perché Cicerone scriveva in libertà?

MEDROSO

Chi è questo Cicerone? Non ne ho mai sentito parlare; qui non si tratta di Cicerone, ma del nostro Santo Padre e di sant'Antonio da Padova; e io ho sempre sentito dire che la religione romana è perduta, se gli uomini si mettono a pensare.

BOLDMIND

Non sta a voi crederlo, perché voi siete sicuro che la vostra religione è divina, e che le porte dell'inferno non possono prevalere contro di lei. Se è così, niente potrà mai distruggerla.

MEDROSO

No, ma può venir ridotta a ben poca cosa; per aver pensato, la Svezia, la Danimarca, tutta la vostra isola, mezza Germania gemono nella tremenda sventura di non essere più sudditi del papa. Si dice perfino che, se gli uomini continueranno a seguire i loro falsi lumi, si riduranno ben presto alla semplice adorazione di Dio e alla virtù. Se le porte dell'inferno dovessero prevalere sino a quel punto, che ne sarebbe del Sant'Uffizio?

BOLDMIND

Non è forse vero che, se i primi cristiani non avessero avuto la libertà di pensare, non ci sarebbe stato il cristianesimo?

MEDROSO

Che volete dire? Non vi capisco.

BOLDMIND

Lo credo. Voglio dire che se Tiberio e i primi imperatori avessero avuto dei domenicani che avessero impedito ai primi cristiani di usare penne e inchiostro; se non fosse stato, per lungo tempo, permesso, nell'impero romano, di pensare liberamente, sarebbe stato impossibile ai cristiani stabilire i loro dogmi. Se dunque il cristianesimo si affermò solo in grazia della libertà di pensiero, per quale contraddizione, per quale ingiustizia, vorrebbe oggi annientare quella libertà su cui sola si è fondato?

Quando vi propongono qualche affare pecuniario, non lo esaminate a lungo prima di concluderlo? Quale maggior interesse può esserci al mondo di quello della nostra felicità o della nostra infelicità eterna? Ci sono cento religioni sulla terra, che tutte vi dannano se credete ai vostri dogmi, che, esse, credono assurdi ed empi: esaminate, dunque, questi dogmi.

MEDROSO

Come posso esaminarli? Non sono un domenicano, io.

BOLDMIND

Siete un uomo, e tanto basta.

MEDROSO

Ahimè, voi siete molto più uomo di me.

BOLDMIND

Dipende solo da voi imparare a pensare: siete nato con un intelletto: siete come un uccello nella gabbia dell'Inquisizione; il Sant'Uffizio v'ha spezzato le ali, ma esse possono ricrescere. Chi non sa la geometria, può impararla; chiunque può istruirsi; è vergognoso abbandonare la propria anima nelle mani di gente cui non affidereste il vostro denaro: osate pensare col vostro cervello!

MEDROSO

Si dice che, se tutti pensassero col proprio cervello, regnerebbe una ben strana confusione.

BOLDMIND

Tutto il contrario. Quando si assiste a uno spettacolo, ognuno esprime liberamente il suo parere, e l'ordine non viene affatto turbato: ma se il protettore insolente di un pessimo poeta volesse costringere tutte le persone di buongusto ad applaudire ciò che loro trovano brutto, allora i fischi si farebbero sentire, e i due partiti avversi potrebbero tirarsi addosso patate, come avvenne una volta a Londra. Sono i tiranni delle menti a causare una parte delle sventure del mondo. Noi, in Inghilterra, viviamo felici solo da quando ciascuno gode liberamente del diritto di dire la propria opinione.

MEDROSO

Anche noi viviamo tranquilli a Lisbona, dove nessuno è libero di dire la sua.

BOLDMIND

Vivete tranquilli, ma non siete felici. La vostra è la tranquillità dei galeotti, che remano in cadenza e in silenzio.

MEDROSO

Dunque credete che la mia anima sia in galera?

BOLDMIND

Sì, e vorrei liberarla.

MEDROSO

E se mi trovassi bene in galera?

BOLDMIND

In tal caso meritereste di restarci.

 

Limiti dello spirito umano

Essi sono dappertutto, mio povero dottore. Vuoi sapere perché il tuo braccio e il tuo piede obbediscono alla tua volontà, e il tuo fegato, invece, non t'obbedisce? Cerchi di sapere come si formi il pensiero nel tuo debole intelletto, o il bambino nell'utero di quella donna? Ti lascio tempo per rispondermi. E che cos'è la materia? I tuoi pari hanno scritto su questo argomento diecimila volumi; e hanno trovato solo certe qualità di questa sostanza: i bambini le conoscono come te. Ma questa sostanza cos'è, in fondo? E cos'è quel che tu hai chiamato «spirito», dal vocabolo latino che significa «respiro», non potendo far di meglio perché non ne hai nessuna idea?

Guarda questo chicco di grano che getto in terra, e dimmi come mai germina per produrre uno stelo carico d'una spiga. Spiegami come mai il medesimo terreno produce su quella pianta una mela, e sull'albero vicino una castagna. Potrei scriverti un volume in folio di problemi, cui dovresti rispondere solo con queste quattro parole: «non ne so niente». E tuttavia hai raggiunto i più alti gradi, indossi toghe e berretti foderati di pelliccia, e ti chiamano maestro. E quell'altra faccia tosta che ha comprato una carica, crede d'aver conquistato il diritto di giudicare e condannare ciò che non capisce! Il motto di Montaigne era: «Che cosa so?» e il tuo è: «Che cosa non so?»

 

LUSSO

 

Da duemila anni si declama contro il lusso, in versi e in prosa, e lo si è sempre amato.

Che cosa non si è detto dei primi romani? Quando quei briganti devastarono e saccheggiarono le messi dei vicini, quando per accrescere il loro misero villaggio distrussero i miseri villaggi dei volsci e dei sanniti, erano uomini disinteressati e virtuosi: non avevano ancora potuto rubare né oro , né argento, né gemme, perché nelle borgate che depredarono non ce n'era. I loro boschi e le loro paludi non producevano né pernici, né fagiani, e si loda la loro temperanza.

Quando, da un paese all'altro, ebbero saccheggiato tutto, depredato tutto, dal fondo del golfo Adriatico all'Eufrate, ed ebbero la bella idea di godersi il frutto delle loro rapine per sette o otto secoli; quando coltivarono tutte le arti, gustarono tutti i piaceri, e li fecero gustare perfino ai vinti, allora cessarono, si dice, d'essere saggi e dabbene.

Tutte queste declamazioni si riducono a provare che un ladro non deve mai né mangiare il pranzo che ha portato via a qualcuno né indossare l'abito che ha rubato, né ornarsi dell'anello che ha rapinato. Bisognava, si dice, buttar tutto nel fiume, per vivere da galantuomini; dite piuttosto che non si doveva rubare. Condannate i briganti quando depredano, ma non trattateli da insensati quando godono i frutti dei loro misfatti; in buona fede, quando molti marinai inglesi si arricchirono alla presa di Pondichéry e dell'Avana, ebbero torto a prendersi poi un po' di piacere a Londra in premio delle pene sopportate nel fondo dell'Asia e dell'America?

Questi declamatori vorrebbero forse che si seppellissero le ricchezze ammassate con la fortuna delle armi, con l'agricoltura, con il commercio e con l'industria? Citano Sparta: perché non citano anche la repubblica di San Marino? Che bene fece Sparta alla Grecia? Ebbe mai dei Demostene, dei Sofocle, degli Apelle e dei Fidia? Il lusso di Atene creò grandi uomini di tutti i generi; Sparta ebbe solo qualche capitano, e ancora in minor numero che altre città. Ma alla buon'ora, che una repubblica così piccola come Sparta conservi la sua povertà. S'arriva alla morte tanto mancando di tutto quanto godendo di ciò che può rendere gradevole la vita. Il selvaggio del Canada vive e arriva alla vecchiaia come il cittadino d'Inghilterra che ha cinquemila ghinee di rendita. Ma chi paragonerà mai il paese degli irochesi all'Inghilterra?

Che la repubblica di Ragusa e il cantone di Zug facciano pure leggi suntuarie: hanno ragione, il povero non deve spendere al di là delle sue forze; ma ho letto da qualche parte

Sappiate innanzitutto che il lusso arricchisce

un grande stato, pur se perde uno piccolo.

Se per lusso intendete l'eccesso, si sa che l'eccesso è pernicioso in tutto: nell'astinenza come nella ghiottoneria, nell'economia come nella liberalità. Non so come accada che nei miei villaggi, dove la terra è ingrata, le imposte grevi, e il divieto d'esportare il grano che si è seminato addirittura intollerabile, non si trovi tuttavia un colono che non abbia il suo bravo vestito di panno e non sia ben calzato e ben nutrito. Se quel colono ara i campi col suo abito buono, con la biancheria candida, con i capelli arricciati e incipriati, ecco certamente il lusso più eccessivo, più impertinente; ma un borghese di Parigi o di Londra che si presenti a teatro vestito come quel contadino, ecco è la taccagneria più grossolana e ridicola.

Est modus in rebus, sunt certi denique fines

quos ultra citraque nequit consistere rectum.

Quando furono inventate le forbici, che non risalgono certo alla più remota antichità, che cosa non si disse contro i primi che si spuntarono le unghie e si tagliarono una parte dei capelli che gli cadevano sul naso? Furono indubbiamente trattati da damerini e da prodighi, che comperavano a caro prezzo uno strumento di vanità per guastare l'opera del Creatore. Quale enorme peccato accorciare le unghie che Iddio ci fa nascere sulla punta delle dita! Era un oltraggio alla divinità. Fu molto peggio quando s'inventarono le camicie e i calzini. Tutti sanno con quale furore i vecchi consiglieri, che non ne avevano mai portati, gridarono contro i giovani magistrati che caddero in preda a quel lusso funesto.

 

 

 


Ultima modifica 12.01.2009