Voltaire

Dizionario Filosofico

 

M

 

 

 

 

MALVAGIO
MARTIRI
MATERIA
MESSIA

METAMORFOSI
METEMPSICOSI
MIRACOLI
MORALE
MOSE'

 

 

 

 

MALVAGIO

 

Ci gridano che la natura umana è essenzialmente perversa, che l'uomo è figlio del demonio e malvagio. Niente di più stupido: perché, caro amico, tu che mi predichi che tutti sono perversi, mi fai capire con ciò che anche tu sei nato tale, che bisogna che io diffidi di te come di una volpe o di un coccodrillo. «Nient'affatto!» mi rispondi. «Io sono rigenerato, non sono né un eretico, né un infedele: di me ci si può fidare.» Ma il resto del genere umano, che è o eretico o ciò che tu chiami infedele, non sarà dunque che un insieme di mostri: e tutte le volte che ti accadrà di parlare con un luterano o un turco, sarai sicuro che essi ti deruberanno o ti assassineranno: perché sono figli del demonio; sono nati malvagi; l'uno non è rigenerato, l'altro è degenerato.

Sarebbe ben più ragionevole, ben più bello dire agli uomini: «Siete nati tutti buoni; pensate quanto sarebbe orribile corrompere la purezza del vostro essere!» Dovremmo comportarci con il genere umano come ci si comporta con tutti gli uomini presi singolarmente. Se un canonico conduce una vita scandalosa, gli diciamo: «È possibile che voi disonoriate la dignità di canonico?» E così a un magistrato facciamo presente che egli ha l'onore di essere consigliere del re e che deve dare il buon esempio; diciamo a un soldato, per incoraggiarlo: «Pensa che fai parte del reggimento di Champagne!» Ad ogni individuo si dovrebbe dire: «Ricordati della tua dignità di uomo.»

E infatti, nonostante tutto, si torna sempre a questo punto: perché cos'altro significa quella frase così frequentemente ripetuta presso tutti i popoli: «Rientra in te stesso!»? Se fossimo figli del demonio, se la nostra origine fosse criminale, se il nostro sangue fosse composto di un liquido infernale, questa frase: «Rientra in te stesso!» significherebbe: consulta, segui la tua natura diabolica, sii impostore, ladro, assassino: è la legge di tuo padre.

L'uomo non nasce malvagio, lo diventa, come diventa malato. Se dei medici gli si presentano e gli dicono: «Sei nato malato», è certo che essi, qualunque cosa dicano e facciano, non lo guariranno mai se la sua malattia è inerente alla sua natura: son loro, questi ragionatori, i veri malati.

Riunite tutti i bambini del mondo: non vedrete in loro che innocenza, tenerezza e timore; se fossero nati malvagi, malefici, crudeli, ne mostrerebbero qualche segno, come i serpentelli cercano di mordere e i tigrotti di sbranare. Ma la natura, non avendo dato all'uomo più armi offensive che ai piccioni e ai conigli, non ha potuto dar loro un istinto che li porti a distruggere.

L'uomo non è dunque nato malvagio. E allora perché tanti uomini sono infetti da questa peste della malvagità? Perché quelli che si trovano alla loro testa, essendo affetti da tale malattia, la comunicano al resto degli uomini, come una donna colpita dal male che Cristoforo Colombo riportò dall'America ne diffonde il veleno da un capo all'altro dell'Europa. Il primo ambizioso ha corrotto la terra.

Voi mi direte che quel primo mostro ha sviluppato i germi di orgoglio, di rapina, di frode, di crudeltà che sono in tutti gli uomini. Riconosco che, in genere, la maggior parte dei nostri fratelli può acquistare questi difetti; ma abbiamo forse tutti il tifo, il mal della pietra o la renella, perché tutti vi siamo esposti?

Ci sono interi popoli che non sono malvagi: i cittadini di Filadelfia, i baniani non hanno mai ucciso nessuno; i cinesi, le popolazioni del Tonchino, del Laos, del Siam, dello stesso Giappone da più di cent'anni non conoscono guerre. E appena ogni dieci anni succede di venire a conoscenza di uno di quegli orrendi delitti che lasciano sbigottita la natura umana, nelle città di Roma, di Venezia, di Parigi, di Londra, di Amsterdam, dove la cupidigia, madre di tutti i delitti, è estrema.

Se gli uomini fossero essenzialmente malvagi, se nascessero tutti soggetti a un essere tanto malefico quanto sventurato, che, per vendicarsi del suo supplizio, ispirasse loro tutti i suoi furori, vedremmo ogni mattina i mariti assassinati dalle mogli e i padri dai loro figli, così come si vedono all'alba delle galline sgozzate da una faina venuta a suggerne il sangue.

Se c'è un miliardo di uomini sulla terra, ed è già molto, ciò significa, all'incirca, cinquecento milioni di donne che cuciono, filano, nutrono i loro figli, tengono in ordine la loro casa o la loro capanna e sparlano un po' delle loro vicine. Non vedo quale gran male possano fare sulla terra queste povere innocenti. Su questo numero di abitanti del globo, ci sono almeno duecento milioni di bambini, che certamente non ammazzano né saccheggiano, e circa altrettanti vecchi o malati, che non ne hanno la capacità. Restano tutt'al più cento milioni di giovani robusti e capaci di delitti. Di questi cento milioni, ce ne sono novanta continuamente occupati a lavorare la terra, tenacemente, perché fornisca loro cibo e vesti; a costoro non resta molto tempo per commettere il male.

Nei restanti dieci milioni sono comprese le persone oziose e i buontemponi, che vogliono passarsela tranquillamente; gli uomini di talento, dediti alle loro professioni; i magistrati, i sacerdoti, evidentemente interessati a condurre una vita pura, almeno in apparenza. Non resteranno, dunque, che alcuni politici, sia secolari, sia regolari, che vogliono sempre far tremare il mondo, e alcune migliaia di vagabondi che vendono i loro servigi a questi politici. Ora, non c'è mai un milione di queste bestie feroci impiegate insieme nello stesso momento; e in questo numero comprendo anche i briganti da strada. Avremo dunque, al massimo, sulla terra, anche nei tempi più disastrosi, un uomo su mille che potrà dirsi malvagio; e non sempre è tale.

C'è, dunque, infinitamente meno male sulla terra di quel che si dica e si creda. Senza dubbio ce n'è ancora troppo: si vedono sventure e delitti orrendi; ma il piacere di lamentarsi e di esagerare è tanto grande che, al minimo graffio, si grida che la terra gronda sangue. Siete stato ingannato? Tutti gli uomini per voi sono spergiuri. Un uomo di temperamento malinconico che abbia patito un'ingiustizia vede l'universo pieno di dannati, così come un giovane gaudente che, dopo l'opera, va a cena con la sua bella, non pensa affatto che nel mondo esistono anche degli sventurati.

 

MARTIRI

 

Ci raccontano, a proposito dei martiri, tali sciocchezze da far morir dal ridere. Tito, Traiano, Marco Aurelio, quei modelli di virtù, ci vengono dipinti come dei mostri di crudeltà. Fleury, abate del Loc-Dieu, ha disonorato la sua storia ecclesiastica con favole che una vecchietta di buon senso non racconterebbe ai nipotini.

È possibile ripetere seriamente che i romani condannarono sette vergini settantenni a passare per le mani di tutti i giovani della città di Ancira, essi che punivano a morte le vestali per la minima infrazione in fatto di sesso?

È probabilmente per far piacere agli osti che s'immaginò che un oste cristiano, di nome Teodoto, pregò Dio di far morire quelle sette vergini piuttosto che esporle a perdere la più ammuffita delle verginità. Dio esaudì quell'oste pudibondo, e il proconsole fece annegare in un lago le sette damigelle. Non appena furono annegate, esse andarono a lamentarsi da Teodoto del tiro mancino ch'egli aveva giocato loro, supplicandolo d'impedire che fossero mangiate dai pesci. Teodoto prende con sé tre bevitori della sua taverna, va al lago con loro, preceduto da una fiaccola celeste e da un cavaliere celeste, ripesca le sette. vecchie, le sotterra, e finisce impiccato.

Diocleziano incontra un ragazzino, di nome san Romano, balbuziente; vuol farlo bruciare perché cristiano; tre ebrei, che si trovano là, si mettono a ridere perché Gesù Cristo lascia bruciare un ragazzino che gli appartiene; gridano che la loro religione è superiore a quella cristiana, perché Dio liberò Sidrac, Misac e Abdenago dalla fornace ardente; subito le fiamme che circondano il piccolo Romano, senza fargli male, si allontanano da lui e vanno a bruciare i tre ebrei.

L'imperatore, sbalordito, dice che non vuole avere brighe con Dio; ma un giudice di villaggio, meno scrupoloso, condanna il piccolo balbuziente e gli fa tagliare la lingua. Il protomedico dell'imperatore è abbastanza onesto da fare lui stesso l'operazione; ma, appena ha tagliato la lingua al piccolo Romano, questi si mette a cianciare con una volubilità che manda tutti in visibilio.

Nei martirologi si trovano cento favole di questa specie. Si è creduto di rendere odiosi gli antichi romani, e ci si è resi ridicoli. Volete proprio delle vere barbarie bene accertate, dei buoni massacri bene assodati, dei fiumi di sangue effettivamente versati, e padri, madri, mogli, bambini lattanti realmente sgozzati e ammucchiati gli uni sopra gli altri? Mostri persecutori, non cercate queste verità nei vostri annali: le troverete nelle crociate contro gli albigesi, nei massacri di Merindol e di Cabrières, nella spaventosa notte di san Bartolomeo, nelle stragi d'Irlanda, nelle valli valdesi. Sta proprio a voi, barbari, d'imputare ai migliori imperatori crudeltà stravaganti, voi che avete inondato l'Europa di sangue e l'avete coperta di corpi agonizzanti, per provare che lo stesso corpo si può trovare nello stesso tempo in mille luoghi diversi , e che il papa può vendere indulgenze! Cessate di calunniare i romani, vostri legislatori, e chiedete perdono a Dio delle infamie dei vostri padri!

Non è il supplizio, voi dite, che fa il martire, ma la causa. Ebbene, vi concedo che le vostre vittime non debbano essere chiamate col nome di «martire», che significa testimone; ma quale nome daremo ai vostri carnefici? I Falaride e i Busiride furono i più miti degli uomini in confronto a voi; la vostra Inquisizione, che sussiste ancora, non fa forse fremere la ragione, la natura, la religione? Gran Dio, se si riducesse in cenere quel tribunale infernale, dispiacerebbe al vostro animo vendicatore?

 

MATERIA

 

I saggi cui si domanda che cos'è l'anima, rispondono che non ne sanno niente. E se si domanda loro che cosa è la materia, rispondono allo stesso modo. È vero che certi professori, e soprattutto certi scolari sanno perfettamente tutto ciò; e quando hanno ripetuto che la materia è estesa e divisibile, credono di aver detto tutto. Ma quando sono pregati di dire che cosa sia questa cosa estesa, si trovano confusi. «È composta di parti,» dicono. E queste parti di che cosa sono composte? Gli elementi di queste parti sono divisibili? Allora, o ammutoliscono o parlano molto, il che è egualmente sospetto. Questo essere quasi del tutto sconosciuto, che noi chiamiamo materia, è eterno? Tutta l'antichità lo ha creduto. Ha in sé una forza attiva? Molti filosofi lo hanno pensato. Quelli che lo negano hanno il diritto di negarlo? Voi non concepite che la materia possa avere per sé delle proprietà. Ma come potete asserire che non ha per sé le proprietà che le sono necessarie? Ignorate quale sia la sua natura e poi le rifiutate modalità che pure sono nella sua natura. Perché, infine, dato che esiste, bisogna pure che esista in un certo modo, che sia figurata; e una volta dato che essa è necessariamente figurata, è forse impossibile che non abbia altre modalità inerenti alla sua configurazione? La materia esiste, voi non la conoscete che attraverso le vostre sensazioni. Ahimè! a che servono tutte le sottigliezze del nostro cervello, dal momento che si ragiona? La geometria ci ha insegnato molte verità, la metafisica pochissime. Noi pensiamo la materia, la misuriamo, la scomponiamo; ma più in là di queste rozze operazioni, se vogliamo fare un passo, troviamo in noi l'impotenza, e davanti a noi l'abisso.

Perdonate, di grazia, all'intero universo che si è ingannato credendo che la materia esistesse per se stessa! Poteva forse fare altrimenti? Come immaginare che ciò che è senza successione non sia sempre esistito? E, se non era necessario che la materia esistesse, perché esiste? E se bisognava che esistesse, perché non sarebbe sempre esistita? Nessun assioma fu mai più universalmente accettato di questo: «Nulla si genera dal nulla.» In effetti, il contrario è incomprensibile. Presso tutti i popoli, il caos precede l'ordine che una mano divina ha dato al mondo intero. L'eternità della materia non ha nociuto presso nessun popolo al culto della Divinità. La religione non fu mai turbata dal fatto che un Dio eterno fosse riconosciuto come il signore di una materia eterna. Noi siamo abbastanza soddisfatti, oggi, di sapere, grazie alla fede, che Dio trasse la materia dal nulla; ma nessuna nazione era stata informata di questo dogma: gli stessi ebrei l'ignorarono. Il primo versetto del Genesi dice che gli dei Elôhîm, non Eloah fecero il cielo e la terra; non dice che il cielo e la terra furono creati dal nulla.

Filone, vissuto nel solo periodo in cui gli ebrei ebbero una qualche erudizione, dice nel suo capitolo sulla creazione: «Dio, essendo buono per natura, non disdegnò la sostanza, la materia, che per se stessa non aveva niente di buono, e che per sua natura è soltanto inerzia, confusione, disordine. Egli si degnò di renderla buona da cattiva che era.»

L'idea del caos ordinato da un Dio si trova in tutte le antiche teogonie. Esiodo ripeteva quel che pensava l'Oriente, quando diceva nella sua Teogonia: «Il caos è ciò che esistette per primo.» Ovidio era l'interprete di tutto l'impero romano, quando diceva

Sic ubi dispositam, quisquis fuit ille

deorum Congeriem secuit...

La materia era dunque considerata nelle mani di Dio come l'argilla sotto la ruota del vasaio, se è permesso di servirsi di queste deboli immagini per esprimere la potenza divina.

La materia, essendo eterna, doveva avere proprietà eterne, come la configurazione, la forza d'inerzia, il movimento e la divisibilità. Ma la divisibilità non è che una conseguenza del movimento, perché senza movimento niente si divide, né si separa, né si ordina. Si considerava, dunque, il movimento come essenziale alla materia. Il caos era stato un movimento confuso, e l'ordinamento dell'universo, un movimento regolare, impresso a tutti i corpi dal signore del mondo. Ma in che modo la materia avrebbe avuto il movimento per se stessa? Nello stesso modo per cui, secondo tutti gli antichi, ha l'estensione e l'impenetrabilità.

Ma se è impossibile concepirla senza estensione, è possibile concepirla senza moto. A ciò si rispondeva: «È impossibile che la materia non sia permeabile, bisogna pure che qualcosa passi di continuo nei suoi pori; a che pro dei passaggi, se non vi passa nulla?»

Di replica in replica non si finirebbe mai; il sistema della materia eterna presenta, come tutti i sistemi, gravi difficoltà. Quello della materia formata dal nulla non è meno incomprensibile. Bisogna ammetterlo e non illudersi di spiegarlo: la filosofia non rende ragione di tutto. Quante cose incomprensibili siamo obbligati ad ammettere, anche in geometria! Si possono concepire due linee che si avvicinano sempre e non s'incontrano mai?

I matematici, per la verità, ci risponderanno: «Le proprietà delle asintoti vi sono dimostrate, non potete fare a meno di ammetterle, ma la creazione non è dimostrata. Perché la ammettete, dunque? Quale difficoltà trovate nel credere eterna la materia, come han creduto gli antichi?» D'altra parte il teologo vi incalzerà, dicendovi: «Se voi credete eterna la materia, riconoscete dunque due principi: Dio e la materia; e così cadete nell'errore di Zoroastro, di Mani.»

Ai matematici non risponderemo nulla, perché costoro non conoscono che le loro linee, le loro superfici e i loro solidi. Ma potremo rispondere al teologo: «In che cosa sono manicheo? Ecco delle pietre che un architetto non ha fatte; con esse egli ha costruito un grandioso edificio; io non ammetto due architetti: le pietre brute hanno obbedito al potere e al genio.»

Per fortuna, in qualunque dei due sistemi si creda, nessuno di loro nuoce alla morale; poiché cosa importa che la materia sia stata creata o ordinata? Dio resta pur sempre il nostro signore assoluto. Noi abbiamo il dovere di essere virtuosi sia su un caos riportato all'ordine sia in un mondo creato dal nulla. Quasi nessuna di queste questioni metafisiche influisce sulla condotta della vita; e tali dispute sono come le chiacchiere vane che si tengono a tavola: ognuno, appena pranzato, dimentica quel che ha detto e se ne va dove il suo interesse e i suoi gusti lo chiamano.

 

MESSIA

 

Masciah o Mashîah, in ebraico; Χριστός , in greco; Unctus, in latino; Unto.

Leggiamo nell'Antico Testamento che il nome di «Messia» fu dato spesso a principi idolatri o infedeli. È detto che Dio inviò un profeta per ungere Iehu, re d'Israele, e che annunziò la sacra unzione a Azaele, re di Damasco e di Siria, essendo questi due principi i «Messia» dell'Altissimo per punire la casa di Achab.

Nel capitolo XLV di Isaia il nome di «Messia» vien dato espressamente a Ciro: «Così parlò l'Eterno a Ciro, suo unto, suo Messia, del quale ho preso la destra, per abbattere le nazioni davanti a lui ecc.»

Ezechiele, nel capitolo XXVIII delle sue rivelazioni, dà il nome di «Messia» al re di Tiro, ch'egli chiama anche «Cherubino»: «Figlio dell'uomo,» dice l'Eterno al profeta, «pronunzia ad alta voce una lamentazione sul re di Tiro, e digli: Così ha detto il Signore, l'Eterno. Tu eri il suggello della rassomiglianza a Dio, pieno di saggezza e di perfetta bellezza; tu sei stato il giardino d'Eden del Signore (o, secondo altre versioni: tu eri tutte le delizie del Signore). Le tue vesti erano di sardonico, di topazio, di diaspro, di crisolito, di onice, di berillo, di zaffiro, di carbonchio, di smeraldo e d'oro. Quanto sapevan fare i tuoi tamburi e i tuoi flauti era al tuo servizio: tutti pronti il giorno in cui fosti creato. Eri un Cherubino, un Messia.»

Il nome di «Messia», di «Cristo», era dato ai re, ai profeti e ai grandi sacerdoti degli ebrei. Leggiamo nel libro I de I Re, XII, 5: «Il Signore e il suo Messia sono testimoni», ossia: «Il Signore e il re cui ha dato il trono». E altrove: «Non toccate i miei Unti e non fate nessun male ai miei profeti.» David, animato dallo spirito di Dio, in più di un passo dà a Saul, suo suocero reprobo, che lo perseguitava, il nome e il titolo di «Unto», di «Messia» del Signore. «Dio mi guardi,» dice di frequente, «dal portare la mia mano sull'unto del Signore, sul Messia di Dio!»

Erode, essendo stato unto, fu chiamato «Messia» dagli erodiani, che costituirono per qualche tempo una piccola setta.

Se il nome di «Messia», di unto dell'Eterno venne dato a re idolatri e reprobi, fu molto spesso usato nei nostri antichi oracoli per designare il vero unto del Signore, il «Messia» per eccellenza, il Cristo, figlio di Dio; insomma Dio stesso.

Se riuniamo tutti i diversi oracoli che si riferiscono di solito al «Messia», possono risultarne alcune apparenti difficoltà, di cui gli ebrei si sono valsi per giustificare, potendolo, la loro ostinazione. Molti grandi teologi riconoscono che, nello stato di oppressione sotto il quale gemeva il popolo ebraico, e dopo tutte le promesse che l'Eterno gli aveva fatte, esso poteva sospirare l'avvento di un «Messia» vincitore e liberatore; e che esso è così in qualche modo scusabile per non aver riconosciuto subito questo liberatore nella persona di Gesù; tanto più che non c'è un solo passo nell'Antico Testamento in cui sia detto: «Credete al Messia.»

Era nei disegni della saggezza eterna che le idee spirituali del vero Messia restassero sconosciute alla moltitudine cieca; e lo restarono a tal punto che i dottori ebrei furono d'accordo nel negare che i passi allegati da noi cristiani potessero riferirsi al Messia. Molti di loro dicono che il Messia era già venuto nella persona di Ezechia: tale era l'opinione del famoso Hillel. Altri, in gran numero, pretendono che la credenza della venuta di un Messia non sia un articolo fondamentale di fede e che questo dogma, non trovandosi né nel Decalogo né nel Levitico, non sia altro che una speranza consolatrice.

Molti rabbini vi diranno di non dubitare che, secondo gli antichi oracoli, il Messia sia venuto nel tempo prestabilito; che egli resta nascosto su questa terra, senza invecchiare, e aspetta, per manifestarsi, che Israele abbia celebrato come si deve il sabato.

Il famoso rabbino Salomone Isaacide, o Rashî, vissuto all'inizio del XII secolo, dice nelle sue Talmudiche che gli antichi ebrei credettero che il Messia fosse nato il giorno dell'ultima distruzione di Gerusalemme da parte degli eserciti romani: un po', come si dice, chiamare il medico dopo che il malato è morto.

Il rabbino Kimhi, vissuto anche lui nel XII secolo, annunziava che il Messia, di cui credeva prossimo l'avvento, avrebbe scacciato dalla Giudea i cristiani che in quel momento l'occupavano. È vero che i cristiani perdettero la Terra Santa, ma chi li vinse fu il Saladino: se solo questo conquistatore avesse protetto gli ebrei e si fosse schierato dalla loro parte, è verosimile che, nel loro entusiasmo, essi avrebbero fatto di lui il loro Messia.

Gli autori sacri, e lo stesso Nostro Signore Gesù, paragonano spesso il regno del Messia e la beatitudine eterna a giorni di nozze, a banchetti, ma i talmudisti abusarono bizzarramente di queste parabole: secondo loro, il Messia darà al suo popolo, radunato nella terra di Canaan un banchetto in cui il vino sarà quello che lo stesso Adamo fece nel Paradiso terrestre, e che si conserva in vaste cantine scavate dagli angeli al centro della Terra.

Per primo piatto verrà servito il famoso pesce chiamato il grande Leviatano, che inghiotte in un boccone un pesce meno grande di lui e che misura ben trecento leghe di lunghezza. Tutta la massa delle acque poggia sul Leviatano. Dio, in principio, ne creò uno maschio e uno femmina, ma, per timore che mettessero sossopra la Terra e riempissero il mondo di loro simili, uccise la femmina e la mise in salamoia per il banchetto del Messia.

I rabbini aggiungono che, per quel banchetto, verrà ucciso il toro Behemoth, così grosso che mangia ogni giorno il fieno di mille montagne; la femmina di quel toro fu uccisa quando il mondo ebbe inizio, per impedire che una specie così prodigiosa si moltiplicasse, il che non avrebbe potuto che nuocere alle altre creature; ma affermano che l'Eterno non la mise in salamoia, perché la vacca salata non è buona come la leviatana. Gli ebrei prestano ancora tanta fede a tutte queste fantasie rabbiniche che spesso giurano sulla loro porzione del bue Behemoth.

Con idee tanto grossolane sull'avvento del Messia e sul suo regno, c'è da meravigliarsi se gli ebrei, sia antichi, sia moderni, e con loro anche molti dei primi cristiani, disgraziatamente imbevuti di tutte queste fantasticherie, non si sian potuti elevare sino all'idea della natura divina dell'unto del Signore, e non abbiano attribuito al Messia la qualità di Dio? Guardate come gli ebrei si esprimono a questo riguardo nell'opera intitolata Judaei Lusitani Quaestiones ad christianos: «Riconoscere un uomo-Dio significa ingannare se stessi, costruirsi un mostro, un centauro, un bizzarro composto di due nature, che non possono congiungersi assieme.» Aggiungono che i profeti non insegnano affatto che il Messia sia uomo-Dio, che distinguono nettamente tra Dio e David; che chiamano il primo «Signore», il secondo «servitore» ecc.

È abbastanza noto che gli ebrei, schiavi della lettera, non hanno mai penetrato come noi il senso delle Scritture.

E, infatti, quando il Salvatore comparve, i pregiudizi ebraici si levarono contro di lui. Gesù Cristo stesso, per non sconvolgere quelle menti cieche, si mostrò estremamente riservato sulla questione della propria divinità: «Egli voleva,» dice san Crisostomo, «convincere insensibilmente i suoi uditori a credere in un mistero tanto più alto della nostra ragione.» Se assume l'autorità di un Dio nel perdonare i peccati, quest'azione gli mette contro tutti coloro che ne sono testimoni; i suoi miracoli più evidenti non valgono a convincere della sua divinità nemmeno coloro in favore dei quali egli li compie. Quando, davanti al tribunale del supremo sacrificatore, egli confessa, con una modesta perifrasi, di essere il figlio di Dio, il gran sacerdote si strappa le vesti e grida alla bestemmia. Prima della discesa dello Spirito Santo, gli apostoli non sospettano neppure la divinità del loro maestro; egli li interroga su quel che il popolo pensa di lui, ed essi rispondono che gli uni lo prendono per Elia, altri per Geremia, o per qualche altro profeta. San Pietro ha bisogno di una rivelazione particolare per capire che Gesù è il Cristo, il figlio del Dio vivente.

Gli ebrei, ribellandosi contro la divinità di Gesù Cristo, fanno ricorso ad ogni sorta di cavilli per distruggere quel grande mistero; alterano il senso dei loro stessi oracoli o non li applicano al Messia; pretendono che il nome di Dio, Elóhim, non è dato dagli autori sacri solo alla Divinità, ma anche ai giudici, ai magistrati e in genere alle autorità; e citano, in effetti, un grandissimo numero di passi delle Sacre Scritture che giustificano tale asserzione, ma che non alterano affatto il senso esplicito degli antichi oracoli attinenti al Messia.

Infine pretendono che se il Salvatore e, dopo di lui, gli evangelisti, gli apostoli e i primi cristiani chiamano Gesù «il figlio di Dio», questo termine augusto non significa altro, nei tempi evangelici, che l'opposto di «figlio di Belial», ossia uomo virtuoso, servo di Dio, in opposizione a malvagio, a uomo che non teme Dio.

Se gli ebrei hanno contestato a Gesù Cristo la qualità di Messia e la sua divinità, nulla hanno trascurato per renderlo spregevole, per gettare sulla sua nascita, sulla sua vita e sulla sua morte tutto il ridicolo e tutto l'obbrobrio che il loro criminale accanimento ha potuto immaginare.

Di tutte le opere prodotte dalla loro cecità, nessuna è così odiosa e stravagante come l'antico libro intitolato: Sepher Toldos Jeschut, disseppellito dal signor Wagenseil, nel secondo tomo della sua opera intitolata: Tela ignea ecc.

È in questo Sepher Toldos Jeschut che si legge una storia mostruosa della vita del nostro Salvatore, fabbricata con tutta la passione e la malafede possibili. Così, per esempio, si è osato scrivere che un tale Panther o Pandera, abitante a Betlemme, si era innamorato di una giovane donna maritata a Jochanan. Egli ebbe da questo commercio impuro un figlio chiamato Jesua o Gesù. Il padre del bambino fu costretto a fuggire e si rifugiò a Babilonia. Quanto al piccolo Gesù, fu mandato a scuola; ma, aggiunge l'autore, ebbe l'insolenza di alzare la testa e di scoprirsi il capo davanti ai sacrificatori, invece di presentarsi davanti a loro a testa bassa e col viso coperto, com'era costume: arditezza che fu vivamente riprovata, e indusse a esaminare la sua nascita, che fu trovata impura ed espose ben presto il bimbo alla pubblica ignominia.

Questo detestabile Sepher Toldos Jeschut era conosciuto fin dal II secolo: Celso lo cita con rispetto, e Origene lo confuta nel suo nono capitolo.

C'è un altro libro, anch'esso intitolato Toldos Jeschut, pubblicato nel 1705 da Huldrich, che segue più da presso il Vangelo dell'infanzia, zeppo di anacronismi e di errori grossolani. Fa nascere e morire Gesù Cristo sotto il regno di Erode il Grande e pretende che davanti a questo principe sia stata mossa l'accusa di adulterio fra Panther e Maria, madre di Gesù.

L'autore, che prende il nome di Jonathan e si dice contemporaneo di Gesù Cristo e abitante di Gerusalemme, sostiene che Erode consultò, a proposito della nascita di Gesù Cristo, i senatori di una città nella terra di Cesarea. Non seguiremo un autore così assurdo in tutte le sue contraddizioni.

È col favore di tante e tali calunnie che gli ebrei si mantengono nel loro odio implacabile contro i cristiani e contro il Vangelo; niente han trascurato per alterare la cronologia del Vecchio Testamento e spargere dubbi e difficoltà sul tempo della venuta del nostro Salvatore.

Ahmed ben-Cassum al-Andalusi, un moro di Granata, vissuto sul finire del XVI secolo, cita un antico manoscritto arabo che fu scoperto con sedici lamine di piombo, incise in caratteri arabi, in una grotta nei pressi di Granata. Don Pedro y Quinones, arcivescovo di questa città, ne ha reso lui stesso testimonianza. Queste lamine di piombo, dette «di Granata», furon poi portate a Roma, dove, dopo un esame durato molti anni, furono alla fine condannate come apocrife sotto il pontificato di Alessandro VII: esse contengono storie favolose sulla vita di Maria e di suo figlio.

Il nome di «Messia», accompagnato dall'epiteto di «falso», si dà inoltre a quegli impostori che, in vari tempi, hanno cercato di ingannare il popolo ebraico. Ce ne furono, di questi falsi Messia, anche prima della venuta del vero unto di Dio. Il saggio Gamaliele parla di un certo Teuda, la cui storia si legge nelle Antichità giudaiche di Giuseppe, libro XX, cap. II. Egli si vantava di attraversare il Giordano a piedi asciutti; attirò molta gente al suo seguito; ma i romani, piombati sulla sua schiera, la dispersero, mozzarono la testa allo sventurato e la esposero a Gerusalemme.

Gamaliele parla anche di Giuda, il galileo, che è senza dubbio lo stesso che Giuseppe cita nel capitolo XII del secondo libro della Guerra giudaica. Egli sostiene che quel falso profeta aveva raccolto attorno a sé circa tremila uomini; ma l'iperbole è caratteristica degli storici ebrei.

Nei tempi apostolici, si vide Simone, soprannominato il Mago che aveva saputo sedurre gli abitanti di Samaria al punto che essi lo consideravano come «la virtù di Dio».

Nel secolo seguente, nel 178 e 179 d.C., sotto l'impero di Adriano, comparve il falso Messia Bar Kôkebâ, alla testa di un esercito. L'imperatore inviò contro di lui Giulio Severo, che, dopo molti scontri, riuscì a chiudere i rivoltosi nella città di Bither; essa sostenne un durissimo assedio e infine fu espugnata; Bar Kôkèbâ fu preso e messo a morte. Adriano decise di prevenire le continue rivolte degli ebrei proibendo loro, con un editto, di recarsi a Gerusalemme, e mise delle guardie alle porte della città per impedire l'accesso al resto del popolo d'Israele.

Si legge in Socrate, storico ecclesiastico, che nell'anno 434 comparve, nell'isola di Candia, un falso Messia, che si chiamava Mosè. Egli proclamava d'essere l'antico liberatore degli ebrei, resuscitato per liberarli un'altra volta.

Un secolo dopo, nel 530, ci fu in Palestina un falso Messia chiamato Giuliano; costui si presentò come un gran conquistatore che, a capo della sua nazione, avrebbe distrutto con le armi tutto il popolo cristiano; sedotti dalle sue promesse, gli ebrei si armarono e massacrarono parecchi cristiani. L'imperatore Giustiniano inviò contro di lui delle truppe: fu data battaglia al falso Cristo che, catturato, fu condannato all'estremo supplizio.

Agli inizi dell'VIII secolo, Sereno, ebreo spagnolo, si proclamò Messia, predicò, ebbe dei discepoli, e morì come loro nella miseria.

Nel XII secolo comparvero molti falsi Messia: anche in Francia, sotto Luigi il Giovane, ce ne fu uno, che venne impiccato insieme con i suoi seguaci. I loro nomi rimasero per sempre ignoti.

Il XIII secolo fu fertile di falsi Messia: se ne contano sette od otto, in Arabia, in Persia, in Spagna, in Moravia. Uno di loro, che si chiamava David el Re, passa per essere stato un grandissimo mago; sedusse gli ebrei, si trovò a capo di un grosso partito, ma morì assassinato.

Giacomo Zieglerne, moravo, che visse verso la metà del XVI secolo, annunziò la prossima manifestazione del Messia, nato, a quel che assicurava, da quattordici anni. L'aveva visto, diceva, a Strasburgo, e conservava con cura una spada e uno scettro per metterli nelle sue mani, non appena avesse raggiunto l'età d'insegnare.

Nell'anno 1624, un altro Zieglerne confermò la predicazione del primo.

Nel 1666, Shabbetày-Sebî, nato ad Aleppo, dichiarò di essere il Messia predetto dagli Zieglerne. Cominciò col predicare sulle strade maestre e in mezzo alle campagne; i turchi lo deridevano, ma i suoi discepoli lo ammiravano. Sembra che, da principio, egli non riuscisse ad interessare il grosso della nazione ebraica, giacché i capi della sinagoga di Smirne pronunciarono contro di lui una sentenza di morte; ma egli se la cavò con la paura e l'esilio.

Contrasse tre matrimoni, e si afferma che non ne consumasse nessuno, dicendo che l'atto sessuale era indegno di lui. Si associò un certo Natan Levi, il quale sosteneva la parte del profeta Elia, che doveva precedere il Messia. Ambedue si recarono a Gerusalemme, dove Natan presentò Shabbêtày-Sêbî come il liberatore delle nazioni. La plebaglia ebrea si schierò dalla loro parte, ma quanti avevano qualcosa da perdere li anatemizzarono.

Sebî, per fuggire la tempesta, si ritirò a Costantinopoli, e di là a Smirne. Natan Levi gl'inviò quattro ambasciatori, che lo riconobbero e lo salutarono pubblicamente come Messia: questa ambasceria colpì favorevolmente il popolo, ed anche alcuni dottori, i quali dichiararono Shabbetày-Sebî «Messia» e re degli ebrei. Ma la sinagoga di Smirne condannò il suo re a venire impalato.

Shabbetày si mise sotto la protezione del cadì di Smirne, ed ebbe ben presto dalla sua parte tutto il popolo ebreo. Si fece innalzare due troni, uno per sé e l'altro per la sua sposa favorita, assunse il nome di re dei re e conferì a Giuseppe Sebî, suo fratello, quello di re di Giudea. Promise agli ebrei la sicura conquista dell'impero ottomano. E spinse la sua insolenza al punto di far togliere dalla liturgia ebraica il nome del sultano e di farlo sostituire con il suo.

Fu messo in prigione ai Dardanelli. Gli ebrei proclamarono che la sua vita veniva risparmiata perché i turchi sapevan bene che era immortale. Il governatore dei Dardanelli si arricchì con i doni che gli ebrei gli prodigavano per poter visitare il loro re, il loro «Messia» prigioniero, il quale, in catene, conservava tutta la sua dignità e si faceva baciare i piedi.

Tuttavia il sultano, che teneva la sua corte ad Adrianopoli, volle metter fine a questa commedia: fece chiamare Sebî e gli disse che, se era il Messia, doveva essere invulnerabile. Sebî ne convenne. Il sultano lo fece allora porre come bersaglio per le frecce dei suoi arcieri; il «Messia» subito confessò di non essere invulnerabile e dichiarò che Dio non l'aveva inviato che per rendere testimonianza alla santa religione musulmana. Fustigato dai ministri della legge, si fece maomettano, e visse e morì tanto disprezzato dagli ebrei quanto dai musulmani: questo screditò talmente la professione di «falso Messia», che dopo di lui non ne comparvero più.

 

METAMORFOSI, METEMPSICOSI

 

Non è del tutto naturale che le metamorfosi di cui la terra abbonda abbiano fatto immaginare in Oriente, dove tutto è stato immaginato, che le nostre anime passino da un corpo a un altro? Un punto quasi impercettibile diventa un verme, questo verme diventa farfalla; una ghianda si trasforma in quercia, un uovo in uccello; l'acqua diventa nuvola e tuono, il legno si muta in fuoco e cenere: tutto, nella natura, sembra insomma subire una metamorfosi. Così, ben presto si attribuì alle anime, immaginate come lievi figure, quel che si osserva in modo sensibile nei corpi più grossolani. L'idea della metempsicosi è forse il più antico dogma dell'universo conosciuto e vive ancora in gran parte dell'India e della Cina.

È anche assai naturale che tutte le metamorfosi di cui siamo testimoni abbiano prodotto quelle antiche favole che Ovidio ha raccolto nella sua opera mirabile. Gli ebrei stessi ebbero le loro metamorfosi. Se Niobe fu mutata in sasso, Edith, la moglie di Lot, fu mutata in una statua di sale. Se Euridice restò negli inferi per aver guardato dietro di sé, è per la medesima indiscrezione che la moglie di Lot fu privata della natura umana. Il borgo dove abitavano, in Frigia, Filemone e Bauci, si tramutò in un lago; lo stesso successe di Sodoma. Le figlie di Anio mutarono l'acqua in olio; nelle Scritture si narra di una metamorfosi pressoché simile, ma più vera e più santa. Cadmo fu mutato in serpente; la verga di Aronne diventò anch'essa un serpente.

Gli dei si trasformavano spessissimo in uomini; gli ebrei non videro mai gli angeli che sotto forma umana: gli angeli mangiarono in casa di Abramo. Paolo, nella sua Epistola ai Corinzi, dice che l'angelo di Satana lo schiaffeggiò: «Angelus Satanae me colaphiset».

 

MIRACOLI

 

Un miracolo, in virtù della parola stessa, è una cosa mirabile. In questo caso, tutto è miracolo, l'ordine prodigioso della natura, la rotazione di cento milioni di globi intorno a un milione di soli, l'attività della luce, la vita degli animali, sono perpetui miracoli.

Secondo le idee acquisite, chiamiamo miracolo la violazione di queste leggi divine ed eterne. Che ci sia un'eclissi di sole durante la luna piena, che un morto faccia a piedi due leghe di cammino portando tra le braccia la propria testa, lo chiamiamo miracolo. Molti fisici sostengono che in questo senso non esistono miracoli: ed ecco i loro argomenti.

Un miracolo è la violazione delle leggi matematiche, divine, immutabili, eterne. Per questa sola definizione, un miracolo è una contraddizione in termini. Una legge non può essere nello stesso tempo immutabile e violata. Ma una legge, si oppone, stabilita da Dio stesso, non può essere sospesa dal suo autore? I fisici di cui sopra hanno l'ardire di rispondere di no, e che è impossibile che l'Essere infinitamente saggio abbia fatto delle leggi per poi violarle. Non potrebbe, dicono, alterare la sua macchina se non per farla andare meglio; ora, è chiaro che essendo Dio, egli ha fatto quest'immensa macchina tanto bene quanto ha potuto: se ha visto che ci sarebbe stata qualche imperfezione, risultante dalla natura della materia, vi ha provveduto fin da principio; e perciò non vi apporterà mai alcun mutamento.

Inoltre, Dio non può,far nulla senza ragione: ora, quale ragione lo indurrebbe a sfigurare per qualche tempo la propria opera?

A favore degli uomini, si dice. Sarà dunque almeno a favore di tutti gli uomini, si ribatte: poiché è impossibile concepire che la natura divina operi per qualche uomo in particolare, e non per tutto il genere umano; e perfino il genere umano è ben poca cosa: è molto meno di un piccolo formicaio a paragone di tutti gli esseri che riempiono l'immensità. Ora non è la più assurda delle pazzie immaginare che l'Essere infinito sovverta a favore di tre o quattro centinaia di formiche, su questo mucchietto di fango, il gioco eterno delle molle immense che fanno muovere tutto l'universo?

Ma supponiamo che Dio abbia voluto distinguere un piccolo numero di uomini con certi favori particolari: dovrà mutare ciò che stabilì per tutti i tempi e tutti i luoghi? Non ha certo alcun bisogno di questo mutamento, di questa incostanza per favorire le sue creature: i suoi favori sono nelle sue stesse leggi. Per esse ha tutto previsto, tutto disposto; tutte obbediscono irrevocabilmente alla forza che egli ha impresso per sempre nella natura.

Perché Dio farebbe un miracolo? Per rendere perfetto un certo disegno su alcuni esseri viventi! Egli dovrebbe dire, dunque: «Con la fabbrica dell'universo, con i miei decreti divini, con le mie leggi eterne non mi è riuscito di venire a capo di un certo disegno; cambierò le mie idee eterne, le mie leggi immutabili, per cercare di eseguire ciò che con esse non ho potuto fare.» Sarebbe una confessione della sua debolezza, e non della sua potenza. Sarebbe in lui, mi pare, la più inconcepibile contraddizione. Così dunque, osare attribuire a Dio dei miracoli è veramente insultarlo (se mai gli uomini possono insultare Dio); è come dirgli: «Sei un essere debole e incoerente.» È dunque assurdo credere ai miracoli, è disonorare in qualche modo la Divinità.

Si insiste con questi filosofi, dicendo loro: «Voi avete un bell'esaltare l'immutabilità dell'Essere supremo, l'eternità delle sue leggi, la regolarità dei suoi mondi infiniti; questo nostro piccolo ammasso di fango è stato sempre visitato dai miracoli; le storie sono tanto ricche di prodigi quanto di eventi naturali. Le figlie del gran sacerdote Anio tramutavano tutto quel che volevano in grano, vino o olio; Atalide, figlia di Mercurio, risuscitò diverse volte Ippolito; Ercole strappò Alcesti alla morte; Heres ritornò nel mondo dopo aver passato quindici giorni negli inferi; Romolo e Remo nacquero da un dio e da una vestale; il Palladio cadde dal cielo nella città di Troia; la chioma di Berenice diventò una costellazione; la capanna di Filemone e Bauci fu mutata in un superbo tempio; la testa di Orfeo pronunziava oracoli, dopo la sua morte; le mura di Tebe si costruirono da sole, al suono del flauto, al cospetto dei greci; le guarigioni avvenute nel tempio d'Esculapio furono innumerevoli, e noi possediamo ancora dei monumenti pieni di nomi e di testimoni oculari dei miracoli d'Esculapio.»

Nominatemi un popolo presso il quale non siano avvenuti degli incredibili prodigi, soprattutto nei tempi in cui si sapeva appena leggere e scrivere.

I filosofi rispondono a queste obiezioni limitandosi a ridere e ad alzare le spalle; ma i filosofi cristiani dicono: «Noi crediamo ai miracoli operati nella nostra santa religione; li crediamo per fede, e non per la nostra ragione, che ci guardiamo bene dall'ascoltare; perché, quando parla la fede, si sa che la ragione deve restare muta. Noi crediamo fermamente nei miracoli di Gesù Cristo e degli apostoli; ma permetteteci di dubitare un poco di parecchi altri. Consentite, ad esempio, che noi sospendiamo il nostro giudizio su ciò che ci narra un uomo semplice, cui è stato dato il nome di "grande". Egli assicura che un umile frate era così solerte nel fare miracoli che il suo priore infine gli proibì di esercitare questo dono. Il frate obbedì. Ma un giorno, vedendo un povero muratore piombare giù dal tetto, esitò fra il desiderio di salvargli la vita e la santa obbedienza. Ordinò soltanto al muratore di restare sospeso in aria sino a nuovo ordine, e andò di corsa dal priore a raccontargli come stavano le cose. Il priore l'assolse del peccato che aveva commesso, cominciando a fare un miracolo senza il suo permesso, e gli consentì di portarlo a termine, a patto però che la facesse finita e non ricominciasse più. Concordiamo con i filosofi che bisogna un po' diffidare di questa storia.»

«Ma come osereste negare,» si dice loro, «che san Gervasio e san Protasio siano apparsi in sogno a sant'Ambrogio e gli abbiano indicato il luogo ove si trovavano le loro reliquie? che sant'Ambrogio le abbia dissotterrate e che esse abbiano guarito un cieco? Sant'Agostino era allora a Milano; è lui che riferisce questo miracolo: "Immenso populo teste", scrive nel suo De civitate Dei, libro XXII. Ecco un miracolo fra i meglio assodati.» I filosofi rispondono che non credono a niente di tutto ciò; che Gervasio e Protasio non appaiono a nessuno; che al genere umano importa assai poco sapere dove si trovano i resti delle loro carcasse; che credono tanto poco alla guarigione di quel cieco quanto a quella del cieco di Vespasiano; che fu un miracolo inutile, e che Dio non fa niente di inutile; e restano fermi nei loro principi. Il mio rispetto per san Gervasio e san Protasio non mi permette di essere dell'avviso di questi filosofi; mi limito solo a riferire la loro incredulità. Essi fanno gran caso del passo di Luciano che si trova nella Morte di Peregrino: «Quando un abile prestigiatore si fa cristiano, è sicuro di far fortuna.» Ma, dato che Luciano è un autore profano, non deve godere di nessuna autorità fra di noi.

Questi filosofi non possono risolversi a credere ai miracoli operati nel II secolo. Invano alcuni testimoni oculari hanno scritto che quando il vescovo di Smirne, san Policarpo, fu condannato al rogo e gettato tra le fiamme, udirono una voce dal cielo che gridava: «Coraggio, Policarpo! Sii forte, mostrati uomo!»; e allora le fiamme del rogo si scostarono dal suo corpo e formarono una cupola di fuoco sopra la sua testa, e dal mezzo del rogo uscì una colomba: e così si fu obbligati a tagliare la testa a Policarpo. «A che pro questo miracolo?» dicono gli increduli. «Perché le fiamme hanno perduto la loro natura, e la mannaia del boia non ha perduto la sua? Com'è che tanti martiri uscirono sani e salvi dall'olio bollente e non poterono invece resistere al filo della spada?» Si risponde che tale fu la volontà di Dio. Ma i filosofi avrebbero voluto vedere tutto ciò con i loro occhi, prima di crederci.

Quelli poi che rafforzano i loro ragionamenti con la scienza, vi diranno che gli stessi Padri della Chiesa hanno più volte ammesso che ai tempi loro non si facevano più miracoli. San Crisostomo dice esplicitamente: «I doni straordinari dello Spirito erano concessi anche agli indegni, perché la Chiesa aveva allora bisogno di miracoli; ma oggi essi non sono più concessi nemmeno ai degni, perché la Chiesa non ne ha più bisogno.» E confessa poi che ai suoi tempi non c'era più nessuno che risuscitasse i morti, e nemmeno che guarisse i malati.

Sant'Agostino stesso, nonostante il miracolo di Gervasio e Protasio, scrive nel De Civitate Dei: «Perché quei miracoli che avvenivano un tempo oggi non avvengono più?» E ne dà la stessa ragione di san Crisostomo: «Cur, inquiunt, nunc illa miracula quae praedicatis facta esse non fiunt? Possem quidem dicere necessaria prius fuisse quam crederet mundus, ad hoc ut crederet mundus.»

Si obietta ai filosofi che sant'Agostino, nonostante questa confessione, narra tuttavia di un vecchio ciabattino di Ippona, il quale, avendo perduto il suo abito, andò a pregare nella cappella «dei venti martiri»; che, tornandosene via, trovò un pesce nel cui corpo c'era un anello d'oro; e che il cuoco che gli cucinò il pesce disse al ciabattino: «Ecco ciò che ti donano i venti martiri.»

Ma i filosofi rispondono che non c'è niente in questa storia che contraddica alle leggi della natura; che la fisica non è affatto offesa se un pesce ha inghiottito un anello d'oro e un cuoco ha regalato quell'anello a un ciabattino; che non v'è in ciò alcun miracolo.

Se si ricorda a questi filosofi che, secondo san Girolamo, nella sua Vita di Paolo l'eremita, il detto eremita parlò molto spesso con satiri e fauni; che un corvo gli portò tutti i giorni, per trent'anni, mezzo pane per desinare, e un pane intero il giorno in cui sant'Antonio venne a trovarlo, potranno ancora rispondere che tutto ciò non è assolutamente in contrasto con la fisica; che satiri e fauni possono pur essere esistiti e che, in ogni caso, se questo racconto è una favoletta, essa non ha niente in comune con i veri miracoli del Salvatore e dei suoi apostoli. Molti buoni cristiani hanno contestato la storia di san Simeone Stilita, scritta da Teodoreto. E molti miracoli, stimati autentici dalla Chiesa greca, furono invece messi in dubbio da parecchi latini, allo stesso modo che dei miracoli latini apparvero sospetti alla Chiesa greca; vennero in seguito i protestanti, che contestarono vivamente i miracoli dell'una e dell'altra Chiesa.

Un dotto gesuita, che predicò a lungo nelle Indie, si lamenta che né lui né i suoi confratelli sian mai riusciti a fare miracoli. Saverio si duole, in molte delle sue lettere, di non possedere il dono delle lingue; dice di trovarsi, fra i giapponesi, come una statua muta. Eppure i gesuiti scrissero che aveva risuscitato otto morti: son parecchi; ma bisogna anche considerare che egli li risuscitava a seimila leghe di qui. Si è trovata in seguito della gente convinta che l'abolizione dell'ordine dei gesuiti in Francia sia stata un miracolo ben più grande di quelli di Saverio e Ignazio.

Comunque sia, tutti i cristiani convengono che i miracoli di Gesù Cristo e degli apostoli sono assolutamente autentici, ma che si può fortemente dubitare di certi miracoli avvenuti nei nostri tempi, la cui autenticità non è sicura affatto.

Sarebbe augurabile, ad esempio, perché un miracolo venisse ben appurato, che fosse fatto in presenza dell'Accademia delle Scienze di Parigi, o della Società Reale di Londra, e della Facoltà di medicina, assistite da un distaccamento del reggimento delle guardie per contenere la folla, che potrebbe con la sua indiscrezione impedire il manifestarsi del miracolo.

Un giorno qualcuno chiese a un filosofo che cosa avrebbe detto se avesse veduto fermarsi il sole, cioè se fosse venuto a cessare il moto della terra intorno a quest'astro; se tutti i morti fossero risuscitati e tutte le montagne fossero andate a buttarsi nel mare: il tutto per provare qualche verità importante, come per esempio la grazia versatile. «Che cosa direi?» rispose il filosofo. «Mi farei manicheo; direi che c'è un principio che disfa ciò che l'altro ha fatto.»

 

MORALE

 

Ho appena letto queste parole in una declamazione in quattordici volumi, intitolata Histoire du Bas- Empire:

«I cristiani avevano una morale; ma i pagani non ne avevano nessuna.»

Ah, signor Le Beau, autore di questi quattordici volumi, chi vi ha messo in testa tale panzana? Che cosa sarebbe dunque la morale di Socrate, di Zaleuco, di Caronda, di Cicerone, di Epitteto, di Marco Antonino?

Non c'è che una morale, signor Le Beau, come non c'è che una geometria. Ma mi si risponderà che la maggior parte degli uomini ignora la geometria. Sì, ma se ci si applica un po', ognuno concorda con i suoi principi. Gli agricoltori, i manovali, gli artigiani non hanno mai seguito corsi di morale; non hanno letto né il De finibus bonorum et malorum di Cicerone né le Etiche di Aristotele; però, non appena si mettono a riflettere, diventano senza saperlo discepoli di Cicerone: il tintore indiano, il pastore tartaro e il marinaio inglese conoscono il giusto e l'ingiusto. Confucio non inventò un sistema di morale come si costruisce un sistema di fisica: lo trovò nel cuore di tutti gli uomini.

Questa morale era nel cuore del pretore Festo quando i giudei lo sollecitarono a far morire Paolo, che aveva condotto degli stranieri nel loro tempio. «Sappiate,» rispose Festo, «che i romani non condannano nessuno senza averlo prima ascoltato.»

Se i giudei mancavano di morale, o mancavano alla morale, i romani la conoscevano e le rendevano onore.

La morale non sta nella superstizione, non sta nelle cerimonie, non ha nulla in comune con i dogmi. Non si ripeterà mai abbastanza che tutti i dogmi sono diversi, mentre la morale è la medesima in tutti gli uomini che fanno uso della ragione. La morale viene dunque da Dio, come la luce. Le nostre superstizioni non sono che tenebre. Lettore, rifletti: sviluppa questa verità e traine le conseguenze.

 

MOSÈ

 

Molti dotti han sostenuto che il Pentateuco non può essere stato scritto da Mosè. Essi dicono che, dalla stessa scrittura, è accertato che il primo esemplare conosciuto fu trovato al tempo del re Giosia, che quest'unico esemplare fu portato al re dal segretario Safan. Ora, tra Mosè e questa azione del segretario Safan, corrono, secondo il computo ebraico, millecentosessantasette anni. Dio, infatti, apparve a Mosè nel roveto ardente l'anno 2213 dalla creazione del mondo, e il segretario Safan pubblicò il libro della legge l'anno 3380. Questo libro, trovato sotto Giosia, rimase sconosciuto fino al ritorno degli ebrei dalla cattività di Babilonia; ed è scritto che fu Esdra, ispirato da Dio, a portare alla luce tutte le Sante Scritture.

Ora, che a comporre il Pentateuco sia stato Esdra o un altro, è assolutamente indifferente, dato che questo libro è veramente ispirato. Non è detto, nel Pentateuco, che Mosè ne è l'autore: potrebbe, quindi, essere permesso attribuirlo a un altro uomo, cui lo Spirito Divino lo abbia dettato, se la Chiesa non avesse deciso che esso è opera di Mosè.

Alcuni contradditori aggiungono che nessun profeta ha mai citato i libri del Pentateuco, che non se ne fa menzione né nei salmi, né nei libri attribuiti a Salomone, né in Geremia, o in Isaia, né infine in alcun libro canonico. Le parole che corrispondono a quelle di Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio non si trovano in nessun altro scritto né del Vecchio, né del Nuovo Testamento.

Altri, più arditi, hanno posto i seguenti quesiti:

1) In quale lingua Mosè avrebbe scritto in un selvaggio deserto? Non poteva essere che in egiziano, perché dal testo stesso risulta che Mosè e tutto il suo popolo erano nati in Egitto. È probabile che essi non parlassero altra lingua. Gli egiziani non si servivano ancora del papiro; i geroglifici venivano incisi sul marmo o sul legno. È anche detto che le tavole dei comandamenti furono incise sulla pietra. Si sarebbero dunque dovuti incidere su pietre polite cinque volumi, il che avrebbe richiesto sforzi e tempo prodigiosi.

2) È verosimile che in un deserto dove il popolo ebraico non aveva né calzolai né sarti, e dove il Dio dell'universo era obbligato a fare continui miracoli per conservare i vecchi abiti e le vecchie scarpe degli ebrei, si siano trovati uomini tanto abili da incidere cinque libri del Pentateuco sulla pietra o sul legno? Si dirà che si trovarono pure operai che fecero un vitello d'oro e che poi ridussero quell'oro in polvere; che costruirono il tabernacolo, che l'adornarono con trentaquattro colonne di bronzo dai capitelli d'argento, che tesserono e ricamarono i veli di lino, di giacinto, di porpora e di scarlatto. Ma proprio questo rafforza l'opinione dei contradditori. Essi replicano che non è possibile che, in un deserto dove mancava tutto, si siano potute fare opere così ricercate; che semmai si sarebbe dovuto cominciare col fare tuniche e calzari; che gente che manca del necessario non dà nel lusso; e che è una evidente contraddizione dire che c'erano fonditori, incisori, scultori, tintori, ricamatori quando non c'erano né abiti, né sandali, né pane.

3) Se Mosè avesse scritto il primo capitolo del Genesi, sarebbe stato proibito a tutti i giovani di leggere quel primo capitolo? Si sarebbe portato così poco rispetto al legislatore? Se fosse stato Mosè a dire che Dio punisce l'iniquità dei padri fino alla quarta generazione, Ezechiele avrebbe osato dire il contrario?

4) Se Mosè avesse scritto il Levitico, avrebbe potuto contraddirsi nel Deuteronomio? Il Levitico proibisce di sposare la moglie del fratello, il Deuteronomio lo ordina.

5) Mosè avrebbe parlato nei suoi libri di città che al suo tempo non esistevano? Avrebbe forse detto che certe città che si trovano per lui a oriente del Giordano, erano a occidente?

6) Avrebbe assegnato ai leviti quarantotto città in un paese dove non ce ne furono mai nemmeno dieci e in un deserto dove errò senza avere mai una casa?

7) Avrebbe stabilito regole per i re ebrei, in un tempo in cui quel popolo non solo non aveva re, ma li aveva in orrore, e non era probabile che ne avrebbe avuti mai? Come? Mosè avrebbe dato precetti per la condotta dei re, i quali vennero circa ottocento anni dopo di lui, e non avrebbe detto niente per i giudici e i sacerdoti che gli succedettero? Questa riflessione non ci spinge a credere che il Pentateuco sia stato composto al tempo dei re e che le cerimonie istituite da Mosè non siano state che una tradizione?

8) Potrebbe mai essere possibile che Mosè abbia detto agli ebrei: «Io vi ho fatti uscire dalla terra d'Egitto in numero di seicentomila combattenti, sotto la protezione del vostro Dio»? Gli ebrei non gli avrebbero forse risposto: «Davvero sei stato ben timido a non condurci contro il Faraone d'Egitto: costui non poteva opporci che un esercito di duecentomila uomini: mai l'Egitto ha posseduto tanti soldati: noi l'avremmo vinto senza fatica, e saremmo padroni del paese. Come! Il Dio che ti parla ha fatto morire, per farci piacere, tutti i primogeniti d'Egitto il che significa, ammesso che in questo paese ci siano trecentomila famiglie, che trecentomila persone sono morte in una notte per vendicarci e tu non hai secondato il tuo Dio, non ci hai dato quel fertile paese che niente poteva difendere? Ci hai fatto lasciare l'Egitto come dei ladroni e dei vigliacchi, per farci poi morire nei deserti, fra precipizi e montagne! Potevi almeno condurci per la via più diretta in quella terra di Canaan sulla quale noi non abbiamo nessun diritto, che ci avevi promesso e in cui non siamo ancora potuti entrare. Era naturale che dalla terra di Goshen andassimo verso Tiro e Sidone lungo il Mediterraneo; e invece tu ci hai fatto attraversare quasi tutto l'istmo di Suez, ci hai fatto rientrare in Egitto, risalire sin oltre Menfi, e adesso ci troviamo a Baal-Sefon, sulle rive del mar Rosso, volgendo le spalle alla terra di Canaan, dopo aver percorso ottanta leghe in questo Egitto che volevamo evitare e in continuo pericolo di morte col mare alle spalle e l'esercito del Faraone di fronte!

«Se tu avessi voluto abbandonarci in mano ai nostri nemici, non avresti percorso un'altra strada né preso altre misure. Dio ci ha salvati con un miracolo, dici tu: il mare si è aperto per lasciarci passare, ma, dopo un tale favore, bisognava proprio farci morire di fame e di fatica negli orribili deserti di Etam, di Qadesh-Barnea, di Mara, di Elim, di Horeb e del Sinai? Tutti i nostri padri sono morti in quelle orrende solitudini; e adesso, dopo quarant'anni, tu ci vieni a raccontare che Dio ha manifestato un amore particolare per i nostri padri!»

Ecco quello che quegli ebrei mormoratori, quei figli ingiusti di ebrei vagabondi, morti nel deserto, avrebbero potuto dire a Mosè, se egli avesse letto loro l'Esodo e il Genesi. E che cosa non avrebbero dovuto dire e fare a proposito del vitello d'oro? «Come! Osi raccontarci che tuo fratello fabbricò un vitello d'oro per i nostri padri, mentre stavi con Dio sulla montagna; tu che talvolta dici di aver parlato con Dio faccia a faccia e tal'altra di non aver potuto vederlo altro che da dietro! Ma, infine, tu eri con Dio, e tuo fratello fonde in un sol giorno un vitello d'oro e ce lo dà da adorare; e tu, invece di punire il tuo indegno fratello, lo nomini nostro pontefice e ordini ai tuoi leviti di sgozzare ventimila uomini del tuo popolo! I nostri padri lo avrebbero tollerato? Si sarebbero lasciati ammazzare come vittime da sacerdoti sanguinari? E in più ci racconti che, non pago di quell'incredibile macello, facesti massacrare altri ventiquattromila dei tuoi sventurati seguaci, perché uno di loro era andato a letto con una madianita, quando poi tu stesso hai sposato una madianita! E dici d'essere il più mite degli uomini! Ancora qualche altro esempio di questa bella mitezza, e non sarebbe rimasto vivo più nessuno.

«No; se fossi stato capace di tanta crudeltà, e se avessi potuto esercitarla, saresti il più barbaro degli uomini, e tutti i supplizi del mondo non basterebbero a farti espiare crimini così pazzeschi.»

Tali, pressappoco, le obiezioni che fanno i dotti a coloro che credono Mosè l'autore del Pentateuco. Ma si risponde loro che le vie di Dio non sono quelle degli uomini; che Dio mise alla prova, guidò e abbandonò il suo popolo con una saggezza che non ci è dato comprendere; che gli stessi ebrei, da più di duemila anni, credono che Mosè sia l'autore di questi libri; che la Chiesa, succeduta alla Sinagoga, e infallibile come lei, ha deciso questo punto controverso, e che i dotti devono tenere chiusa la bocca quando essa parla.

NOTA «Sarà vero che ci fu un Mosè? Se un uomo che comandava all'intera natura fosse esistito presso gli egiziani, avvenimenti così prodigiosi non avrebbero costituito la parte principale della storia d'Egitto? E Sanchoniaton, Manetone, Megastene, Erodoto perché non ne avrebbero parlato? Giuseppe, lo storico, raccolse tutte le testimonianze possibili in favore degli ebrei: non osa dire che qualcuno degli autori che cita abbia mai proferito una sola parola sui miracoli di Mosè. E come! L'acqua del Nilo si sarebbe mutata in sangue, un angelo avrebbe sgozzato tutti i primogeniti d'Egitto, il mare si sarebbe aperto, le sue acque sarebbero rimaste sospese a destra e a sinistra, e nessun autore ne avrebbe parlato? E le nazioni avrebbero dimenticato così grandi prodigi? E non ci sarebbe che un piccolo popolo di schiavi barbari a raccontarci queste storie migliaia d'anni, dopo l'avvenimento?

Chi è allora questo Mosè sconosciuto a tutta la terra fino ai tempi in cui Tolomeo ebbe la curiosità di far tradurre in greco gli scritti degli ebrei? Da secoli le favole orientali attribuivano a Bacco tutto ciò che gli ebrei attribuirono a Mosè. Bacco aveva passato il mar Rosso a piedi asciutti, Bacco aveva mutato le acque in sangue, Bacco aveva quotidianamente compiuto dei miracoli con la sua verga: tutti questi fatti venivano cantati nelle orge bacchiche prima che esistesse il minimo commercio con gli ebrei, prima che si sapesse che questo povero popolo aveva dei libri. Non è molto più verosimile che questo popolo, così nuovo, così a lungo errabondo, così tardi conosciuto, così tardi insediatosi in Palestina, si sia impadronito, con la lingua fenicia, delle favole fenicie, su cui ricamò ancora, come fanno tutti i rozzi imitatori? Un popolo così povero, così ignorante, così chiuso a qualsiasi arte, che cos'altro poteva fare se non copiare i suoi vicini? Non sappiamo forse che perfino il nome di Adonai, di Jaho, di Elôhîm o Eloah, che significa Dio presso la nazione ebraica, era fenicio?» (Nota aggiunta da Voltaire nel 1765, nell'ed. Varberg, dove formava i primi due quesiti, precedendo il quinto capoverso.)

 


Ultima modifica 12.01.2009