Voltaire

Dizionario Filosofico

 

S

 

 

 

 

SALOMONE
SENSAZIONE
SENSO COMUNE
SETTA

SOGNI
STATI
STORIA DEI RE
EBREI E PARALIPOMENI
SUPERSTIZIONE

 

 

 

 

SALOMONE

 

In Oriente il nome di Salomone fu sempre riverito. Le opere che si credevano scritte da lui, gli annali degli ebrei, le favole degli arabi, diffusero la sua fama fino alle Indie. Il suo regno fu l'età aurea degli ebrei.

Egli fu il terzo re della Palestina. Il primo libro dei Re dice che sua madre Betsabea ottenne da David che facesse incoronare Salomone al posto del suo primogenito Adonia. Non ci sorprende che una donna, complice dell'assassinio del suo primo marito, sia stata così abile da far sì che l'eredità passasse al frutto del proprio adulterio, così diseredando il figlio legittimo, che per giunta era il primogenito.

Un fatto assai degno di nota è che il profeta Natan, il quale aveva rimproverato David per il suo adulterio, per l'uccisione di Uria e per il matrimonio che seguì quell'assassinio, fu lo stesso uomo che più tardi secondò Betsabea nel mettere sul trono Salomone, nato da quel matrimonio sanguinario e infame. Tale condotta, a ragionare soltanto «secondo la carne», proverebbe che il profeta Natan usava, secondo i tempi, due pesi e due misure. Lo stesso libro biblico non dice che Natan avesse ricevuto da Dio una missione particolare per far diseredare Adonia. Se ne ebbe una, dobbiamo rispettarla; ma noi possiamo ammettere solo quel che troviamo scritto.

Adonia, escluso dal trono da Salomone, gli chiese come unica grazia il permesso di sposare Abisag, la giovinetta che era stata data a David per riscaldarlo nella sua vecchiaia.

La Scrittura non dice se Salomone abbia disputato ad Adonia la concubina del padre; ma dice che Salomone, per questa sola richiesta, lo fece assassinare. A quel che sembra, Dio, che diede a Salomone lo spirito di saggezza, gli rifiutò quello della giustizia e dell'umanità, come gli rifiutò più tardi il dono della continenza.

Nello stesso Libro dei Re è detto che Salomone era padrone di un gran regno, che si estendeva dall'Eufrate al mar Rosso e al Mediterraneo; ma, sventuratamente, è anche detto che il re d'Egitto aveva conquistato il paese di Gezer, nella terra di Canaan, e che diede in dote la città di Gezer a sua figlia, che pare sia andata sposa a Salomone; è detto che c'era un re a Damasco, e che fiorivano i regni di Sidone e di Tiro; circondato da stati potenti, Salomone manifestò la propria saggezza restando in pace con tutti. L'estrema abbondanza che arricchì il suo paese non poteva essere che il frutto di quella profonda saggezza, perché, al tempo di Saul, non c'era un operaio che sapesse lavorare il ferro, in tutto il paese e, quando Saul dichiarò guerra ai filistei, cui gli ebrei erano soggetti, si trovarono soltanto due spade.

Dunque, Saul, che sulle prime non possedeva in tutti i suoi Stati che due sole spade, ebbe ben presto un esercito di trecentotrentamila uomini. Neppure il sultano dei turchi ebbe mai armate così numerose; c'era di che conquistare il mondo. Simili contraddizioni sembrano escludere qualsiasi ragionamento; ma coloro che vogliono ragionare trovano assai difficile che David, il quale successe a Saul, vinto dai filistei, abbia potuto, durante il suo regno, fondare un vasto impero.

Ancora più incredibili sono le ricchezze da lui lasciate a Salomone; gli diede in contanti centotremila talenti d'oro e un milione e tredicimila talenti d'argento. Il talento d'oro degli ebrei vale circa seimila sterline, e quello d'argento circa cinquecento sterline. La somma totale dei lasciti in denaro contante, senza contare i preziosi e gli altri beni, e senza il reddito corrente, senza dubbio proporzionato a tale tesoro, ammontava a un miliardo, centodiciannove milioni di scudi tedeschi, o venticinque miliardi e seicentoquarantotto milioni di scudi francesi. A quei tempi non c'era davvero tanto denaro circolante, in tutto il mondo.

Dopo di che, non si capisce proprio perché Salomone si affannasse tanto a mandare le sue flotte nel paese di Ofir per riportarne oro. E ancora meno perché questo potente monarca non avesse nei suoi vasti Stati un solo uomo che sapesse tagliar legna nella foresta del Libano. Fu costretto a pregare Hiram, re di Tiro, di prestargli dei taglialegna e degli operai per mettere in opera il legname. Bisogna confessare che queste contraddizioni mettono a dura prova l'intelligenza dei commentatori.

Ogni giorno si servivano, per il pranzo e la cena della casa di Salomone, cinquanta buoi e cento montoni, e pollame e cacciagione in proporzione: il che può corrispondere a sessantamila libbre di carne al giorno. Un bel treno di casa.

Si aggiunge poi che egli possedeva quarantamila scuderie, e altrettante rimesse per i carri da guerra, ma soltanto dodicimila scuderie per la sua cavalleria. Ecco un bel numero di carri per un paese fra le montagne; ed era un bell'apparato militare per un re, il cui predecessore non aveva avuto, alla sua incoronazione, che una mula, e per un territorio che allevava soltanto asini.

Non si è voluto che un principe che possedeva tanti carri si limitasse a un piccolo numero di mogli; gliene si attribuiscono settecento, che portavano il nome di «regine»; e quel che è strano è che egli avesse solo trecento concubine, contro il costume dei re, i quali hanno di solito più amanti che mogli. Se poi queste storie sono state dettate dallo Spirito Santo, bisogna ammettere che predilige il meraviglioso.

Salomone manteneva quattrocentododicimila cavalli, senza dubbio per andare a spasso con le sue donne lungo il lago di Gennesaret o verso quello di Sodoma, o verso il torrente Cedron, che sarebbe uno dei luoghi più deliziosi del mondo, se quel torrente non fosse asciutto nove mesi l'anno, e se il terreno attorno non fosse un po'pietroso.

Quanto al tempio che egli fece costruire, e che gli ebrei credettero la più bella opera dell'universo, se i Bramante, i e i Palladio l'avessero veduto, non lo avrebbero certo ammirato. Era una specie di piccola fortezza quadrata, che racchiudeva un cortile e in questo cortile c'era un edificio lungo quaranta cubiti e un altro venti; ed è detto che questo Michelangelo secondo edificio, che era propriamente il tempio, l'oracolo, il Santo dei Santi, aveva venti cubiti di larghezza, venti di lunghezza, e venti di altezza. Non c'è oggi in Europa architetto che non considererebbe tale edificio un monumento di barbari.

I libri attribuiti a Salomone son durati più del suo tempio. È questa, forse, una delle più evidenti prove della forza dei pregiudizi e della debolezza del cervello umano.

Solo il nome dell'autore ha reso rispettabili quei libri: sono stati reputati buoni perché creduti scritti da un re, e quel re era considerato il più saggio degli uomini.

La prima opera che gli si attribuisce è quella dei Proverbi: una raccolta di massime triviali, basse, incoerenti, senza gusto, senza scelta e senza disegno. Possiamo davvero credere che un re illuminato abbia composto una raccolta di sentenze delle quali non se ne trova una che accenni al modo di governare, alla politica, ai costumi dei cortigiani e agli usi della corte? Vi si trovano interi capitoli in cui si parla soltanto di quelle prostitute che invitano i passanti ad andare a letto con loro.

Prendiamo a caso uno di questi proverbi:

«Ci sono tre cose che non si saziano mai, e una quarta che mai dice: Basta!: il sepolcro, l'utero, la terra che mai si sazia d'acqua, e il fuoco che mai dice: Basta!»

«Ci sono tre cose per me indecifrabili, e una quarta che ignoro del tutto: la via dell'aquila nell'aria, la via del serpente sulla roccia, la via di una nave in mezzo al mare, la via dell'uomo in una donzella.»

«Ci sono quattro animali, i più piccoli della terra e più saggi dei saggi: le formiche, piccolo popolo che si prepara il nutrimento per l'inverno durante l'estate; le lepri, popolo debole, che vive sulle rocce; le locuste che, non avendo re, avanzano divise per schiere; e la lucertola, che fa tutto con le sue zampe, e dimora nei palazzi dei re.»

E si osa imputare a un grande re, al più saggio dei mortali stupidaggini così terra terra e assurde? Quelli che lo vogliono autore di tali piatte puerilità, e credono di ammirarle, non sono certo i più saggi degli uomini.

I Proverbi furono attribuiti a Isaia, a Elcia, a Sobna a Eliacim, a Ioacaz e a molti altri; ma chiunque sia stato il compilatore di questa raccolta di sentenze orientali, non è affatto probabile che sia stato un re a darsene la pena. Avrebbe detto: «l'ira del re è come il ruggito del leone»? Così parla solo un suddito o uno schiavo, che trema per la collera del suo signore. E Salomone avrebbe tanto parlato della donna impudica? Avrebbe detto: «Non guardare il vino quando sembra chiaro e il suo colore scintilla nel bicchiere»?

Dubito assai che, ai tempi di Salomone, ci fossero bicchieri di vetro: si tratta di un'invenzione molto recente; tutti gli antichi bevevano in tazze di legno o di metallo; e il passo in questione indica che quest'opera venne composta ad Alessandria, come tanti altri libri giudaici.

L'Ecclesiaste, attribuito pure a Salomone, è di un genere e di un gusto del tutto diversi. Chi parla, in quest'opera, è un uomo disingannato dalle illusioni di grandezza, stanco dei piaceri e disgustato della scienza. È un filosofo epicureo, che ripete ad ogni pagina che il giusto e l'empio sono soggetti agli stessi accidenti; che l'uomo non ha niente in più della bestia; che sarebbe meglio non esser nati, che non c'è un'altra vita, e che non c'è niente di buono né di ragionevole se non il godere in pace il frutto delle proprie fatiche assieme alla donna amata.

L'intera opera è di un materialista a un tempo sensuale e disgustato. Sembra soltanto che all'ultimo versetto sia stata aggiunta una frase edificante su Dio, per diminuire lo scandalo che un tal libro doveva provocare.

I critici stenteranno a persuadersi che quest'opera sia di Salomone. Non è naturale che abbia detto: «Sventura al paese che ha un re bambino!» Gli ebrei non avevano ancora avuto re simili.

Non è affatto naturale che egli abbia detto: «Io osservo il viso del re» È assai più verosimile che l'autore abbia voluto far parlare Salomone ma che, per quella mancanza di coerenza di cui son piene tutte le opere degli ebrei, abbia dimenticato spesso, nel corso del libro, che stava facendo parlare un re.

Quel che sbalordisce è che quest'opera empia sia stata consacrata fra i libri canonici. Se si dovesse stabilire oggi il canone della Bibbia, non ci si includerebbe certo l'Ecclesiaste; ma esso vi fu inserito in un tempo in cui i libri erano molto rari, ed erano più ammirati che letti. Tutto quel che si può fare oggi è mascherare il più possibile l'epicureismo che prevale in quest'opera. Si è fatto per l'Ecclesiaste come per tante altre cose ben più rivoltanti; esse furono accettate in tempi d'ignoranza; e si è costretti, ad onta della ragione, a difenderle in tempi illuminati, e a mascherare l'assurdità o l'errore con allegorie.

Il Cantico dei Cantici è attribuito anch'esso a Salomone, perché il nome del re vi si trova in due o tre passi, perché si fa dire all'amante che essa è bella «come le pelli di Salomone»; e poiché essa afferma di essere «nera», si è creduto che Salomone indicasse così la sua moglie egiziana.

Queste tre ragioni sono ugualmente ridicole:

1) Quando la donna, parlando all'amante, dice: «Il re mi ha condotta nelle sue dispense», essa allude evidentemente a una persona diversa dal suo amante; dunque il re non è il suo amante: è il re del convito, il paraninfo, il padrone di casa che essa intende; e questa ebrea è così improbabile che sia l'amante di un re, che, in tutto il corso dell'opera, ci appare come una pastorella, una ragazza di campagna, che va a cercare il suo amante per i campi e per le vie della città, e viene arrestata alle porte di questa dalle guardie, che le rubano il vestito.

2) Io sono bella come le pelli di Salomone è l'espressione d'una campagnola, che in altro modo direbbe: «Io sono bella come gli arazzi del re»; e proprio perché in quest'opera si trova il nome di Salomone, essa non può essere sua. Quale re farebbe un paragone così ridicolo? «Guardate,» dice la donna nel terzo capitolo, «guardate il re Salomone con il diadema con cui lo ha incoronato la madre il giorno del suo matrimonio.» Chi non riconosce in queste espressioni i comuni paragoni delle ragazze del popolo quando parlano dei loro amanti? Esse dicono appunto: «È bello come un principe, ha l'aria di un re ecc.»

3) È vero che la pastora che vien fatta parlare in questo cantico amoroso dice d'essere abbronzata dal sole, che è «bruna». Ma se fosse stata la figlia del re d'Egitto, non sarebbe stata tanto scura di carnagione. Le fanciulle di elevata condizione, in Egitto, erano bianche. Cleopatra lo era; insomma, costei non poteva essere a un tempo campagnola e regina.

Può darsi che un re, che possedeva mille donne, abbia detto ad una di esse: «Baciami con un bacio della tua bocca, perché le tue mammelle sono migliori del vino.» Un re e un pastore, quando si tratta di baci sulla bocca, possono esprimersi allo stesso modo. È vero che è abbastanza strano che si sia sostenuto che era la donna a parlare, in quel passo; che fosse lei a far l'elogio delle mammelle del suo amante.

Non negherò nemmeno che un re galante abbia potuto far dire alla sua amante: «Il mio amato è come un mazzolino di mirra, esso giacerà tra le mie mammelle.» Io non capisco bene che cosa sia un mazzolino di mirra; ma se una donna dice al suo amante di posarle la mano sinistra sul collo e di abbracciarla con la destra, lo capisco benissimo.

Si potrebbe chiedere qualche spiegazione all'autore del Cantico, quando dice: «Il tuo ombelico è come una coppa in cui c'è sempre qualcosa da bere; il tuo ventre è come un moggio di frumento; le tue mammelle sono come due cerbiatti e il tuo naso è come la torre del monte Libano.»

È certo che le Egloghe di Virgilio sono scritte in ben altro stile; ma ciascuno ha il suo, e un ebreo non è obbligato a scrivere come Virgilio.

È apparentemente un bel tratto di eloquenza orientale dire: «Nostra sorella è ancora bambina, non ha ancora le mammelle. Che faremo di nostra sorella? Se è un muro, costruiamoci sopra; se è una porta, chiudiamola.»

Può pur darsi che Salomone, il più saggio degli uomini, parlasse così quand'era brillo, ma molti rabbini hanno sostenuto non solo che questa piccola egloga voluttuosa non fu scritta da lui, ma che essa non era autentica. Teodoro di Mopsuestia era di tale opinione; e il celebre Grozio chiama il Cantico dei Cantici uno scritto libertino, flagitiosus. Eppure, è un libro consacrato, considerato un'allegoria perpetua del matrimonio di Gesù Cristo con la sua Chiesa. Bisogna riconoscere che l'allegoria è un po' pesante, e che non si capisce cosa potrebbe intendere la Chiesa quando l'autore dice che sua sorellina non ha ancora le mammelle.

Ad ogni modo, questo Cantico è un monumento prezioso dell'antichità: è il solo libro d'amore che ci sia restato degli ebrei. È vero che è una rapsodia insensata, ma c'è molta voluttà. Non vi si parla che di baci sulla bocca, di mammelle che sono più inebrianti del vino, di gote che sono del colore delle tortore. Vi si parla spesso di godimento. È un'egloga ebraica. Lo stile è come quello di tutte le opere d'eloquenza degli ebrei, sconnesso, senza coerenza, pieno di ripetizioni, confuso, ridicolmente metaforico; ma vi sono passi che esprimono assai bene l'ingenuità e l'amore.

Il Libro della Saggezza ha un tono più serio; ma non è di Salomone più del Cantico dei Cantici. Viene comunemente attribuito a un Gesù, figlio di Sirac; e da altri a Filone di Biblo; ma, qualunque ne sia l'autore, si direbbe che ai suoi tempi non fosse ancora stato scritto il Pentateuco, perché esso dice, al capitolo X, che Abramo volle immolare Isacco al tempo del diluvio; e, in un altro passo, parla del patriarca Giuseppe come di un re d'Egitto.

Quanto all'Ecclesiaste, di cui abbiamo già parlato, Grozio afferma che fu scritto ai tempi di Zorobabele. Abbiamo già visto con quale libertà l'autore dell'Ecclesiaste si sia espresso; sappiamo come egli abbia detto che gli uomini non sono superiori alle bestie; che è meglio non essere nati che esistere; che non c'è un'altra vita; che non c'è niente di buono, se non il godere delle proprie fatiche assieme alla donna che si ama.

Potrebbe darsi che Salomone avesse tenuto simili discorsi con qualcuna delle sue donne; si pretende invece che si tratti di obiezioni che egli fa a se stesso; ma tali massime, che hanno un tono un po'libertino, non somigliano affatto a obiezioni; e far dire a un autore il contrario di quel che dice significa burlarsi dei lettori.

Del resto, molti Padri della Chiesa sostennero che Salomone fece poi penitenza; così lo si può perdonare.

È assai probabile che Salomone fosse ricco e sapiente per il suo tempo ed il suo popolo. L'esagerazione, compagna inseparabile della rozzezza, gli attribuì ricchezze che non avrebbe potuto possedere e libri che non avrebbe potuto scrivere. Il rispetto per l'antichità consacrò poi questi errori.

Ma il fatto che questi libri siano stati scritti da un ebreo, che c'importa? La nostra religione cristiana è fondata su quella ebraica, ma non su tutti i libri scritti dai giudei.

Perché il Cantico dei Cantici dovrebbe essere per noi più sacro delle favole del Talmud? Perché - si dice - noi l'abbiamo incluso nel canone dei libri ebraici. E che cos'è questo canone? Una raccolta di opere autentiche. E con ciò? Un'opera, perché è autentica, è anche divina? Una storia dei regoli di Giuda e di Sichem, per esempio, è forse qualcos'altro che una storia? Ecco uno strano pregiudizio. Noi abbiamo in orrore gli ebrei, eppure pretendiamo che tutto quanto fu scritto da loro e raccolto da noi rechi l'impronta di Dio. Non ci fu mai più grande contraddizione.

 

SENSAZIONE

 

Le ostriche hanno, si dice, due soli sensi; le talpe, quattro; gli altri animali, come gli uomini, cinque. Certuni ne ammettono un sesto, ma è evidente che la sensazione voluttuosa, di cui vogliono parlare, si riduce al senso del tatto, e che questi cinque sensi dunque sono quanto ci occorre. Ci è impossibile immaginarne e desiderarne di più.

Può darsi che in altri mondi altri esseri siano dotati di sensi di cui noi non abbiamo idea; può darsi che il numero dei sensi aumenti di globo in globo, e che l'essere dotato di sensi innumerevoli e perfetti sia il termine perfetto di tutti gli esseri.

Ma noi, con i nostri soli cinque organi di senso, che potere abbiamo? Noi sentiamo sempre nostro malgrado, e mai perché lo vogliamo; quando un oggetto ci colpisce, ci è impossibile non provare la sensazione destinataci dalla natura. La sensazione è in noi, ma non dipende da noi: noi la riceviamo; e come la riceviamo? È abbastanza noto che non c'è alcun rapporto fra l'aria che vibra e certe parole che sento cantare e l'impressione che esse suscitano nel mio cervello.

Noi restiamo stupiti dinanzi al fenomeno del pensiero; ma il sentire è altrettanto meraviglioso. Nella sensazione dell'ultimo degli insetti, come nel cervello di Newton, si manifesta un potere divino. Tuttavia, se mille animali muoiono sotto i vostri occhi, voi non vi inquietate affatto di sapere che fine farà la loro facoltà di sentire, sebbene tale facoltà sia opera dell'Essere degli esseri: voi considerate quegli animali come macchine della natura, nate per morire e far posto ad altre.

Perché e come il loro sentire potrebbe sussistere, quand'essi non esistono più? Che bisogno avrebbe l'autore di tutto quanto esiste di conservare proprietà di cui è distrutto il soggetto? Tanto varrebbe dire che la facoltà della pianta detta «sensitiva», di ritirare le foglie verso i suoi rami, sussiste ancora quando la pianta è morta. Mi domanderete come mai, se la sensazione dell'animale muore con lui, il pensiero dell'uomo non morrà. Io non posso rispondere a questo problema, non ne so abbastanza per risolverlo. Solo l'autore eterno della sensazione del pensiero sa in qual modo ci dà l'una e l'altro e in qual modo li conserva.

Tutta l'antichità sostenne che niente è nel nostro intelletto che non sia stato prima nei sensi. Descartes, nei suoi romanzi, pretese che noi possedessimo idee metafisiche prima ancora di conoscere le mammelle della nostra nutrice; una facoltà di teologia proscrisse questa tesi, non perché fosse un errore, ma perché era una novità; in seguito, adottò quest'errore per il fatto che era stato demolito da Locke, filosofo inglese, e bisognava pure che un inglese avesse torto. Finalmente, dopo avere tanto spesso cambiato parere, essa tornò a proscrivere quell'antica verità, che i sensi sono le porte dell'intelletto. Fece come i governi oberati di debiti, che ora danno corso a certi biglietti, ora li svalutano: ma già da un pezzo nessuno vuole più biglietti del genere.

Tutte le università del mondo non impediranno mai ai filosofi di credere che noi cominciamo col sentire e che la nostra memoria non è altro che una sensazione continuata. Un uomo che nascesse privo dei suoi cinque sensi sarebbe privo di qualsiasi idea, se potesse vivere. Le nozioni metafisiche ci arrivano solo dai sensi: come potremmo misurare un cerchio o un triangolo, se non avessimo mai visto e toccato cerchi e triangoli? Come farsi un'idea imperfetta dell'infinito, se non allontanando ogni limite? E come togliere dei limiti, senza averne mai visti o sentiti?

La sensazione avvolge tutte le nostre facoltà, disse un gran filosofo.

Che concludere da tutto questo? Concludete voi, che leggete e pensate.

I greci avevano inventato la facoltà $øõ÷Þ$ per la sensazione, e la facoltà $íï(tm)ò$ per il pensiero. Disgraziatamente noi ignoriamo cosa siano queste due facoltà: le possediamo, ma la loro origine è sconosciuta a noi quanto alle ostriche, alle alghe,ai polipi, ai vermi e alle piante. Per quale misterioso meccanismo il sentire ci invade tutto il corpo, e il pensiero soltanto la testa? Se vi tagliano la testa, non è probabile che possiate risolvere un problema di geometria: eppure, la vostra ghiandola pineale, il vostro corpo calloso, nel quale alloggiate l'anima, continuano a sussistere a lungo senza alterazioni; e la vostra testa tagliata è talmente piena di spiriti vitali, che spesso si muove pur dopo essere stata separata dal tronco: sembra anzi che essa abbia in quel momento idee molto chiare, e che somigli alla testa d'Orfeo che, quando la gettarono nelle acque dell'Ebro, emanava ancora musica, cantando di Euridice.

Se voi non pensate più, appena vi han tagliato la testa, come mai il vostro cuore continua a pulsare, se vi viene strappato via?

Voi - dite - sentite, perché tutti i nervi hanno la loro origine nel cervello; eppure, se vi hanno trapanato il cranio e bruciato il cervello, non sentite più niente. Chi conosce le ragioni di tutto ciò è bravo davvero.

 

SENSO COMUNE

 

Si trova, qualche volta, in certi detti popolari, un'immagine che riflette quel che avviene in fondo al cuore di tutti gli uomini. Presso i romani, sensus communis significava non solo senso comune, ma umanità, sensibilità. Poiché noi valiamo meno dei romani, questa locuzione significa per noi solo la metà di quel che significava per loro: per noi significa buonsenso, ragione grossolana, ragione incipiente, prima nozione delle cose ordinarie, stato intermedio fra la stupidità e l'intelligenza. «Quell'uomo non ha senso comune», è una grossa ingiuria. «Quell'uomo ha senso comune» è ugualmente un'ingiuria: perché significa che non è del tutto stupido, ma nemmeno dotato di ciò che chiamiamo ingegno. Ma da dove deriva l'espressione «senso comune» se non dai sensi? Quando la inventarono, gli uomini credevano che nulla penetrasse nell'anima se non attraverso i sensi; altrimenti, avrebbero usato la parola «senso» per indicare il modo comune di ragionare?

Si dice talvolta: «Il senso comune è molto raro.» Che significa questa frase? Che in molti uomini la ragione incipiente viene impedita a svilupparsi da qualche pregiudizio; che il tal uomo, che giudica del tutto rettamente in una materia, s'ingannerà sempre grossolanamente in un'altra. Quell'arabo, che pur sarà un ottimo calcolatore, un dotto chimico, un astronomo esatto, crederà tuttavia che Maometto abbia infilato mezza luna nella sua manica.

Perché costui, che ha superato il senso comune nelle tre scienze di cui parlo, resta invece al di sotto di esso quando si tratta di quella mezza luna? Perché nei primi casi egli ha veduto con i propri occhi e ha perfezionato la propria intelligenza; e nel secondo ha veduto con gli occhi altrui, ha chiuso i propri, e pervertito il senso comune che è in lui.

Come può avvenire questo singolare pervertimento del giudizio? E come mai le idee, che procedono con passo tanto fermo e regolare nel suo cervello su un gran numero d'argomenti, possono zoppicare così miseramente a proposito di un altro argomento mille volte più tangibile e facile da comprendere? Quell'uomo ha sempre in sé i medesimi principi d'intelligenza: bisogna dunque che ci sia in lui qualche organo viziato, come accade talvolta che il ghiottone più raffinato abbia un gusto depravato per qualche specie particolare di cibo.

E in qual modo s'è viziato l'organo di quell'arabo, che vede metà della luna nella manica di Maometto? Per paura. Gli han detto che se non credeva a quella manica, la sua anima, immediatamente dopo la morte, passando sul ponte aguzzo, sarebbe caduta per sempre nell'abisso. E gli hanno detto, anche di peggio: «Se mai tu dubitassi di quella manica, un derviscio ti tratterà da empio; un altro ti dimostrerà che sei un insensato, perché avendo tutti i motivi possibili per credere, non hai voluto sottomettere la tua superba ragione all'evidenza; un terzo ti deferirà al piccolo Divano di una piccola provincia, e sarai legalmente impalato.»

Tutto questo ispira un terrore panico al buon arabo, a sua moglie, a sua sorella, a tutta la sua famigliola. Per il resto sono dotati di buon senso; ma su questo punto la loro immaginazione è malata, come quella di Pascal, che vedeva sempre un precipizio accanto alla sua poltrona. Ma il nostro arabo crede veramente alla manica di Maometto? No: ma si sforza di credere, e dice: «È una cosa impossibile, ma è vera; io credo a quel che non credo.» E così si ficca in testa, a proposito di quella manica, un caos di idee che non osa sbrogliare: e questo, in verità, significa non avere senso comune.

 

SETTA

 

Ogni setta, di qualunque genere sia, è l'insieme del dubbio e dell'errore. Scotisti, tomisti, realisti, nominalisti, papisti, calvinisti, molinisti, giansenisti, non sono che nomi di guerra.

Non ci sono sette in geometria: non si dice «un euclidiano», o «un archimediano».

Quando la verità è evidente, è impossibile che sorgano partiti e fazioni. Mai s'è disputato se a mezzogiorno sia giorno o notte.

Essendo ormai conosciuta la parte dell'astronomia che si riferisce al corso degli astri e al ritorno delle eclissi, non ci sono più dispute fra gli astronomi.

In Inghilterra, non si dice mai: «Io sono newtoniano, io sono lockiano, io sono halleyano». Perché? Perché chiunque li abbia studiati, non può rifiutare il suo consenso alle verità insegnate da questi tre grandi uomini. Più vien riverito Newton, e meno ci si dice newtoniani: parola, questa, che potrebbe far supporre che ci sono in Inghilterra degli antinewtoniani. Noi, in Francia, abbiamo forse ancora alcuni cartesiani, ma unicamente perché il sistema di Descartes è un tessuto di fantasie erronee.

Lo stesso accade per quel piccolo numero di verità di fatto che sono ben assodate. Poiché gli atti della Torre di Londra furono scrupolosamente raccolti da Rymer, non esistono rymeriani, perché nessuno pensa a dubitare dell'autenticità di quella raccolta. Non vi si trovano né contraddizioni, né assurdità, né prodigi: niente che offenda la ragione; niente, quindi, che dei settari possano sforzarsi di sostenere o di confutare con ragionamenti assurdi. Tutti sono d'accordo, dunque, che gli Atti di Rymer sono degni di fede.

Voi siete musulmano; dunque c'è gente che non lo è; dunque, potreste aver torto.

Quale sarebbe la vera religione, se non esistesse il cristianesimo? Quella in cui non ci fossero sette e in cui tutti gli animi fossero necessariamente d'accordo.

Ora, in quale dogma gli animi si son tutti accordati? Nell'adorazione di un Dio e nella probità. Tutti i filosofi del mondo che han creduto in una religione dissero, in tutti i tempi: «C'è un Dio, e bisogna essere giusti.» Ecco, dunque, stabilita la religione universale da sempre e per sempre e per tutti gli uomini.

Il punto nel quale tutti si accordano è dunque vero; e i sistemi in cui differiscono sono falsi.

«La mia setta è la migliore di tutte,» mi dice un bramino. Ma, amico mio, se la tua setta è buona, è necessaria; perché, se non fosse assolutamente necessaria, convieni con me che sarebbe inutile; se è assolutamente necessaria, è tale per tutti gli uomini: come va, allora, che non tutti gli uomini hanno ciò che è loro assolutamente necessario? Perché il resto della terra non si cura di te e del tuo Brahma?

Quando Zoroastro, Ermes, Orfeo, Minosse e tutti i grandissimi uomini dicono: «Adoriamo Dio e siamo giusti,» nessuno ride; ma tutti prendono a fischi chi pretende che non si può piacere a Dio se non si muore tenendo in mano una coda di vacca, se non ci si fa tagliare l'estremità del prepuzio, se non si consacrano coccodrilli e cipolle, se non si fa dipendere la salvezza eterna da certi ossicini di morti che si portano sotto la camicia, oppure da un'indulgenza plenaria che si compera a Roma per due soldi e mezzo.

Donde viene questo universale concorso di fischi e di risate che esplodono da un capo all'altro del mondo? Bisogna pure che le cose di cui il mondo si burla non brillino per una loro verità evidente. Che ne diremmo di quel segretario di Seiano, che dedicò a Petronio uno scritto ampolloso, intitolato: «La verità degli oracoli sibillini provata dai fatti»?

Quel segretario vi mostra anzitutto che era necessario che Dio inviasse sulla terra parecchie Sibille, l'una dopo l'altra, perché non aveva altri mezzi per istruire gli uomini. È dimostrato che Dio parlava a queste sibille, perché la parola «sibilla» significa «consiglio di Dio». Esse dovevano vivere a lungo, perché le persone cui Dio parla devono avere almeno tale privilegio. Furono in numero di dodici, perché questo numero è sacro. Avevano certamente predetto tutti gli eventi del mondo, perché Tarquinio il Superbo acquistò da una vecchietta, per cento scudi, tre dei loro libri. «Quale incredulo,» aggiunge il segretario, «oserà negare tutti questi fatti evidenti, accaduti al cospetto di tutti gli uomini? Chi potrà negare il compimento delle loro profezie? Lo stesso Virgilio non ne citò le predizioni? E se non possediamo più i primi esemplari dei libri sibillini, scritti in un tempo in cui non si sapeva né leggere, né scrivere, non ne abbiamo forse copie autentiche? L'empietà deve tacere, davanti a queste prove.» Così parlava Huttevillus a Seiano. Sperava così d'essere compensato con un posto di augure che gli fruttasse cinquantamila lire di rendita. Ma non ne ebbe nemmeno una lira.

«Quel che insegna la mia setta è oscuro, lo ammetto,» dice un fanatico. «Ma è proprio a causa di questa oscurità che bisogna credervi, perché essa stessa afferma di essere piena di oscurità. La mia setta è stravagante, dunque è divina: infatti, come mai quello che sembra così insensato sarebbe stato creduto da tanti popoli, se non contenesse in sé alcunché di divino? È proprio esattamente come il Corano, di cui i sunniti dicono che ha una faccia d'angelo e una di bestia; non scandalizzatevi del muso della bestia, e riverite la faccia dell'angelo.» Così parla questo insensato. Ma un fanatico di un'altra setta gli risponde: «Sei tu la bestia, e l'angelo sono io.»

Chi potrà giudicare un processo simile? Chi deciderà tra questi due energumeni? L'uomo ragionevole, imparziale, sapiente di una scienza che non sia puramente verbale; l'uomo libero da pregiudizi e amante della verità e della giustizia; l'uomo, insomma, che non è una bestia, e non crede di essere un angelo.

 

SOGNI

 

Somnia, quae ludunt animos volitantibus umbris,

Non delubra deum nec ab aethere numina mittunt,

Sed sua quisque facit.

Ma perché, quando tutti i vostri sensi sono spenti nel sonno, ce n'è uno interno che resta vivo? Perché, mentre i vostri occhi non vedono più e le vostre orecchie non odono niente, tuttavia nei vostri sogni vedete e udite? Il cane, in sogno, va a caccia: abbaia, insegue la sua preda, la divora. Il poeta crea versi dormendo, il matematico vede figure, il metafisico ragiona, bene o male: ne abbiamo esempi stupefacenti.

Sono forse i soli organi della macchina corporea che agiscono? È l'anima pura, che, sottratta all'imperio dei sensi, gode dei suoi diritti in piena libertà?

Se gli organi da soli producono i sogni della notte, perché non produrranno da soli le idee del giorno? Se l'anima pura, tranquilla per il riposo dei sensi, agendo da sé, è l'unica causa, l'unico soggetto di tutte le idee che vi vengono dormendo, perché tutte quelle idee sono quasi sempre irregolari, irrazionali, incoerenti? Come! proprio nei momenti in cui l'anima è meno turbata, c'è maggior turbamento in tutte le sue fantasie? Essa è in libertà, ed è pazza! Se fosse nata con idee metafisiche, come han confermato tanti scrittori che sognavano ad occhi aperti, le sue idee, pure e luminose, dell'essere, dell'infinito, di tutti i primi principi, dovrebbero ridestarsi in lei con la massima energia, quando il suo corpo giace addormentato; e mai si sarebbe tanto buoni filosofi come quando si sogna.

Qualunque sistema abbracciate, qualunque vano sforzo compiate per provare a voi stessi che la memoria sommuove il vostro cervello e che questo sommuove la vostra anima, dovete riconoscere che tutte le vostre idee vi vengono nel sonno senza il vostro consenso, anzi vostro malgrado; la vostra volontà non vi ha nessuna parte. È dunque certo che potete pensare per sette o otto ore senza avere la minima volontà di pensare: anzi, senza nemmeno esser sicuri di pensare. Riflettete su questo, e cercate d'indovinare quale sia la composizione dell'animale.

I sogni sono sempre stati un grande oggetto di superstizione: niente di più naturale. Un uomo, vivamente turbato per la malattia della sua amante, sogna di vederla moribonda; essa muore l'indomani: gli dei, dunque, gli han predetto la sua morte.

Un generale d'armata sogna di vincere una battaglia, e in effetti la vince: gli dei l'hanno avvertito che avrebbe vinto.

Si tiene conto solo dei sogni che si sono avverati; gli altri li dimentichiamo. I sogni hanno una grossa parte nella storia antica, così come gli oracoli.

La Vulgata traduce così la fine del versetto 26 del capitolo XIX del Levitico: «Non darete peso ai sogni.» Ma la parola «sogno» non è nel testo ebraico: e sarebbe strano che si condannasse l'osservazione dei sogni nel medesimo libro in cui si narra che Giuseppe diventò il benefattore dell'Egitto e della sua famiglia per avere spiegato tre sogni.

L'interpretazione dei sogni era cosa tanto comune che non ci si limitava ad essa: bisognava anche indovinare ciò che un altr'uomo aveva sognato. Nabucodonosor, avendo dimenticato un sogno che aveva fatto, ordinò ai suoi maghi d'indovinarlo, minacciandoli di morte se non ci fossero riusciti; ma l'ebreo Daniele, che era della scuola dei maghi, salvò loro la vita indovinando il sogno del re e interpretandolo. Questa storia e molte altre potrebbero servire a provare che la legge degli ebrei non vietava l'oniromanzia, che è la scienza dei sogni.

 

STATI, GOVERNI. QUAL'È IL MIGLIORE?

 

Fino ad oggi non ho conosciuto persona che non abbia governato qualche Stato. Non parlo dei signori ministri, che governano in effetto, chi per due o tre anni, chi per sei mesi e chi per sei settimane; parlo di tutti gli altri uomini che, a cena o nel loro gabinetto, espongono il loro sistema di governo, riformando gli eserciti, la Chiesa, la magistratura e le finanze.

L'abate di Bourzeis si mise a governare la Francia verso l'anno 1645, sotto il nome del cardinale di Richelieu e scrisse quel Testamento politico, nel quale vuole arruolare la nobiltà nella cavalleria per tre anni; far pagare la taglia alle camere dei conti e ai parlamenti, privare il re dei proventi della gabella; e afferma in particolare che, per entrare in guerra con cinquantamila uomini, bisogna, per economia, arruolarne centomila; dichiara che «la sola Provenza ha molti più porti di mare della Spagna e dell'Italia messe assieme».

L'abate di Bourzeis non aveva viaggiato. Del resto la sua opera pullula di anacronismi e di errori: fa firmare il cardinale di Richelieu in una maniera che egli non usò mai, lo fa parlare come mai parlò. Per di più, impiega un intero capitolo per dire che «la ragione deve essere la regola di uno Stato» e sforzandosi di provare tale scoperta. Quest'opera delle tenebre, questo bastardo dell'abate di Bourzeis passò a lungo per il figlio legittimo del cardinale di Richelieu; e tutti gli accademici, nei loro discorsi di recezione, non mancavano di lodare a dismisura questo capolavoro di politica.

Messer Gatien de Courtilz, visto il successo del Testamento politico di Richelieu, fece stampare all'Aja il Testamento di Colbert, con una bella lettera del signor Colbert al re. È chiaro che se questo ministro avesse scritto un simile testamento, si sarebbe dovuto interdirlo; tuttavia, questo libro è stato citato da qualche autore. Un altro furfante, di cui si ignora il nome, non mancò di darci il Testamento di Louvois, ancora peggiore, se possibile, di quello di Colbert; e un abate di Chevremont fece testare anche Carlo, duca di Lorena. Abbiamo poi avuto i testamenti politici del cardinale Alberoni, del maresciallo di Belle-Isle, e infine quello di Mandrin.

Il signor de Boisguillebert, autore di Le Détail de la France, stampato nel 1695, sotto il nome del maresciallo di Vauban, presentò il suo ineseguibile progetto della decima regale.

Un pazzo, di nome La Jonchère, povero in canna, compose, nel 1720, un progetto finanziario in quattro volumi; e certi stupidi hanno citato questa produzione come un'opera di La Jonchère, tesoriere generale, sicuri che un tesoriere non potrà mai scrivere un cattivo libro di finanze.

Ma bisogna ammettere che uomini molto saggi, e forse molto degni di governare, scrissero sull'amministrazione degli Stati, sia in Francia, sia in Spagna, sia in Inghilterra. I loro libri fecero un gran bene: non che, quando quei libri uscirono, abbiano corretto i ministri in carica, perché un ministro non si corregge e non può correggersi: ormai sta in alto, niente più istruzioni né consigli; non ha tempo d'ascoltarli, la corrente degli affari lo travolge. Ma quei buoni libri formano i giovani destinati alle cariche; formano i principi, e la seconda generazione è istruita.

Il buono e il cattivo di tutti i governi sono stati esaminati profondamente in questi ultimi tempi. Ditemi dunque, voi che avete viaggiato, che avete letto e veduto, in quale Stato, sotto quale specie di governo vorreste essere nato? È chiaro che un gran signore terriero francese non sarebbe scontento d'essere nato in Germania: sarebbe sovrano, invece d'essere suddito; e che un pari di Francia sarebbe molto lieto di godere i privilegi della parìa inglese: sarebbe legislatore.

Il magistrato e il finanziere si troverebbero meglio in Francia che altrove.

Ma quale patria sceglierebbe un uomo saggio, libero, dotato di non larghi mezzi, e senza pregiudizi?

Un membro del consiglio di Pondichéry, abbastanza colto, ritornava in Europa per via di terra con un bramino, più istruito dei comuni bramini. «Come trovate il Governo del Gran Mogol?» chiese il consigliere. «Abominevole,» rispose il bramino. «Come volete che uno Stato possa essere ben governato dai tartari? I nostri ragià, i nostri omra, i nostri nababbi ne sono molto contenti, ma i cittadini non lo sono affatto, e milioni di cittadini contano qualcosa.»

Il consigliere e il bramino attraversarono ragionando tutta l'Asia superiore. «Avete osservato?» disse il bramino. «In questa vasta parte del mondo non c'è neppure una repubblica.» «C'è stata una volta quella di Tiro,» disse il consigliere, «ma non è durata a lungo. Ce n'era anche un'altra verso l'Arabia Petrea, in un piccolo paese chiamato Palestina, se si può onorare col nome di repubblica un'orda di ladri e usurai, governata ora da giudici, ora da re, ora da sommi pontefici, divenuta schiava sette o otto volte e infine cacciata dal paese che aveva usurpato.»

«Capisco,» disse il bramino, «che sulla terra si trovino pochissime repubbliche. Gli uomini sono ben di rado degni di governarsi da soli. Questa fortuna non può toccare che a piccoli popoli che si nascondono in isole o tra le montagne, come dei conigli che stanno alla larga dagli animali carnivori; ma alla lunga vengono scoperti e divorati.»

Quando i due viaggiatori arrivarono nell'Asia Minore, il consigliere disse al bramino: «Credereste mai che ci fu una repubblica, fondata in un angolo dell'Italia, che durò più di cinquecento anni e che fu padrona di quest'Asia Minore, dell'Asia, dell'Africa, e ancora della Grecia, delle Gallie, della Spagna e di tutta l'Italia?» «Dunque ben presto si trasformò in monarchia?» disse il bramino. «Avete indovinato,» disse l'altro, «ma quella monarchia crollò, e noi facciamo tutti i giorni belle dissertazioni per scoprire le cause della sua decadenza e della sua caduta.» «Perdete tempo e basta,» disse l'indiano: «quell'impero è caduto perché esisteva. Bisogna pure che tutto cada; spero che capiti altrettanto all'impero del Gran Mogol.» «A proposito,» disse l'europeo, «credete anche voi che in uno Stato dispotico importi più l'onore e, in una repubblica, la virtù?» L'indiano, dopo essersi fatto spiegare dall'altro che cosa intendesse per onore, rispose che l'onore era più necessario in una repubblica, e che c'era maggior bisogno di virtù in uno Stato monarchico. «Perché,» disse, «un uomo che pretende d'essere eletto dal popolo, non lo sarà, se è disonorato; invece a corte potrà facilmente ottenere qualche carica, secondo la massima di un grande principe, che un cortigiano, per riuscire, non deve avere né onore né spirito. Quanto alla virtù, a corte occorre possederne a dismisura per osar dire la verità. L'uomo virtuoso vive molto più a suo agio in una repubblica: non deve adulare nessuno.»

«Credete» disse l'europeo, «che le leggi e le religioni debbano adattarsi ai vari climi, come a Mosca si portano pellicce e veli a Delhi?» «Sì, senza dubbio,» rispose il bramino; «tutte le leggi che concernono la fisica sono calcolate in rapporto al meridiano in cui si abita; a un tedesco basta una sola donna, e a un persiano ne occorrono tre o quattro. I riti religiosi sono della stessa natura: se fossi cristiano, come potrei dir messa al mio paese, dove non c'è né pane né vino? Per quel che riguarda i dogmi, è diverso: il clima non c'entra affatto. La vostra religione non è forse nata in Asia, da dove venne cacciata? Non si è propagata fin verso il mar Baltico, dove era ignota?» «In quale Stato, sotto quale governo vorreste vivere?» chiese il consigliere. «Dappertutto, fuorché nel mio paese,» rispose il suo compagno. «E ho trovato molti siamesi, tonchinesi, persiani e turchi, che dicevano la stessa cosa.» «Ma ancora una volta,» disse l'europeo, «quale Stato scegliereste?» «Quello nel quale si obbedisce solo alle leggi,» rispose il bramino. «È una vecchia risposta,» disse il consigliere. «Ma pur sempre giusta,» disse il bramino. «E dov'è mai questo paese?» chiese il consigliere. Il bramino rispose: «Bisogna cercarlo.»

 

STORIA DEI RE EBREI E PARALIPOMENI

 

Tutti i popoli scrissero la loro storia, non appena impararono a scrivere. Anche gli ebrei scrissero la loro. Prima che avessero dei re, vivevano sotto una teocrazia; presumevano d'essere governati da Dio stesso.

Quando gli ebrei vollero avere un re, come gli altri popoli vicini, il profeta Samuele dichiarò loro, da parte di Dio, che essi ripudiavano Dio stesso; così tra gli ebrei la teocrazia ebbe fine non appena ebbe inizio la monarchia.

Si potrebbe dunque dire senza bestemmiare che la storia dei re ebrei fu scritta come quella degli altri popoli e che Dio non si dette la pena di dettare lui stesso la storia di un popolo che non governava più.

Si sostiene questa teoria con estrema diffidenza. Ciò che potrebbe confermarla è il fatto che i Paralipomeni contraddicono spessissimo il Libro dei Re, nella cronologia e nei fatti, come talvolta si contraddicono i nostri storici profani. Inoltre, se Dio scrisse sempre la storia degli ebrei, bisogna credere che Egli continui a scriverla, dato che gli ebrei sono sempre il suo popolo eletto. Essi dovranno convertirsi un giorno, e sembra che allora avranno anche il diritto di considerare come sacra la storia della loro dispersione, così come oggi hanno il diritto di dire che Dio scrisse la storia dei loro re.

Si può fare anche un'altra riflessione: poiché Dio fu il loro solo re per tanto tempo, e fu in seguito il loro storico, noi dobbiamo avere per tutti gli ebrei il rispetto più profondo.

Non c'è rigattiere ebreo che non sia infinitamente superiore a Cesare e ad Alessandro. Come non prosternarsi davanti a un rigattiere il quale vi dimostra che la sua storia fu scritta da Dio stesso, mentre le storie dei greci e dei romani ci vennero trasmesse da poveri profani?

Se lo stile del Libro dei re e dei Paralipomeni è divino, può anche darsi che le azioni raccontate in quelle storie non siano divine: David assassina Uria; Isboset e Mifiboset muoiono assassinati; Assalonne assassina Amnone; Joab assassina Assalonne; Salomone assassina Adonia, suo fratello; Baasa assassina Nadab; Zimri assassina Ela; Omri assassina Zimri; Achab assassina Naboth; Jehv assassina Achab e Joram; gli abitanti di Gerusalemme assassinano Amasia, figlio di Joas; Sellum, figlio di Jabesh, assassina Zaccaria, figlio di Geroboamo; Menahem assassina Sellum, figlio di Jabesh; Facee, figlio di Romelia, assassina Faceia, figlio di Menahem; Osea, figlio di Ela, assassina Facee, figlio di Romelia. E passiamo sotto silenzio altri assassinii di minor conto. Bisogna riconoscere che, se fu lo Spirito Santo a scrivere questa storia, non scelse certo un argomento molto edificante.

 

SUPERSTIZIONE

 

I

 

Capitolo tratto da Cicerone, da Seneca e da Plutarco

Quasi tutto quello che va oltre l'adorazione di un Essere supremo e la sottomissione del cuore ai suoi ordini eterni è superstizione. Ce n'è una pericolosissima: il perdono dei crimini dovuto a certe cerimonie.

Et nigras mactant pecudes, et manibus divis

Inferias mittunt.

Oh! faciles nimium qui tristia crimina caedis

Fluminea tolli posse putatis aqua!

Voi pensate che Dio dimenticherà il vostro omicidio, se vi bagnate in un fiume, se immolate una pecora nera, e se vengono pronunziate su voi certe parole. Un secondo omicidio ci sarà dunque perdonato per lo stesso prezzo, e anche un terzo; e cento assassinii non vi costeranno che cento pecore nere e cento abluzioni! Fate qualcosa di meglio, miserabili mortali: niente assassinii e niente pecore nere!

Che idea infame immaginare che un sacerdote di Iside e di Cibele, suonando cembali e nacchere, vi riconcilierà con la Divinità! E chi è mai dunque questo sacerdote di Cibele, questo eunuco vagabondo che vive delle vostre debolezze, per pretendere di essere il mediatore fra il cielo e voi? Quali patenti ha ricevuto da Dio? Egli riceve del denaro da voi per borbottare certe parole, e voi pensate che l'Essere degli esseri ratifichi le parole di quel ciarlatano?

Ci sono superstizioni innocenti: voi danzate, nei giorni di festa, in onore di Diana o di Pomona o di qualcuno di quegl'iddii secondari di cui è pieno il vostro calendario: niente di male. La danza è assai dilettevole, fa bene al corpo, rallegra l'animo, non fa male a nessuno; ma non crediate che Pomona e Vertumno vi siano molto grati per aver fatto quattro salti in onor loro, o che vi puniscano se non li avete fatti. Non c'è altra Pomona o altro Vertumno che la vanga o la zappa dell'ortolano. Non siate tanto stupidi da credere che il vostro orto sarà colpito dalla grandine se non avrete danzato la pirrica o il cordace.

C'è forse una superstizione scusabile e che può anzi incoraggiare la virtù: quella di porre fra gli dei i grandi uomini che furono i benefattori del genere umano. Senza dubbio, sarebbe meglio limitarsi a considerarli semplicemente come uomini venerabili, e, soprattutto, cercare di imitarli. Venerate senza culto alcuno un Solone, un Talete, un Pitagora; ma non adorate un Ercole perché pulì le stalle di Augia o perché possedette in una sola notte cinquanta ragazze.

Guardatevi soprattutto dallo stabilire un culto per degli esaltati, che non ebbero altro merito che l'ignoranza, l'entusiasmo e la sozzura; che si fecero un vanto e un dovere dell'ozio e della mendicità; coloro che furono per lo meno inutili, durante la loro vita, meritano l'apoteosi dopo la morte?

Non dimenticate che le età più superstiziose furono sempre quelle in cui si compirono i più mostruosi delitti.

II

Il superstizioso sta alla canaglia come lo schiavo al tiranno. C'è di più: il superstizioso è governato dal fanatico, e diventa tale anche lui. La superstizione, nata nel paganesimo, accolta dal giudaismo, infettò la Chiesa cristiana sin dai suoi primi tempi. Tutti i Padri della Chiesa, senza eccezione, credettero al potere della magia. La Chiesa condannò sempre la magia, ma vi credette sempre: non scomunicò gli stregoni come pazzi piombati nell'errore, ma come uomini che avevano realmente commercio con i demoni.

Oggi, metà dell'Europa crede che l'altra metà sia stata e sia ancora superstiziosa. I protestanti considerano le reliquie, le indulgenze, le macerazioni, le preghiere per i defunti, l'acqua benedetta e quasi tutti i riti della Chiesa romana una superstiziosa follia. La superstizione, secondo loro, consiste nel considerare necessarie certe pratiche inutili. Tra i cattolici romani, ce ne sono alcuni più illuminati dei loro avi, che hanno rinunciato a molte di queste usanze un tempo sacre, e si scusano delle altre, che conservano, dicendo: «Sono cose indifferenti, e quel che è solo indifferente non può essere un male.»

È difficile segnare i limiti della superstizione. Un francese che viaggi in Italia trova quasi ovunque dei superstiziosi, e forse non ha torto. L'arcivescovo di Canterbury reputa superstizioso l'arcivescovo di Parigi; i presbiteriani muovono lo stesso rimprovero all'arcivescovo di Canterbury, e sono a loro volta trattati da superstiziosi dai quaccheri, che, a giudizio degli altri cristiani, sono i più superstiziosi di tutti.

Nessuno è d'accordo, dunque, nelle comunità cristiane, su quel che sia la superstizione. La setta che sembra meno colpita da questa malattia dello spirito è quella che ha meno riti. Ma se, pur con poche cerimonie, è fortemente legata a una credenza assurda, questa credenza equivale, essa sola, a tutte le pratiche superstiziose osservate da Simone Mago fino al parroco Gauffridi.

Risulta perciò evidente che è l'essenziale della religione di una setta a venir considerato come superstizione da un'altra setta.

I musulmani accusano di superstizione tutte le comunità cristiane, e ne sono a loro volta accusati. Chi giudicherà questo gran processo? La ragione? Ma ogni setta pretende di avere la ragione dalla propria parte. Sarà dunque la forza a decidere, nell'attesa che la ragione penetri in un numero abbastanza grande di teste da poter disarmare la forza.

Per esempio, ci fu un tempo in cui, nell'Europa cristiana, non era permesso ai novelli sposi di godere dei diritti del matrimonio, senza aver prima acquistato tale diritto dal vescovo o dal curato.

Chiunque, nel suo testamento, non avesse lasciato parte dei suoi beni alla Chiesa, veniva scomunicato e privato della sepoltura. Questo si chiamava «morire non confesso», ossia senza confessare la religione cristiana. E quando un cristiano moriva intestato, la Chiesa liberava il defunto da tale scomunica, facendo testamento per lui, stipulando e facendosi pagare i pii lasciti che il defunto avrebbe dovuto fare. Fu per questo che papa Gregorio IX e san Luigi ordinarono, dopo il concilio di Narbona del 1235, che ogni testamento per il quale non si fosse chiamato un prete, sarebbe stato nullo; e il papa stabilì che il testatore ed il notaio sarebbero stati scomunicati.

La tassa sui peccati fu ancora, se è possibile, più scandalosa. Era la forza che dava validità a tutte queste leggi cui si sottometteva la superstizione dei popoli; e solo col tempo la ragione riuscì ad abolire queste vergognose vessazioni, pur lasciandone sussistere parecchie altre.

Fino a qual punto la politica permette che si distrugga la superstizione? È, questa, una questione assai spinosa, come chiedere fino a che punto si può toglier acqua a un idropico, che potrebbe morire durante l'operazione. Dipende dalla prudenza del medico.

Può esistere un popolo libero da qualunque pregiudizio superstizioso? È come chiedere: «Può esistere un popolo di filosofi?» Si dice che la magistratura della Cina non sia affatto superstiziosa. È verosimile che non lo resteranno le magistrature di alcune città d'Europa.

Allora quei magistrati impediranno che la superstizione del popolo sia pericolosa. Il loro esempio non servirà a illuminare la plebaglia, ma i più aperti fra i borghesi la terranno a freno. Non ci fu, un tempo, un solo tumulto, un solo attentato religioso in cui i borghesi non abbiano preso parte, perché anch'essi erano allora plebaglia; ma la ragione e i tempi finirono col cambiarli. E i loro costumi, addolciti, addolciranno quelli della massa più vile e feroce; ne abbiamo esempi sorprendenti in più d'un paese. In breve, meno superstizioni, meno fanatismo; e meno fanatismo, meno sofferenze.

 


Ultima modifica 12.01.2009