Voltaire

Dizionario Filosofico

 

T-V

 

 

 

 

TEISTA
TEOLOGO
TIRANNIA
TOLLERANZA

TORTURA
TRANSUSTANZIAZIONE
VANGELO
VIRTU'

 

 

 

 

TEISTA

 

Il teista è un uomo fermamente convinto dell'esistenza di un Essere supremo tanto buono che potente, che ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti, senzienti e pensanti; che perpetua la loro specie, punisce senza crudeltà le colpe e ricompensa con bontà le azioni virtuose.

Il teista non sa come Dio punisca, ricompensi e perdoni; poiché non è tanto temerario da lusingarsi di conoscere come Dio agisce; ma sa che Dio agisce ed è giusto. Le difficoltà contro la Provvidenza non scuotono affatto la sua fede, perché sono soltanto grandi difficoltà, non prove; è sottomesso a questa Provvidenza, sebbene ne scorga solo alcuni effetti e alcune apparenze; e, giudicando le cose che non vede da quelle che vede, pensa che essa si estenda a tutti i luoghi e a tutti i tempi.

Concorde in questo principio con il resto dell'universo, il teista non abbraccia alcuna setta, sapendo che tutte si contraddicono. La sua religione è la più antica e la più diffusa di tutte, perché la semplice adorazione di un Dio precedette tutti i sistemi del mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli intendono, mentre essi non si intendono affatto tra loro. Ha fratelli da Pechino alla Caienna, e considera fratelli suoi tutti gli uomini saggi. Egli crede che la religione non consista né nelle opinioni d'una metafisica inintelligibile, né in vani apparati, ma nell'adorazione e nella giustizia. Fare il bene, questo il suo culto; essere sottomesso a Dio, questa la sua dottrina. Il maomettano gli grida: «Guai a te se non farai il pellegrinaggio alla Mecca!»; e un recolletto gli dice: «Sventura a te se non vai a Loreto a pregare la Madonna!» Egli ride di Loreto e della Mecca, ma soccorre il povero e difende l'oppresso.

 

TEOLOGO

 

Ho conosciuto un vero teologo; parlava perfettamente le lingue dell'Oriente ed era istruito sugli antichi riti delle nazioni quant'è possibile esserlo. i brahmani, i caldei, gli ignicoli, i sabei, i siriani, gli egiziani gli erano altrettanto noti che gli ebrei; le diverse lezioni della Bibbia gli erano familiari; per trent'anni aveva cercato di conciliare i Vangeli e di mettere d'accordo i Padri della Chiesa. Aveva cercato di precisare in quali anni fu composto il Simbolo attribuito agli apostoli, e quello che va sotto il nome di Atanasio; come furono istituiti uno dopo l'altro i sacramenti; qual era la differenza tra la sinassi e la messa; perché e in che modo la Chiesa cristiana si divise, dopo la sua nascita, in diversi partiti e come la comunità dominante trattò tutte le altre da eretiche. Aveva scandagliato gli abissi della politica che si immischiava sempre in quelle liti, e aveva distinto tra la politica e la saggezza, fra l'orgoglio che vuole soggiogare gli animi, e il desiderio di illuminare se stessi, tra lo zelo e il fanatismo.

La difficoltà di mettere ordine nel proprio cervello in tante cose la cui natura invece è quella d'essere confuse, e di gettare un po' di luce su tanto buio, lo disgustò più di una volta; ma poiché quelle ricerche costituivano il dovere del suo stato, egli vi si impegnò totalmente, nonostante il disgusto. E raggiunse, infine, conoscenze ignorate dalla maggior parte dei suoi confratelli. E più crebbe la sua sapienza e più diffidò di tutto quel che sapeva. Finché visse, fu indulgente; e alla sua morte confessò di avere consumato inutilmente la sua vita.

 

TIRANNIA

 

Si chiama «tiranno» quel sovrano che non conosce altre leggi che il suo capriccio, che ruba gli averi dei suoi sudditi e poi li arruola per andare a rubare quelli dei suoi vicini. Di tali tiranni, in Europa, non ce ne sono.

Si distingue la tirannia di uno solo e quella di molti. Questa tirannia di molti sarebbe quella di un corpo che usurpasse i diritti degli altri corpi, e che esercitasse il dispotismo per mezzo delle leggi da lui corrotte. Non esistono nemmeno queste specie di tiranni in Europa.

Sotto quale tirannia preferireste vivere? Sotto nessuna; ma, se bisognasse scegliere, detesterei meno la tirannia di uno solo che quella di molti. Un despota ha sempre qualche momento di buonumore; un'assemblea di despoti non ne ha mai. Se un tiranno mi fa un'ingiustizia, potrò disarmarlo per mezzo della sua amante, del suo confessore o del suo paggio; ma una compagnia di cupi tiranni è inaccessibile ad ogni seduzione. Quando non è ingiusta, è per lo meno dura; e mai concede grazie.

Se vivo sotto un solo despota, me la cavo scansandomi contro un muro, appena lo vedo passare, o prosternandomi o battendo la fronte in terra, secondo i costumi dei vari paesi; ma se al governo c'è una compagnia di cento despoti, sono costretto a ripetere la cerimonia cento volte al giorno, il che alla lunga è assai noioso, quando non si abbiano le giunture pieghevoli. Se poi ho un podere vicino a quello di uno di questi signori, sarò schiacciato; se ho un processo contro un parente dei suoi parenti, sarò rovinato. Come fare? Ho paura che in questo mondo si sia ridotti ad essere incudine o martello: beato chi sfugge a questa alternativa!

 

TOLLERANZA

 

I

Che cos'è la tolleranza? È la prerogativa dell'umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente i nostri torti, è la prima legge di natura.

Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat, o di Bassora, il ghebro, il baniano, l'ebreo, il musulmano, il deicola cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero trafficano insieme; nessuno di loro leverà il pugnale contro un altro per guadagnare anime alla propria religione. Perché, allora, ci siamo scannati a vicenda quasi senza interruzione, dal primo concilio di Nicea in poi?

Costantino cominciò col promulgare un editto che permetteva tutte le religioni, e finì col perseguitarle. Prima di lui si era combattuto contro i cristiani solo perché cominciavano a costituire un partito nello Stato. I romani permettevano tutti i culti, perfino quelli degli ebrei e degli egiziani, per i quali provavano tanto disprezzo. Perché Roma li tollerava? Perché né gli egiziani, né gli stessi giudei, cercavano di distruggere l'antica religione dell'Impero; non correvano per le terre e per i mari a far proseliti: pensavano solo a far quattrini. Mentre è incontestabile che i cristiani volevano che la loro fosse la religione dominante. Gli ebrei non volevano che la statua di Giove stesse a Gerusalemme; ma i cristiani non volevano ch'essa stesse in Campidoglio. San Tommaso ha il coraggio di confessare che, se i cristiani non detronizzarono gli imperatori, fu solo perché non ci riuscirono. Convinti che tutta la terra dovesse essere cristiana, erano, dunque, necessariamente nemici di tutta la terra, finché questa non fosse convertita.

Erano inoltre nemici gli uni degli altri su tutti i punti controversi della loro religione. Bisogna, anzitutto, considerare Gesù Cristo come Dio? Coloro che lo negano vengono anatemizzati sotto il nome di ebioniti, i quali a loro volta anatemizzano gli adoratori di Gesù.

Alcuni vogliono che tutti i beni siano in comune, come si sostiene che lo fossero al tempo degli apostoli? I loro avversari li chiamano «nicolaiti», e li accusano dei più infami delitti. Altri tendono a una devozione mistica? Vengono chiamati «gnostici» e ci si scaglia contro di loro con furore. Marcione disputa sulla Trinità? Lo si tratta da idolatra.

Tertulliano, Prassea, Origene, Novato, Novaziano, Sabellio, Donato, sono tutti perseguitati dai loro fratelli, prima di Costantino; e appena questi ha fatto trionfare la religione cristiana, gli atanasiani e gli stessi eusebiani si massacrano a vicenda; e, da allora sino ad oggi, la Chiesa cristiana s'è inondata di sangue.

Il popolo ebreo era, lo ammetto, un popolo assai barbaro. Scannava senza pietà tutti gli abitanti di uno sventurato piccolo paese, sul quale non aveva più diritti di quanti ne abbia oggi su Parigi e su Londra. Tuttavia, quando Naaman guarì dalla lebbra per essersi immerso sette volte nel Giordano; quando, per testimoniare la sua gratitudine a Eliseo, che gli aveva insegnato quel segreto, gli disse che avrebbe adorato per riconoscenza il Dio degli ebrei, riservandosi però la libertà di adorare anche il Dio del suo re e ne chiese il permesso a Eliseo, il profeta non esitò a concederglielo. Gli ebrei adoravano il loro Dio, ma non si meravigliavano del fatto che ogni popolo adorasse il proprio. Trovavano giusto che Chemosh avesse concesso un certo distretto ai moabiti, purché Dio ne concedesse uno anche a loro. Giacobbe non esitò a sposare le figlie di un idolatra. Labano aveva il suo Dio, come Giacobbe aveva il suo. Ecco degli esempi di tolleranza presso il popolo più intollerante e crudele dell'antichità: noi lo abbiamo imitato nei suoi assurdi furori, e non nella sua indulgenza.

È chiaro che chiunque perseguiti un uomo, suo fratello, perché questi non è della sua opinione, è un mostro. Questo è indiscutibile. Ma il governo, i magistrati, i principi, come si comporteranno con coloro che professano un culto diverso dal loro? Se sono stranieri potenti, è certo che un principe farà alleanza con loro. Il cristianissimo Francesco I, si alleerà con i musulmani contro Carlo V re cristianissimo. Francesco I darà denaro ai luterani di Germania per sostenerli nella loro rivolta contro l'imperatore, ma comincerà, secondo l'uso, col far bruciare i luterani che sono nel suo regno: li finanzia in Sassonia per ragioni politiche; li brucia, per le stesse ragioni, a Parigi. E cosa succederà? Le persecuzioni fanno proseliti; e ben presto la Francia sarà piena di nuovi protestanti. Dapprima, essi si lasceranno impiccare; poi impiccheranno a loro volta. Ci saranno guerre civili, poi verrà la notte di san Bartolomeo; e questo angolo del mondo sarà peggio di tutto quanto gli antichi e i moderni dissero dell'inferno.

Insensati, che non avete mai saputo adorare con purezza di cuore il Dio che vi creò! Sciagurati, che non avete imparato niente dall'esempio dei noachidi, dei cinesi, dei parsi e di tutti i saggi. Mostri, che avete bisogno di superstizioni, come il becco dei corvi ha bisogno di carogne! Vi è già stato detto, e non c'è altro da dirvi: se nella vostra patria ci sono due religioni, gli uomini si scanneranno a vicenda; se ce ne sono trenta, vivranno in pace. Guardate il Gran Turco: egli governa dei ghebri, dei baniani, dei cristiani greci, dei nestoriani e dei romani. Il primo che tenta di provocare un tumulto viene impalato, e tutti vivono tranquilli.

II

Di tutte le religioni, la cristiana è senza dubbio quella che dovrebbe ispirare maggiore tolleranza, sebbene, sino ad oggi, i cristiani si sian mostrati i più intolleranti degli uomini.

Gesù, che si degnò di nascere nella povertà e nell'umiltà, come i suoi fratelli, non si degnò mai di praticare l'arte dello scrivere. Gli ebrei avevano una legge scritta fin nei minimi dettagli, e noi non possediamo una sola riga di mano di Gesù. Gli apostoli si divisero su parecchi punti: san Pietro e san Barnaba mangiavano carni proibite con i neocristiani stranieri e se ne astenevano con i cristiani ebrei; san Paolo rimproverò loro tale condotta; questo stesso Paolo, fariseo (discepolo del fariseo Gamaliele che aveva perseguitato con furore i cristiani), rompendo poi con Gamaliele, si fece a sua volta cristiano, e, più tardi, al tempo del suo apostolato, si recò a sacrificare nel tempio di Gerusalemme. Osservò pubblicamente per otto giorni tutte le cerimonie della legge giudaica, cui aveva rinunziato; vi aggiunse, anzi, devozioni e purificazioni: insomma «giudaizzò» in tutto e per tutto. Il più grande apostolo cristiano compì per otto giorni le stesse cose per cui oggi gran parte dei popoli cristiani condannano gli uomini al rogo.

Teuda, Giuda si eran detti «Messia», prima della venuta di Gesù. Dositeo, Simone, Menandro si dissero tali dopo Gesù. Sin dal primo secolo della Chiesa, prima ancora che fosse conosciuto il nome di «cristiano», c'erano già una ventina di sette in Giudea.

Gli gnostici contemplativi, i dositeani, i cerinzi esistevano già prima che i discepoli di Gesù avessero preso il nome di «cristiani». Ci furono ben presto trenta Vangeli, ognuno dei quali apparteneva a una diversa comunità; e sin dalla fine del I secolo si possono contare trenta sette di cristiani in Asia Minore, in Siria, in Alessandria ed anche in Roma.

Tutte queste sette, disprezzate dal governo romano e nascoste nell'oscurità, si perseguitavano tuttavia le une contro le altre nei sotteranei in cui strisciavano, scagliandosi ingiurie; era tutto quello che potevano fare, nella loro abiezione: erano quasi tutte composte dalla feccia del popolo.

Quando, infine, alcuni cristiani ebbero accolto i dogmi di Platone e mescolato un po' di filosofia alla loro religione, che separarono da quella ebraica, diventarono a poco a poco più rispettabili, ma sempre divisi in tante sette, senza che arrivasse mai un solo momento in cui la Chiesa cristiana fosse unita. Essa ebbe origine in mezzo alle divisioni degli ebrei, dei samaritani, dei farisei, dei sadducei, degli esseni, dei giudaiti, dei discepoli di Giovanni, dei terapeuti. Fu divisa fin dalla culla, lo fu perfino durante le persecuzioni che ebbe a patire talvolta sotto i primi imperatori. Spesso il martire era considerato un apostata dai suoi confratelli, e il cristiano carpocraziano moriva sotto la scure del boia romano, scomunicato dal cristiano ebionita, il quale era a sua volta anatemizzato dal sabelliano.

Questa orribile discordia, che dura da tanti secoli, è una grande lezione che dovrebbe spingere a perdonarci l'un l'altro i nostri errori: la discordia è la piaga mortale del genere umano, e la tolleranza ne è il solo rimedio.

Non c'è nessuno che non convenga su questa verità, sia che mediti a sangue freddo nel suo studio, sia che esamini pacatamente la questione con i suoi amici. Perché allora quegli stessi uomini che, in privato, ammettono l'indulgenza, la benevolenza, la giustizia, insorgono in pubblico con tanto furore contro queste virtù? Perché? Perché l'interesse è il loro dio e così sacrificano tutto a questo mostro che adorano.

«Io posseggo una dignità e una potenza, attribuitemi dall'ignoranza e dalla credulità: cammino sulle teste degli uomini prosternati ai miei piedi: se essi si sollevano da terra e mi guardano in faccia, sono perduto; bisogna dunque che li tenga giù con catene di ferro.»

Così han ragionato uomini resi potentissimi da secoli di fanatismo. Essi hanno sotto di loro altri potenti, e costoro ne hanno altri ancora, e tutti si arricchiscono con le spoglie del povero, si ingrassano col suo sangue, e ridono della sua imbecillità. Essi detestano tutti la tolleranza, come i faziosi arricchitisi a spese della collettività hanno paura di rendere i conti e, come i tiranni, temono la parola «libertà». E per colmo, assoldano dei fanatici che urlano: «Rispettate le assurdità del mio padrone, tremate pagate e tacete!»

Fu così che ci si comportò per lungo tempo in gran parte del mondo. Ma oggi, che tante sette si bilanciano con i loro poteri, quale partito prendere nei loro confronti? Ogni setta, come si sa, è sinonimo di errore: non ci sono sette di geometri, di algebrici, di matematici, perché tutte le proposizioni della geometria, dell'algebra e dell'aritmetica sono vere. In tutte le altre scienze si può sbagliare. Ma quale teologo tomista o scotista oserebbe affermare seriamente di essere sicuro del fatto suo?

Se c'è una setta che ricordi i tempi dei primi cristiani, essa è senza dubbio quella dei quaccheri. Nessun'altra somiglia di più alla comunità degli apostoli. Gli apostoli ricevevano lo Spirito, e i quaccheri anche. Gli apostoli e i loro discepoli parlavano a tre o quattro per volta nelle loro assemblee, che si tenevano al terzo piano, e i quaccheri fanno lo stesso a pianterreno. Alle donne era permesso, secondo san Paolo, di predicare, e, sempre secondo lo stesso santo, era loro proibito; le quacchere predicano in virtù della prima concessione.

Gli apostoli e i loro discepoli giuravano con un «sì» o con un «no»; e i quaccheri giurano allo stesso modo.

Nessun segno di distinzione addosso, nessun modo di vestire diverso fra i discepoli e gli apostoli; e i quaccheri hanno maniche senza bottoni e son tutti vestiti alla stessa maniera.

Gesù Cristo non battezzò nessuno dei suoi apostoli; i quaccheri non sono battezzati.

Sarebbe facile spingere più lontano questo parallelo; e ancora più facile mostrare quanto la religione cristiana dei nostri giorni differisca dalla religione che Gesù praticò. Gesù era ebreo, e noi non siamo ebrei; Gesù si asteneva dalla carne di maiale, animale immondo, e dalla carne di coniglio, perché esso rumina e non ha l'unghia fessa; noi mangiamo sfacciatamente il maiale perché per noi non è immondo, e mangiamo il coniglio, che ha l'unghia fessa e non rumina. Gesù era circonciso, e noi conserviamo intatto il nostro prepuzio. Gesù mangiava l'agnello pasquale con la lattuga, celebrava la festa dei tabernacoli, e noi non lo facciamo. Osservava il sabato, e noi lo abbiamo cambiato; sacrificava, e noi non sacrifichiamo più.

Gesù nascose sempre il mistero della sua incarnazione e della sua dignità: non disse mai di essere uguale a Dio, e san Paolo dice apertamente nella sua Epistola agli Ebrei che Dio creò Gesù inferiore agli angeli; ma, nonostante tutte le affermazioni di san Paolo, Gesù fu riconosciuto Dio al concilio di Nicea.

Gesù non regalò al papa né la marca di Ancona, né il ducato di Spoleto; e tuttavia il papa li possiede per diritto divino.

Gesù non fece un sacramento né del matrimonio né del diaconato; eppure, per noi, il diaconato e il matrimonio sono sacramenti.

Se l'esaminiamo a fondo, la religione cattolica, apostolica e romana è, in tutte le sue cerimonie e in tutti i suoi dogmi, l'opposto di quella di Gesù.

E con questo? Dovremmo forse tutti giudaizzare, perché Gesù giudaizzò per tutta la vita?

Se, in fatto di religione, fosse permesso di ragionare in modo coerente, è chiaro che dovremmo farci tutti ebrei, perché Gesù Cristo, nostro salvatore, nacque ebreo, visse ebreo, morì ebreo e disse chiaramente di essere venuto per compiere e adempiere la religione ebraica. Ma è più chiaro ancora che noi dobbiamo tollerarci a vicenda, perché siamo tutti deboli, incoerenti, soggetti all'incostanza e all'errore. Un giunco piegato dal vento nel fango dirà forse al giunco vicino, piegato in senso contrario: «Striscia come me, miserabile, o presenterò un'istanza perché ti si strappi dalla terra e ti si bruci»?

 

TORTURA

 

Benché vi siano poche voci che trattino di giurisprudenza in queste mie oneste riflessioni alfabetiche, bisogna pur dire una parola sulla tortura, altrimenti detta «interrogatorio». È un ben strano modo d'interrogare gli uomini. Eppure non furono dei semplici curiosi a inventarla: tutto fa credere che questa parte della nostra legislazione debba la sua prima origine a qualche ladrone di strada. La maggior parte di questi gentiluomini usano ancora i metodi di schiacciare i pollici, di bruciare le piante dei piedi e d'interrogare con altri tormenti chi si rifiuta di dir loro dove ha nascosto il suo denaro.

I conquistatori, succeduti a questi ladroni, trovarono tale invenzione molto utile per i loro interessi; la misero in uso quando sospettarono qualcuno di nutrire contro di loro qualche sinistro disegno, quello per esempio di voler essere libero: delitto, questo, di lesa maestà divina e umana. Bisognava inoltre conoscerne i complici; e, per riuscirci, si facevano soffrire mille morti a coloro che erano sospettati perché, secondo la giurisprudenza di questi primi eroi, chiunque fosse sospettato di aver avuto nei loro confronti qualche pensiero poco rispettoso, era degno di morte.

E quando uno s'è meritata così la morte, poco importa che vi si aggiungano supplizi spaventosi, per alcuni giorni o anche per alcune settimane: anzi, il tutto ha qualcosa di divino. Anche la Provvidenza ci mette talvolta alla tortura, adoperando il mal della pietra, la renella, la gotta, lo scorbuto, la lebbra, il vaiolo, la sifilide, il torcibudello, le convulsioni nervose e altrettanti strumenti delle sue vendette.

Ora, siccome i primi despoti furono, a giudizio di tutti i loro cortigiani, immagini della Divinità, essi la imitarono quanto poterono.

Assai singolare è il fatto che, nei libri ebraici, non si sia mai parlato di torture. È davvero un peccato che un popolo così mite, onesto, caritatevole, non abbia usato questo metodo per conoscere la verità. La ragione è, a mio avviso, che non ne aveva bisogno: Dio gliela faceva conoscere sempre, come si conviene al suo popolo prediletto. Ora si giocava la verità ai dadi, e il colpevole sospettato perdeva sempre. Ora si andava dal gran sacerdote, che consultava immediatamente Dio per mezzo dell'urim e del thummim; ora ci si rivolgeva a un veggente, a un profeta: e potete star sicuri che il veggente e il profeta scoprivano in quattro e quattr'otto le cose più segrete, altrettanto bene dell'urim e del thummim del gran sacerdote. Il popolo di Dio non era uso, come noi, a interrogare, a congetturare; così la tortura da loro non era praticata. Fu la sola cosa che mancò ai costumi di quel popolo santo. I romani inflissero la tortura solo agli schiavi, ma questi non erano considerati uomini. D'altronde, non è certo probabile che un consigliere della Tournelle consideri suo simile un uomo che gli venga portato davanti, smunto, pallido, sfatto, gli occhi spenti, la barba lunga e sporca, coperto dei parassiti da cui è stato rosicchiato nella sua cella. E così si concede il piacere di sottoporlo alla grande e alla piccola tortura, in presenza di un chirurgo che gli tasta il polso, finché la vittima non sia in pericolo di morte; dopo di che si ricomincia; e come dice benissimo la commedia dei Plaideurs: «ciò serve sempre ad ammazzare il tempo per un'ora o due».

Il grave magistrato, che ha comperato con un po' di denaro il diritto di fare questi esperimenti sul suo prossimo, racconta poi alla moglie, a pranzo, il lavoro compiuto nella mattinata. La prima volta la signora ne resta disgustata; la seconda ci prende gusto perché, dopo tutto, le donne son curiose; e, infine, la prima cosa che chiede, quando lui rincasa in toga, è: «Cuoricino mio, oggi non hai messo alla tortura nessuno?»

I francesi, che sono considerati, non so proprio perché, un popolo tanto umano, si meravigliano che gli inglesi, che hanno avuto la cattiveria di toglierci tutto il Canada, abbiano rinunciato al piacere di usare la tortura.

Quando il cavalier de La Barre, nipote di un luogotenente generale dell'esercito, un giovane di vivo ingegno e di grandi speranze, ma preda della sventatezza di una gioventù sfrenata, fu accusato di aver cantato canzoni empie, e persino di essere passato davanti a una processione di cappuccini senza togliersi il cappello, i giudici di Abbeville, gente paragonabile ai senatori romani, ordinarono non solo che gli si strappasse la lingua, gli si mozzasse la mano e lo si bruciasse a fuoco lento, ma lo misero anche alla tortura per sapere con precisione quante canzoni aveva cantato e quante processioni aveva visto passare tenendo il cappello in testa. E quest'avventura non è accaduta nel XII o XIV secolo, ma nel XVIII. I popoli stranieri giudicano la Francia dai suoi spettacoli, dai suoi romanzi, dalle sue leggiadre poesie, dalle ragazze dell'Opera, che han modi così teneri, dai ballerini, così graziosi, dalla signorina Clairon, che declama i versi in modo divino. Non sanno che, in fondo, non c'è nazione più feroce di quella francese.

I russi passavano per barbari nel 1700: adesso siamo soltanto nel 1769, e un'imperatrice ha appena dato a quell'immenso Stato leggi che avrebbero fatto onore a Minosse, a Numa e a Solone, se avessero avuto abbastanza intelligenza per inventarle. La più importante è la tolleranza universale; la seconda è l'abolizione della tortura. La giustizia e l'umanità hanno guidato la sua penna, essa ha riformato tutto. Sventura alla nazione che, da gran tempo civilizzata, è ancora governata da così atroci usanze antiche. «Perché dovremmo cambiare la nostra giurisprudenza?» dicono i francesi. «L'Europa si serve dei nostri cuochi, dei nostri sarti, dei nostri parrucchieri: dunque, le nostre leggi sono buone.»

 

TRANSUSTANZIAZIONE

 

I protestanti, e soprattutto i filosofi protestanti, considerano la transustanziazione come il grado più basso dell'impudenza dei monaci e dell'imbecillità dei laici.

Perdono ogni misura quando parlano di questa credenza, che chiamano «mostruosa». Sono convinti che non ci sia un solo uomo di buon senso che, dopo avervi riflettuto, possa credervi seriamente. «È così assurda,» dicono, «così contraria a tutte le leggi della fisica, così contraddittoria, che Dio stesso non potrebbe compiere quest'operazione, perché, in effetti è annientare Dio supporre che faccia cose contraddittorie. Non solo un dio in un pane, ma un dio al posto del pane; centomila briciole di pane diventate in un istante altrettanti iddii: la folla innumerevole di questi iddii non sarebbe che un solo dio; bianchezza senza alcun corpo bianco, rotondità senza alcun corpo rotondo; vino mutato in sangue e che mantiene il sapore del vino; pane mutato in carne e fibre, ma che mantiene il sapore del pane.» Tutto ciò ispira tanto orrore e disprezzo ai nemici della religione cattolica apostolica e romana, che l'eccesso di tali sentimenti è qualche volta esploso in furore.

L'orrore aumenta quando si riferisce loro che tutti i giorni, nei paesi cattolici, si vedono preti e monaci che, uscendo da un letto incestuoso, senza neppur essersi lavate le mani sozze di impurità, vanno a produrre iddii a centinaia; a mangiare e bere il loro dio, a cacarlo e a pisciarlo. Ma quando poi riflettono che questa superstizione, cento volte più assurda e sacrilega di tutte quelle degli egiziani, ha reso a un prete italiano da quindici a venti milioni di rendita e il dominio di un paese di cento miglia di estensione in lungo e in largo, vorrebbero andare tutti, armi in pugno, a cacciare quel prete che si è impadronito del palazzo dei Cesari. Non so se prenderò parte al viaggio, perché amo la pace; ma quando costoro si saranno stabiliti a Roma, andrò sicuramente a far loro visita.

(Del signor Guillaime, ministro protestante)

 

 

 

 

VANGELO

 

È un grosso problema il riuscir a sapere quali siano stati i primi Vangeli. È una verità assoluta, checché ne dica Abbadie, che nessuno dei primi Padri della Chiesa, fino ad Ireneo incluso, cita mai qualche passo dei Vangeli che noi conosciamo. Per contro, gli àlogi e i teodosiani rifiutarono sempre il Vangelo di san Giovanni, e ne parlavano sempre con disprezzo, come dichiara sant'Epifanio nella sua trentesimaquarta omelia. I nostri nemici osservano ancora che non soltanto i più antichi Padri della Chiesa non citano mai niente dei nostri Vangeli, ma riportano molti passi che si trovano solo nei Vangeli apocrifi, non accettati dal canone.

San Clemente, per esempio, riferisce che Nostro Signore, essendo stato interrogato sul tempo in cui sarebbe venuto il suo regno, rispose: «Sarà quando due non faranno che uno, quando l'esterno somiglierà all'interno, e quando non ci sarà più né maschio né femmina.» Ora, bisogna riconoscere che questo passo non si trova in nessuno dei nostri Vangeli. Ci sono cento esempi che provano questa verità; li si possono raccogliere nell'Examen critique del signor Fréret, segretario perpetuo dell'Accademia di belle lettere a Parigi.

Il dotto Fabricius s'è presa la briga di riunire tutti gli antichi Vangeli che il tempo ha conservato; quello di Giacomo sembra che sia il primo. È certo che gode ancora di grande autorità in alcune chiese d'Oriente. È chiamato primo Vangelo. Ci resta la passione e la resurrezione, che si pretende siano stati scritti da Nicodemo. Questo Vangelo di Nicodemo è citato da san Giustino e da Tertulliano; è qui che si trovano i nomi degli accusatori del nostro Salvatore: Anna, Caifa, Summa, Datam, Gamaliele, Giuda, Levi, Neftali; la cura con cui sono riferiti questi nomi dà una apparenza di autenticità all'opera. I nostri avversari hanno concluso che, come si scrissero tanti falsi Vangeli, riconosciuti in un primo tempo come veri, così potrebbero essere falsi anche quelli che sono oggi oggetto della nostra fede. Ci furono - aggiungono - dei falsari, dei seduttori e dei sedotti, che morirono per l'errore; quindi, non è una prova della verità della nostra religione, il fatto che dei martiri siano morti per essa.

Aggiungono inoltre che mai nessuno chiese ai martiri: «Credete nel Vangelo di Giovanni o nel Vangelo di Giacomo?» I pagani non potevano fondarsi nei loro interrogatori su dei libri che non conoscevano: i magistrati punirono alcuni cristiani come perturbatori della quiete pubblica, ma non li interrogarono mai sui nostri quattro Vangeli. Questi libri cominciarono ad essere un po' conosciuti dai romani solo al tempo di Traiano, e non arrivarono nelle mani del pubblico che negli ultimi anni di Diocleziano. Così i rigidi sociniani considerano i nostri quattro Vangeli come opere clandestine, composte circa un secolo dopo Gesù Cristo, e tenute accuratamente nascoste ai gentili per un altro secolo; opere - dicono - scritte rozzamente da uomini rozzi, i quali si rivolsero per lungo tempo solo alla plebaglia. Non vogliamo ripetere qui le altre loro bestemmie. Questa setta, benché assai diffusa, se ne sta oggi altrettanto nascosta quanto lo furono i primi Vangeli. È altrettanto difficile convertirli in quanto non credono che alla propria ragione. Gli altri cristiani non li combattono che con la santa voce della Scrittura; così è impossibile che gli uni e gli altri, essendo da sempre nemici, possano mai incontrarsi.

(Dell'abate de Tilladet)

 

VIRTÙ

Che cos'è la virtù? Fare del bene al prossimo. Che cosa posso chiamare virtù, se non ciò che mi fa del bene? Sono indigente, tu sei liberale; sono in pericolo, tu mi vieni in soccorso; m'ingannano, tu mi dici la verità; mi trascurano, tu mi consoli; sono ignorante, tu m'istruisci: ti chiamerò senza difficoltà virtuoso. Ma che dovremo dire delle virtù cardinali e teologali? Che qualcuna di loro resterà nelle scuole.

Che m'importa che tu sia temperante? Osservi un precetto di salute; starai meglio, mi congratulo con te. Hai la fede e la speranza, mi congratulo ancora di più: ti procureranno la vita eterna. Le tue virtù teologali sono doni celesti; le tue virtù cardinali sono ottime qualità che ti servono ad agire rettamente; ma non sono virtù in relazione al tuo prossimo. Il prudente fa del bene a se stesso, il virtuoso ne fa agli uomini. San Paolo ha avuto ragione di dirti che la carità sovrasta la fede e la speranza.

Ma come! non si ammetteranno altre virtù se non quelle che sono utili al prossimo? E come posso ammetterne altre? Viviamo in società: e dunque per noi non c'è nulla di veramente buono tranne ciò che fa il bene della società. Un solitario sarà sobrio, pio; porterà il cilicio: ebbene, sarà santo; ma io lo chiamerò virtuoso solo quando avrà compiuto qualche atto di virtù da cui abbiano tratto giovamento altri uomini. Finché è solo, non è né benefico né malefico; non è niente per noi. Se san Bruno ha portato la pace nelle famiglie, se ha soccorso l'indigenza, è stato virtuoso; se ha digiunato, pregato in solitudine, è stato un santo. La virtù tra gli uomini è un commercio di buone azioni; chi non ha parte in questo commercio non deve esser preso in considerazione. Se quel santo fosse nel mondo, senza dubbio vi farebbe del bene; ma finché non vi sarà, il mondo avrà ragione di non dargli il nome di virtuoso: sarà buono per sé e non per noi.

Ma, mi direte, se un solitario è goloso, ubriacone, se si dà da solo a segrete dissolutezze, è vizioso: e dunque è virtuoso se possiede le qualità contrarie. Non posso essere d'accordo: è un uomo sudicio, se ha i difetti che dite; ma non è vizioso, cattivo, punibile di fronte alla società, cui la sua depravazione non fa alcun male. Bisogna presumere che, se rientra nella società, vi farà del male, che commetterà molti crimini; è anzi molto più probabile che sarà un malvagio, di quanto non sia certo che quell'altro solitario temperante e casto sarà un uomo dabbene: perché, nella società, i difetti aumentano e le buone qualità diminuiscono.

C'è chi fa un'obiezione molto più solida: Nerone, papa Alessandro VI e altri mostri della stessa specie beneficarono pure qualcuno. Rispondo arditamente che quel giorno furono virtuosi.

Certi teologi dicono che il divino imperatore Antonino non era virtuoso; che era uno stoico testardo, il quale, non contento di comandare agli uomini, voleva anche essere stimato da loro; che attribuiva a se stesso il bene che faceva al genere umano; che in tutta la sua vita fu giusto, laborioso, benefico per vanità, e che non fece nient'altro che ingannare gli uomini con le sue virtù; e a questo punto esclamo: «Mio Dio, mandaci spesso di queste canaglie!»




Ultima modifica 12.01.2009