Voltaire

 

Il Toro Bianco

 


Mark up per il MIA di Clara Statello.


Indice

1. COME LA PRINCIPESSA AMASIDE INCONTRO' UN BUE

2. COME IL SAVIO MAMBRE EX MAGIO DEI FARAONI, RICONOBBE UNA VECCHIA,

E COME FU RICONOSCIUTO DA QUELLA

3. COME LA BELLA AMASIDE EBBE UN COLLOQUIO SEGRETO CON UN BEL SERPENTE

4. IN CHE MODO VOLLERO SACRIFICARE IL BUE ED ESORCIZZARE LA PRINCIPESSA

5. COME IL SAVIO MAMBRE SI COMPORTO' SAVIAMENTE


 

 

 

 

 

CAPITOLO PRIMO

COME LA PRINCIPESSA AMASIDE INCONTRO' UN BUE

La giovane principessa Amaside, figlia di Amasi re di Tanis in Egitto, passeggiava sulla strada di Pelusa con le dame del seguito. Era immersa in profonda tristezza; lacrime stillavano dai suoi begli occhi. La ragione del suo dolore è nota, eppure si sa quanto temesse di spiacere al re suo padre con il suo stesso dolore. Il vecchio Mambre, ex magio ed eunuco dei faraoni, le stava accanto e non l'abbandonava quasi mai. L'aveva vista nascere, l'aveva allevata, le aveva insegnato tutto quello che, delle scienze d'Egitto, è lecito sapere a una bella principessa. L'intelligenza di Amaside era pari alla sua bellezza; era sensibile e tenera non meno che seducente, e proprio quella sensibilità le faceva versare tante lagrime.

La principessa aveva ventiquattro anni; il mago Mambre circa milletrecento. E' noto che proprio lui aveva avuto col grande Mosè la celebre disputa, nella quale la vittoria esitò a lungo tra i due profondi filosofi. Mambre soccombette soltanto perché le potenze celesti visibilmente favorirono, con la loro protezione, il rivale; ci vollero gli dèi per vincere Mambre.

Amasi lo creò sovrintendente della casa di sua figlia; il magio adempiva questa funzione con la sua solita saggezza; la bella Amaside lo inteneriva con i suoi sospiri.

"O amato mio bene! mio giovane e caro amante!" esclamava essa a volte; "o tu, massimo tra i vincitori, bellissimo e perfetto tra gli uomini!

E che! da quasi sette anni sei scomparso dalla terra! Quale iddio ti ha rapito alla tua tenera Amaside? Tu non sei morto, i sapienti profeti d'Egitto lo ammettono; ma sei morto per me, io sono sola sulla terra, la terra per me è deserta. Per quale strano prodigio hai abbandonato il tuo trono e la tua amante? Il tuo trono! Era il primo del mondo, il che non è molto; ma io, io che ti adoro, o mio caro Na...!" Stava per terminare quando il savio Mambre, ex eunuco e magio dei faraoni, le disse:

"Guardatevi dal pronunciare questo nome fatale. Una dama di palazzo potrebbe tradirvi. Vi sono tutte devote, e tutte le belle dame reputano indiscusso merito favorire le nobili passioni delle belle principesse; ma insomma, ci potrebbe essere un'indiscreta, o addirittura una perfida. Sapete che il re vostro padre, che del resto vi vuol bene, ha giurato di farvi tagliar la testa se fate tanto di pronunciare questo terribile nome sempre pronto a scapparvi di bocca.

Piangete, ma fate silenzio. E' una legge assai dura, ma non siete stata allevata nella saggezza egiziana per non saper comandare alla lingua. Pensate che Arpocrate, uno dei nostri dèi maggiori, ha sempre il dito sulla bocca".

La bella Amaside pianse e non parlò più.

Intanto che silenziosamente camminava sulle sponde del Nilo, scorse da lontano, sotto un boschetto bagnato dal fiume, una vecchia coperta di cenci grigi, seduta su un rialzo del terreno. Accanto a lei stavano un'asina, un cane, un becco. Davanti a lei un serpente che non era come gli altri serpenti: aveva occhi teneri e animati, una fisionomia nobile e interessante, una pelle che splendeva dei più vivi e dolci colori. Un pesce enorme, immerso a metà nel fiume, non era l'individuo meno straordinario della compagnia. Su un ramo stavano un corvo e una colomba. Tutte queste creature parevano conversare insieme molto animatamente.

"Ahimè!" disse la principessa, "costoro stanno certo parlando dei loro amori, e a me non è concesso pronunciare il nome di colui che amo." La vecchia teneva in mano una catenella d'acciaio lunga una cinquantina di metri, alla quale stava attaccato un toro che pascolava nel prato. Era un toro bianco, di forme perfette, grassoccio e persino leggero, il che è cosa assai rara. Aveva corna d'avorio. Era il più bel toro che mai si fosse visto. Quello di Pasife, o quello di cui Giove prese le sembianze per rapire Europa, non si potevano paragonare a questo stupendo animale. La vaga giovenca in cui fu mutata Iside sarebbe appena stata degna di lui.

Non appena vide la principessa, le corse incontro con la prestezza d'un giovane cavallo arabo che divora le vaste pianure e i fiumi dell'antica Saana per accostarsi alla brillante giumenta che gli regna in cuore e gli fa drizzare le orecchie. La vecchia si sforzava di trattenerlo; il serpente pareva volerlo spaventare coi suoi fischi; il cane lo rincorreva mordendogli le belle zampe; l'asina gli sbarrava la strada e sferrava di gran calci per farlo tornare indietro. Il gran pesce risaliva il Nilo e, slanciandosi fuori dell'acqua, minacciava di divorarlo; il becco stava fermo, spaurito, il corvo svolazzava intorno alla testa del toro, come se avesse voluto cavargli gli occhi.

Soltanto la colomba gli andava dietro curiosa e lo applaudiva con un dolce mormorio.

Questo straordinario spettacolo immerse Mambre in gravi pensieri.

Frattanto il toro bianco, trascinandosi dietro la catena e la vecchia, era già accanto alla principessa tutta tremante di stupore e di paura.

Le si getta ai piedi, glieli bacia, versa lagrime, la guarda con occhi dove dolore e gioia si mescolano in modo inaudito. Non osava muggire, per non spaventare la bella Amaside. Non poteva parlare. Gli era negato anche quel flebile uso della voce che il cielo accorda ad alcuni animali; ma tutti i suoi atti erano eloquenti. Piacque molto alla principessa. Essa capì che un lieve spasso poteva per qualche istante soffocare i più dolorosi affanni.

"Ecco" diceva, "un assai amabile animale; vorrei averlo nella mia scuderia." A quelle parole il toro piegò le quattro ginocchia e baciò la terra.

"Mi capisce!" esclamò la principessa, "dichiara che vuole appartenermi. Ah! divino magio, divino eunuco, datemi questa consolazione, comperate questo bel cherubino, stabilite il prezzo con la vecchia, alla quale certo appartiene. Voglio che quest'animale sia mio; non negatemi così innocente consolazione." Tutte le dame del palazzo unirono le loro suppliche alle preghiere della principessa. Mambre si lasciò commuovere e andò a parlare con la vecchia.

 

 

CAPITOLO SECONDO

COME IL SAVIO MAMBRE EX MAGIO DEI FARAONI, RICONOBBE UNA VECCHIA, E COME FU RICONOSCIUTO DA QUELLA

"Signora," le disse, "voi sapete che le ragazze, e in modo particolare le principesse, hanno bisogno di divertirsi. La figlia del re va pazza per il vostro toro; vi prego di volercelo vendere, sarete pagata in contanti." "Signore," rispose la vecchia, "questo prezioso animale non mi appartiene. Insieme a tutte le bestie che avete visto, ho l'incarico di sorvegliarlo con ogni cura, di badare a tutti i suoi passi e di darne conto. Dio mi guardi dal mai voler vendere questo impagabile animale!" A quelle parole Mambre si sentì come illuminato da alcuni lampi d'una luce confusa, che non riusciva ancora a intendere. Considerò più attentamente la vecchia dal mantello grigio:

"Spettabile signora," le disse, "o mi sbaglio, o vi ho già vista".

"Io non mi sbaglio" replicò la vecchia; "vi ho già visto, signore, settecento anni fa, in un viaggio che feci dalla Siria in Egitto, alcuni mesi dopo la distruzione di Troia, quando Hiram regnava a Tiro e Nephel Keres sull'antico Egitto." "Ah, signora!" esclamò il vecchio, "voi siete l'augusta pitonessa di Endor." "E voi, signore," disse la pitonessa abbracciandolo, "voi siete il grande Mambre d'Egitto." "O incontro imprevisto! giorno memorando! decreti eterni!" esclamò Mambre; "non è certamente senza un ordine dell'universale Provvidenza che ci troviamo su questo prato in riva al Nilo, vicino alla superba città di Tanis. E che! siete voi, signora, tanto famosa sulle sponde del vostro piccolo Giordano, e senza rivali al mondo nell'evocare le ombre!" "E che! siete dunque voi, signore, voi tanto famoso per mutare in serpenti i bastoni, il giorno in tenebre e i fiumi in sangue!" "Sì, signora; ma la grave età infiacchisce parte dei miei lumi e delle mie potenze. Non so dove avete trovato questo bel toro bianco, e chi sono gli animali che, con voi, lo stanno a sorvegliare." La vecchia si raccolse, alzò gli occhi al cielo, poi rispose in questi termini:

"Caro il mio Mambre, siamo colleghi: ma mi è espressamente proibito dirvi chi è questo toro. Posso contentarvi circa gli altri animali. Vi sarà facile riconoscerli dai loro caratteri. Il serpente è quello che indusse Eva a mangiare una mela e a farla mangiare a suo marito.

L'asina è quella che in una via incassata parlò a Balaam, vostro contemporaneo. Il pesce, che tiene sempre la testa fuori dell'acqua, è quello che alcuni anni fa inghiottì Giona. Il cane è quello che seguì l'angelo Raffaele e il giovane Tobia nel viaggio che fecero a Rages in Media, ai tempi del grande Salmanazar. Questo becco è quello che espia i peccati tutti di una nazione; il corvo e la colomba son quelli che stavano nell'arca di Noè: grande avvenimento, universale catastrofe ancora ignorata da quasi tutta la terra! Eccovi informato. Ma, quanto al toro, non saprete nulla".

Mambre ascoltava rispettoso. Poi disse:

"Illustre pitonessa, l'Eterno rivela ciò che vuole e a chi vuole.

Tutte queste bestie, che insieme a voi sono commesse alla custodia del toro bianco, sono note soltanto alla vostra generosa e piacevole nazione, la quale a sua volta è ignota a gran parte del mondo. Le maraviglie operate da voi e dai vostri, e da me e dai nostri, un giorno saranno grande argomento di dubbio e di scandalo per i falsi sapienti. Fortunatamente saranno credute dai veri sapienti, che saranno sottomessi ai veggenti in una piccola parte del mondo: ed è quanto occorre".

Stava pronunciando queste parole quando la principessa lo tirò per la manica e gli disse:

"Mambre, ma non mi comperate il toro?" Il savio, immerso in una profonda meditazione, non rispose nulla, e Amaside versò lagrime.

Poi si rivolse lei stessa alla vecchia e le disse:

"Cara donna, vi scongiuro per quanto avete di più caro al mondo, per vostro padre, per vostra madre, per la vostra nutrice, che certamente vivono ancora, vi scongiuro di vendermi non soltanto il toro, ma anche la colomba, che gli pare assai affezionata. Quanto alle altre bestie, non so che farmene; ma sono capace di ammalarmi di vapori, se non mi vendete quell'incantevole toro bianco che farà la dolcezza della mia vita".

La vecchia le baciò rispettosamente le frange della veste di velo e le disse:

"Principessa, il toro non è in vendita, già l'ho detto al vostro illustre magio. Il massimo che potrei fare per servirvi sarebbe di portarlo a pascolare tutti i giorni vicino al vostro palazzo, così lo potrete accarezzare, dargli biscotti e farlo ballare a vostro piacimento. Ma bisogna che sia sempre sotto gli occhi di tutte le bestie che stanno con me e che sono incaricate di custodirlo. Se non tenta di scappare non gli faranno male alcuno; ma se si prova ancora a spezzare la catena, come ha fatto quando vi ha vista, guai a lui! non rispondo della sua vita. Quel grosso pesce che avete visto lo inghiottirebbe senza fallo, e se lo terrebbe più di tre giorni nel ventre; oppure quel serpente che vi è sembrato piuttosto dolce e amabile lo potrebbe mordere mortalmente".

Il toro bianco, che capiva perfettamente tutto quanto la vecchia andava dicendo, ma che non poteva parlare, accettò quelle proposte con aria sommessa. Si coricò ai piedi della vecchia, muggì dolcemente, e guardando Amaside teneramente pareva dirle:

"Venite a trovarmi ogni tanto sul prato".

Allora il serpente prese la parola e disse:

"Principessa, vi consiglio di seguire ciecamente quanto vi ha detto la signorina di Endor".

Anche l'asina disse la sua, condividendo il parere del serpente.

Amaside era desolata vedendo che il serpente e l'asina parlavano benissimo, mentre un bel toro, che nutriva sentimenti così nobili e teneri, non poteva esprimersi.

"Ahimè! non c'è nulla di più frequente a corte" essa andava mormorando; "ogni giorno ci si vedono dei bei signori che non sanno parlare e dei mascalzoni che parlano benissimo." "Questo serpente non è un mascalzone" disse Mambre; "state attenta; forse è persona di altissima considerazione." Il giorno declinava; la principessa fu costretta ad andarsene, non senza aver promesso che sarebbe tornata il giorno dopo alla stessa ora. Le dame di palazzo erano stupite, e non capivano niente di quanto avevano visto e sentito. Mambre faceva le sue riflessioni. La principessa, ricordando che il serpente aveva chiamato "signorina" la vecchia, azzardò l'idea che fosse ancora pulzella, e si sentì afflitta di esserlo ancora; rispettabile afflizione, che celava con lo scrupolo col quale celava il nome dell'amante.

 

CAPITOLO TERZO

COME LA BELLA AMASIDE EBBE UN COLLOQUIO SEGRETO CON UN BEL SERPENTE

La bella principessa raccomandò alle sue dame la massima segretezza su quanto avevano visto. Tutte promisero, e difatti tennero il segreto per un giorno intero. Potete credere che Amaside dormì poco quella notte. Uno strano incanto le richiamava continuamente l'idea del suo bel toro. Non appena poté restar sola con il saggio Mambre, gli disse:

"O savio! quell'animale mi fa girar la testa".

"Preoccupa molto anche la mia" disse Mambre. "Vedo chiaramente che quel cherubino è assai superiore alla sua specie. Vedo che ci si nasconde un gran segreto, ma temo qualche funesto avvenimento. Vostro padre Amasi è uomo violento e sospettoso, quest'affare esige che vi comportiate con la massima prudenza." "Ah!" disse la principessa, "son troppo curiosa per essere prudente; è l'unica passione che si possa unire nel mio cuore a quella che mi divora per l'amante perduto. E che! non potrò sapere chi è quel toro bianco che eccita in me un turbamento così inaudito?" "Signora," le rispose Mambre, "già vi ho confessato che la mia scienza va scemando a mano a mano che l'età cresce; ma, o mi sbaglio di grosso, o il serpente è al corrente di ciò che vi preme tanto di sapere. E' intelligente; si esprime benissimo; da un pezzo è avvezzo a immischiarsi nelle cose delle donne." "Ah! " disse Amaside. "certamente è quel bel serpente egiziano che, mettendosi la coda in bocca, è simbolo dell'eternità; che rischiara il mondo non appena apre gli occhi; e lo oscura non appena li chiude." "Nossignora." "Allora è il serpente di Esculapio." "Anche meno." "Forse è Giove sotto forma di serpente?" "Niente affatto." "Ah! capisco, è il bastone da voi altre volte mutato in serpente." "Vi dico di no, signora; però tutti questi serpenti sono dell'identica famiglia. Questo è assai reputato nel suo paese; lo ritengono il serpente più furbo che mai si sia visto. Rivolgetevi a lui. Però vi avverto che è una impresa assai pericolosa. Se fossi in voi, lascerei stare il toro, l'asina, il serpente, il pesce, il cane, il becco, il corvo e la colomba; ma la passione vi trascina; tutto quello che posso fare è aver pietà di voi e tremare." La principessa lo supplicò che le combinasse un convegno col serpente.

Mambre, che era un buon uomo, consentì; e, sempre meditando profondamente, andò a trovare la pitonessa. Le espose il capriccio della principessa in modo così insinuante che la persuase.

La vecchia gli disse che Amaside poteva fare quello che voleva; che il serpente sapeva comportarsi benissimo; che era estremamente educato con le signore; che non desiderava altro che di render loro servizio, e che si sarebbe trovato al convegno.

Il vecchio magio tornò a portar la risposta alla principessa; ma temeva sempre qualche sventura e continuava le sue riflessioni.

"Signora, volete parlare al serpente: potete farlo quando garberà all'Altezza Vostra. Ricordatevi che bisogna complimentarlo molto, poiché ogni animale è impastato di amor proprio, e lui in modo speciale. Dicono anzi che in altri tempi fu scacciato, per eccesso d'orgoglio, da un bel luogo." "Non l'ho mai sentito dire", disse la principessa.

"Lo credo bene", fece il vecchio.

Allora le spiegò tutte le voci che eran corse sul conto di così famoso serpente.

"Ma, signora, per singolare che sia l'avventura che gli è capitata, non riuscirete a carpirgli il segreto che a furia di lusinghe. Di lui dicono in un paese vicino che una volta fece un tiro birbone alle signore; è giusto che a sua volta una donna riesca a sedurlo." "Farò del mio meglio", disse la principessa.

Quindi se ne andò con le dame di palazzo e il buon eunuco. La vecchia stava pascolando il toro bianco un po' discosto. Mambre lasciò libera Amaside, e se ne andò a chiacchierare con la pitonessa. La dama d'onore parlò con l'asina; le dame di compagnia si divertirono con il becco, il cane, il corvo e la colomba. Quanto al grosso pesce, che spaventava tutti, si tuffò nel Nilo per ordine della vecchia.

Subito il serpente si fece incontro alla bella Amaside nel boschetto, e insieme ebbero il seguente colloquio:

IL SERPENTE: Non potete credere, signora, quanto mi senta lusingato dall'onore che l'Altezza Vostra si degna farmi.

LA PRINCIPESSA: Signore, la grande reputazione di cui godete, la finezza della vostra fisionomia, e lo splendore dei vostri occhi m'hanno facilmente indotta a chiedervi questo convegno. Dalla voce pubblica (se non è menzognera) ho appreso che siete stato gran signore nel cielo empireo.

IL SERPENTE:E' vero, signora: ci occupavo un posto piuttosto distinto. Dicono che sono un favorito caduto in disgrazia; è una voce che s'è propalata dapprima in India. I bramini sono stati i primi a comporre una lunga storia delle mie avventure. Non dubito che i poeti del Nord un giorno non ne facciano un poema epico assai strano [1] poiché, in verità, è tutto quanto se ne può fare; ma non sono decaduto al punto da non possedere su questo globo un dominio considerevolissimo. Direi quasi che tutta la terra mi appartiene.

LA PRINCIPESSA: Lo credo, signore, perché dicono che avete la virtù di persuadere tutto quello che volete; e saper piacere è saper regnare.

IL SERPENTE: Signora, vedendovi e ascoltandovi sento che avete su di me quell'impero che dicono io abbia su tante anime.

LA PRINCIPESSA: Credo che siate un amabile vincitore. Dicono che avete soggiogato parecchie signore, e che avete cominciato con la nostra comune madre, della quale ho scordato il nome.

IL SERPENTE: Mi calunniano: le diedi anzi il miglior consiglio del mondo. Mi onorava della sua fiducia. Io fui del parere che lei e suo marito dovevano rimpinzarsi del frutto dell'albero della scienza. In tal modo credetti di piacere al Padrone delle cose. Un albero così necessario al genere umano non mi pareva piantato per restare inutile. E che! il Padrone avrebbe forse voluto esser servito da ignoranti e da idioti?

Lo spirito non è forse fatto per illuminarsi, per perfezionarsi? non bisogna forse conoscere il bene e il male per fare quello ed evitare questo? Certamente mi devono dir grazie.

LA PRINCIPESSA: Tuttavia dicono che ve ne sia venuto male. Certamente è da allora che tanti ministri sono stati castigati per aver dato dei buoni consigli, e che tanti veri sapienti e grandi geni sono stati perseguitati per aver scritto cose utili al genere umano.

IL SERPENTE: Certamente sono i miei nemici, signora, che vi hanno raccontato queste fandonie. Vi dicono che sono in disgrazia alla corte. Ma che io vi sia in gran credito, lo dimostra il fatto (e anche loro lo ammettono) che quando si trattò di mettere alla prova quel buon uomo di Giobbe io feci parte del consiglio; e che ancora ci fui chiamato quando decisero di ingannare un certo reuccio di nome Achab; io solo fui incaricato di questo ufficio .

LA PRINCIPESSA: Ah! signore, non credo che siate fatto per ingannare. Ma, dal momento che fate sempre parte del ministero, potrei chiedervi una grazia?

Spero che un così amabile signore non me la vorrà rifiutare.

IL SERPENTE: Signora, le vostre preghiere sono leggi. Cosa comandate?

LA PRINCIPESSA: Vi scongiuro di dirmi chi è quel bel toro bianco per il quale provo dentro di me dei sentimenti incomprensibili che mi inteneriscono e mi spaventano. M'hanno detto che vi degnerete di informarmene.

IL SERPENTE: Signora, la curiosità è necessaria alla natura umana, specialmente all'amabile vostro sesso; senza di essa ci crogioleremmo nella più vergognosa ignoranza. Sempre nel limite del possibile, ho soddisfatto la curiosità delle signore. M'accusano di non esser stato così compiacente che per far dispetto al Padrone delle cose. Vi giuro che il mio unico scopo sarebbe quello di servirvi; ma la vecchia vi ha certamente avvertita che correte qualche pericolo se vi si rivela questo segreto.

LA PRINCIPESSA: Ma è proprio quello che mi fa ancora più curiosa.

IL SERPENTE: In queste parole riconosco tutte le belle signore alle quali ho reso servizio.

LA PRINCIPESSA: Se siete sensibile, se tutti gli esseri son tenuti a prestarsi reciproco soccorso, se avete pietà d'una infelice, non mi dite di no.

IL SERPENTE: Mi spezzate il cuore; debbo accontentarvi, ma non mi interrompete.

LA PRINCIPESSA: Ve lo prometto.

IL SERPENTE: C'era un giovane re, bello, fatto a pennello, innamorato, amato...

LA PRINCIPESSA: Un giovane re! bello, fatto a pennello, innamorato, amato! e da chi? e chi era quel re? quanti anni aveva? che ne è stato di lui? dov'è? dov'è il suo reame? come si chiama?

IL SERPENTE: Ecco che ho appena incominciato e già mi interrompete! State attenta; se non siete capace di dominarvi un po' meglio, siete perduta.

LA PRINCIPESSA: Ah! perdonatemi, signore, non sarò più indiscreta.

IL SERPENTE: Quel grande re, il più amabile, il più valoroso degli uomini, vittorioso per ogni dove aveva portato le armi, spesso sognava dormendo; e quando dimenticava i sogni, esigeva che i suoi magi li ricordassero, e gli dicessero che cosa aveva sognato: altrimenti li faceva impiccare tutti, com'è giusto. Ora, saranno bene un sette anni, sognò un bel sogno e lo dimenticò svegliandosi; e un giovane Ebreo, pieno di esperienza, avendogli spiegato il sogno, ecco che l'amabile re fu di colpo mutato in bue [3]; perché...

LA PRINCIPESSA: Ah! è il mio caro Nabu...

Non poté finire, ché cadde svenuta. Mambre, che stava ad ascoltare da lontano, la vide cadere e la credette morta.

 

 

CAPITOLO QUARTO

IN CHE MODO VOLLERO SACRIFICARE IL BUE ED ESORCIZZARE LA PRINCIPESSA

Mambre corre piangendo verso di lei; il serpente è commosso, non può piangere, ma fischia in tono lugubre, grida: "E morta!" L'asina ripete: "E' morta!" Il corvo lo ripete, tutti gli altri animali paiono compresi di dolore, salvo il pesce di Giona, che è sempre stato impietoso. La dama d'onore, le dame di palazzo giungono e si strappano i capelli. Il toro bianco, che pascolava lontano, sentendo quei clamori corre verso il boschetto trascinandosi dietro la vecchia e facendo risuonare gli echi con i suoi muggiti. Inutilmente le dame vuotavano sulla morente Amaside i loro flaconi di acqua di rose, di garofano, di mirto, di benzoino, di balsamo della Mecca, di cannella, di amomo, di noce moscata, d'ambra grigia: non dava segno di vita. Ma non appena si sentì accanto il bel toro bianco, tornò in sé più fresca, più bella, più vispa che mai. Diede cento baci a quell'incantevole animale, che languidamente chinava la testa sul seno alabastrino di lei. Ella lo chiama suo padrone, suo re, suo cuore, vita sua. Gli intreccia le braccia d'avorio attorno al collo più candido della neve. La lieve paglia s'attacca meno tenacemente all'ambra, la vigna all'olmo, l'edera alla quercia. Si sentiva il dolce mormorio dei suoi sospiri; si vedevano i suoi occhi ora scintillanti d'una tenera fiamma, ora offuscati dalle preziose lagrime che l'amore fa versare.

Giudicate la meraviglia nella quale erano immerse la dama d'onore e le dame di compagnia. Appena furono tornate a palazzo, tutte narrarono al proprio amante quella strana avventura, ognuna con circostanze diverse che la facevano anche più singolare e che sempre contribuiscono alla varietà di qualsiasi storia.

Non appena Amasi, re di Tanis, ne ebbe conoscenza, il suo cuore di re fu compreso di giusta collera. Simile fu il corruccio di Minosse quando seppe che Pasife sua moglie era prodiga dei suoi teneri favori al padre del Minotauro. A quel modo fremette Giunone quando vide Giove suo sposo carezzare la bella giovenca Iside, figlia del fiume Inaco.

Amasi fece rinchiudere Amaside nella sua camera, e mise una guardia di eunuchi neri alla porta; poi radunò il consiglio segreto.

Lo presiedeva il gran magio Mambre; ma non aveva più lo stesso credito di una volta. Tutti i ministri di stato conclusero che il toro bianco era uno stregone. Era proprio l'opposto: il toro era stregato, ma in queste cose delicate a corte ci si sbaglia sempre.

A grande maggioranza di voti decisero che bisognava esorcizzare la principessa e sacrificare il toro bianco e la vecchia.

Il savio Mambre non volle contraddire l'opinione del re e del consiglio. Il diritto di fare esorcismi apparteneva a lui; poteva differirli con un pretesto plausibilissimo. Il dio Api era appena morto a Memfi. Un dio bue muore come un altro. Non era lecito esorcizzare chicchessia in Egitto finché non si fosse trovato un altro bue che potesse sostituire quello morto.

Decisero quindi nel consiglio che si sarebbe aspettata la nomina d'un nuovo dio a Memfi.

Il buon vecchio Mambre sentiva a che pericolo era esposta la sua cara principessa; capiva chi era il suo amante. Quelle sillabe, Nabu..., che le erano sfuggite, avevano svelato tutto il mistero agli occhi del vecchio sapiente.

La dinastia di Memfi apparteneva in quel tempo ai Babilonesi; i quali mantenevano quel residuo delle loro conquiste fatte sotto il più grande re del mondo, del quale Amasi era mortale nemico. Mambre aveva bisogno di tutta la sua saggezza per regolarsi bene in mezzo a tante difficoltà. Se il re Amasi scopriva l'amante di sua figlia, la poveretta doveva morire, era cosa giurata. Il grande, il giovane, il bel re di cui s'era innamorata aveva spodestato suo padre, il quale non aveva riconquistato il regno di Tanis che da circa sette anni, da quando non si sapeva più cosa ne fosse dell'adorabile monarca, del vincitore e dell'idolo delle nazioni, del tenero e generoso amante della graziosa Amaside. Ma certamente, sacrificando il toro, si faceva infallantemente morire di dolore la bella Amaside.

Cosa poteva mai fare Mambre, in così spinose circostanze? Uscito dal consiglio, va a trovare la sua cara pupilla e le dice:

"Mia bella figliuola, ti servirò in ogni modo; ma, ripeto, se fai tanto di pronunciare il nome del tuo amante, ti taglieranno il collo".

"Ah! cosa m'importa del mio collo," disse la bella Amaside, "se non posso abbracciare quello di Nabuco!... Mio padre è un perfido uomo!

non si contentò di rifiutarmi un bel principe che adoro, ma gli dichiarò guerra; e quando fu vinto dal mio amante, trovò il modo di mutarlo in bue. Si è mai vista malizia più spaventosa? Se mio padre non fosse mio padre, non so che cosa gli farei." "Non è stato vostro padre a fargli un così brutto scherzo", disse il savio Mambre; "è stato un Palestinese, uno dei nostri nemici di un tempo, abitante d'uno dei piccoli paesi inclusi nell'infinità di staterelli che il vostro augusto amante domò per poterli civilizzare.

Queste metamorfosi non vi devono meravigliare: sapete che un tempo io ne facevo anche di più belle; non c'era niente di più comune, allora, di questi mutamenti che oggi stupiscono i sapienti. La veridica storia che abbiamo letto insieme ci ha insegnato che Licaone, re d'Arcadia, fu mutato in lupo; sua figlia, la bella Calisto, in orsa; Io, figlia di Inaco, nostra vera Iside, in vacca; Dafne in lauro; Siringa in flauto. La bella Edith moglie di Lot, il migliore e più tenero padre che mai si sia visto, non è forse diventata, qui vicino a noi, una grande statua di sale, bellissima e pungentissima, che ha conservato tutte le caratteristiche del suo sesso, e ogni mese, regolarmente, ha i suoi ordinari [1], come attestano i grandi uomini che l'hanno veduta? Sono stato testimonio di questa trasformazione nella mia giovinezza. Ho veduto cinque potenti città, nel più asciutto e arido soggiorno del mondo, mutate di colpo in un bel lago. Ai miei tempi non si camminava che sulle metamorfosi.

"Finalmente, signora, se gli esempi possono addolcire il vostro dolore, ricordatevi che Venere mutò i Cerasti in buoi." "Lo so," disse la sventurata principessa, "ma forse che gli esempi consolano? Se il mio amante fosse morto, mi consolerei forse pensando che tutti gli uomini muoiono?" "Il vostro dolore può avere un termine," disse il savio; "e siccome il vostro tenero amante è stato mutato in bue, vedete bene che da bue può diventare uomo. Quanto a me, voglio che mi si tramuti in tigre o in coccodrillo se non metterò in opera quel poco di potenza che mi rimane per servire una principessa degna delle adorazioni della terra, la bella Amaside, che ho allevata sui miei ginocchi e che un fatale destino espone a così crudeli prove."

 

CAPITOLO QUINTO

COME IL SAVIO MAMBRE SI COMPORTO' SAVIAMENTE

Il divino Mambre disse alla principessa tutto quello che occorreva per consolarla; ma, non avendola consolata, corse subito dalla vecchia.

"Collega mia," le disse, "il nostro è un bel mestiere, ma è pericoloso assai; voi rischiate di essere impiccata e il vostro bue di essere bruciato, o annegato, o mangiato. Non so che cosa faranno delle altre bestie; perché, per profeta che io sia, so pochissime cose; ma nascondete con cura il serpente e il pesce: che questo non metta la testa fuor d'acqua, che quello non esca dal suo buco. Il bue lo metterò in una delle mie scuderie in campagna; e voi starete insieme a lui, siccome dite che non vi è lecito abbandonarlo. Il capro emissario potrà in quest'occasione fare da espiatorio: lo manderemo nel deserto carico dei peccati della compagnia; è avvezzo a questa cerimonia, che non gli fa male alcuno, e si sa che un becco che va a spasso espia tutto. Vi prego soltanto di prestarmi subito il cane di Tobia, che è un levriero agilissimo, l'asina di Balaam, che corre meglio d'un dromedario, il corvo e la colomba dell'arca, che sono assai rapidi nel volo. Voglio mandarli ambasciatori a Memfi per un affare importantissimo." La vecchia rispose al mago:

"Signore, potete disporre a vostro piacimento del cane di Tobia, dell'asina di Balaam, del corvo e della colomba dell'arca, e del becco emissario; ma il mio bue non può abitare in una scuderia. E' scritto che dev'essere attaccato a una catena d'acciaio, 'esser sempre bagnato di rugiada e brucar l'erba sulla terra; e che il suo posto sarà con le bestie selvatiche' [1]. Me l'hanno affidato, debbo ubbidire. Cosa penserebbero di me Daniele, Ezechiele e Geremia, se affidassi il bue a qualcun altro? Vedo che conoscete il segreto di questo singolare animale; ma non mi devo rimproverare d'avervelo rivelato. Lo condurrò lontano da questa terra impura, verso il lago Sirbon, lontano dalle crudeltà del re di Tanis. Il pesce e il serpente mi difenderanno; non temo nessuno quando servo il mio padrone".

Il savio Mambre rispose in questi termini:

"Cara mia, sia fatta la volontà di Dio! A patto che io ritrovi il nostro toro bianco, non m'importa niente né del lago di Sirbon, né del lago di Moeris, né del lago di Sodoma; non voglio fargli altro che del bene e a voi pure. Ma perché m'avete parlato di Daniele, di Ezechiele e di Geremia?" "Ah! signore," rispose la vecchia, "sapete come me tutto l'interesse che hanno preso in questo grande affare; ma non ho tempo da perdere; non voglio finire impiccata, non voglio che il mio toro sia bruciato, annegato o mangiato. Me ne vado verso il lago di Sirbon passando da Canopo, con il serpente e il pesce. Addio!" Il toro le andò dietro tutto pensoso, dopo d'aver espresso al benefico Mambre la riconoscenza che gli doveva.

Il savio Mambre era immerso in una crudele inquietudine. Vedeva bene che Amasi, re di Tanis, disperato per la folle passione di sua figlia per quell'animale, e credendola stregata, avrebbe fatto perseguitare per ogni dove lo sventurato toro: il quale sarebbe infallantemente finito bruciato, come stregone, sulla pubblica piazza; o dato in pasto al pesce di Giona, o arrostito e servito in tavola. Voleva a ogni costo risparmiare tanto dispiacere alla principessa.

Scrisse una lettera al sommo sacerdote di Memfi suo amico, in caratteri sacri, su carta d'Egitto che ancora non era in uso. Ecco l'esatto tenore della lettera:

"Luce del mondo, luogotenente di Iside, di Osiride e di Orus, capo dei circoncisi, voi il cui altare è sollevato come di giusto, al di sopra di tutti i troni, ho saputo che il vostro Dio, il bue Api, è morto. Ne ho qui un altro a vostra disposizione. Venite subito con i vostri sacerdoti a riconoscerlo, ad adorarlo e a portarlo nella scuderia del vostro tempio. Che Iside, Osiride e Orus vi tengano sotto la loro santa e degna protezione; e voi, signori sacerdoti di Memfi, sotto la loro santa protezione!

"Vostro affezionato amico, MAMBRE".

Fece quattro copie della lettera, temendo qualche incidente, e le chiuse in astucci di legno d'ebano durissimo. Poi, chiamati i quattro corrieri destinati a quel messaggio (erano l'asina, il cane, il corvo e la colomba), disse all'asina:

"So con che fedeltà avete servito Balaam, mio confratello; servitemi come avete servito lui. Non c'è onocrotalo che vi pareggi nel corso; andate, cara amica, rimettete la lettera nelle mani del destinatario, e tornate".

L'asina gli rispose:

"Come ho servito Balaam, così servirò monsignore; andrò e tornerò".

Il savio le mise l'astuccio d'ebano in bocca, e l'asina partì come una freccia.

Poi fece venire il cane di Tobia e gli disse:

"Cane fedele, e più presto alla corsa del pieveloce Achille, so quanto avete fatto per Tobia figlio di Tobia quando con l'angelo Raffaele lo accompagnaste da Ninive a Rages in Media, e da Rages a Ninive, e lui portò a suo padre i dieci talenti [2] che lo schiavo Tobia padre aveva prestati allo schiavo Gabelo; perché quegli schiavi erano assai ricchi. Portate al suo indirizzo questa lettera, più preziosa di dieci talenti d'argento".

Il cane gli rispose:

"Signore, se altre volte ho seguito il messaggero Raffaele, posso benissimo fare la vostra commissione".

Mambre gli mise la lettera in bocca; disse la stessa cosa alla colomba, che gli rispose:

"Signore, come ho riportato un ramo nell'arca, così riporterò la vostra risposta".

Prese la lettera nel becco. In pochi momenti furono tutti fuori di vista.

Poi Mambre disse al corvo:

"So che avete nutrito il gran profeta Elia quand'era nascosto vicino al torrente Carith, famoso in tutta la terra. Ogni giorno gli portavate buon pane e grasse pollastre; io non vi domando che di portare questa lettera a Memfi".

Il corvo rispose con queste parole:

"E' vero, signore, che tutti i giorni portavo da mangiare al gran profeta Elia il Tesbite, che poi vidi salire in cielo su un carro di fuoco trainato da quattro cavalli di fuoco, benché non sia l'uso; ma mi tenevo per me la metà del pranzo. Son pronto a portare la vostra lettera, a patto che mi garantiate due buoni pasti al giorno, e che la commissione mi sia pagata anticipatamente in denaro contante".

Mambre, incollerito, disse all'animale:

"Malvagio ghiottone, non mi meraviglio che Apollo, di bianco che eri come cigno, ti abbia fatto nero come una talpa, quando nelle pianure di Tessaglia tradisti la bella Coronide, infelice madre di Esculapio.

Eh! dimmi un po': mangiavi tutti i giorni filetto e pollastre quando rimanesti dieci mesi nell'arca?" "Signore, ci si mangiava benissimo" rispose il corvo. "Servivano arrosto due volte il giorno ai volatili della mia specie che non si nutrono che di carne, come avvoltoi, nibbi, aquile, poiane, sparvieri, gufi, astori, falchi, allocchi, e a tutta la sterminata schiera degli uccelli da preda. Con profusione ben maggiore guarnivano la tavola dei leoni, dei leopardi, delle tigri, delle pantere, dei giaguari, delle iene, dei lupi, degli orsi, delle volpi, delle faine, e di tutti i quadrupedi carnivori. C'erano nell'arca otto persone bennate, le sole che fossero al mondo, e incessantemente attendevano alle cure della nostra tavola e della nostra dispensa, e cioè: Noè e sua moglie, che non avevano più di seicento anni, e i loro tre figli con le tre spose.

Era un piacere osservare con che cura, con che pulizia i nostri otto domestici servivano più di quattromila commensali d'ottimo appetito, senza calcolare le straordinarie fatiche che esigevano dieci o dodicimila altre persone, dall'elefante e dalla giraffa fino ai bachi da seta e alle mosche. La cosa che più mi stupisce è che il nostro economo Noè sia ignoto a tutte le nazioni, delle quali è pure il ceppo; ma non me ne importa. M'ero già trovato a una festa del genere dal re di Tracia Xisuthre [3]. Son cose che avvengono di tanto in tanto per l'edificazione dei corvi. Insomma, voglio mangiar bene ed esser pagato bene in denaro contante." Il savio Mambre si guardò bene dal consegnare la lettera a una bestia così difficile e chiacchierona. Si lasciarono assai scontenti l'uno dell'altro.

Bisognava tuttavia sapere che cosa sarebbe capitato al bel toro, e non perder le tracce della vecchia e del serpente. Mambre comandò a servi intelligenti e fidati di seguirli; quanto a lui, se ne andò in lettiga lungo il Nilo, sempre immerso nelle sue riflessioni.

"Com'è mai possibile" andava dicendo tra sé e sé, "che quel serpente sia padrone di quasi tutta la terra, come si vanta e come tanti sapienti ammettono, e che tuttavia ubbidisca a una vecchia? Come mai lo chiamano ogni tanto a far parte del consiglio di lassù, mentre poi striscia sulla terra? Perché mai entra tutti i giorni nel corpo della gente per sua sola virtù, e tanti savi pretendono di cacciarlo fuori con le parole? E finalmente, come mai presso un piccolo popolo qui vicino ha fama di aver perduto il genere umano, e il genere umano non ne sa nulla? Sono vecchissimo, ho studiato tutta la vita; ma ci vedo un groviglio di contraddizioni che non riesco a sbrogliare. Non sarei capace di spiegare quello che mi è capitato, né le grandi cose da me fatte altre volte, né quelle di cui fui testimonio. Tutto ben considerato, comincio a sospettare che questo mondo sta in piedi a forza di contraddizioni: 'Rerum concordia discors', come diceva un tempo il mio maestro Zoroastro nella sua lingua." Intanto che era immerso in questa metafisica, oscura come ogni metafisica, un battelliere che cantava una canzone allegra accostò la sua barca alla riva. Ne uscirono tre gravi personaggi vestiti a metà di cenci laceri e unti, ma che pur sotto quella livrea della povertà conservavano un aspetto quanto mai maestoso e augusto. Erano Daniele, Ezechiele e Geremia.

 

NOTE

1) "Daniele", Quinto.

2) Ventimila scudi d'argento di Francia, al cambio del giorno.

3.

Beroso, autore caldeo, riferisce infatti che la stessa avventura toccò al re di Tracia Xisuthre; in modo anzi più meraviglioso, perché la sua arca aveva cinque stadi di lunghezza e due di larghezza. Ci fu grande discussione tra i savi per stabilire chi è il più vecchio, se lui o Noè.

 

CAPITOLO SESTO

IN CHE MODO MAMBRE INCONTRO' TRE PROFETI E OFFRI' LORO UN BUON PRANZETTO

I tre grand'uomini, che portavano in volto la luce profetica, riconobbero il savio Mambre per loro confratello dai pochi rimasugli di questa medesima luce che gli rimanevano; e si prosternarono davanti al suo palanchino. Anche Mambre li riconobbe per profeti, più dagli abiti che dalle liste di fuoco che si dipartivano dalle loro auguste teste. Gli parve di capire subito che venivano a prender notizie del toro bianco e affidandosi alla sua solita prudenza scese dalla vettura e si appressò a loro di alcuni passi, con gentilezza mista a dignità.

Li fece rialzare, fece rizzare delle tende e ammannire un pranzo, giudicando che i tre profeti ne avevano grande bisogno.

Fece invitare la vecchia, che non era che a cinquecento passi. Essa accolse l'invito e si presentò menando sempre il toro per la catena.

Servirono due minestre, un passato di gamberi e un "potage à la reine"; come entrata ci furono dei pasticci di lingue di carpa, di fegato di lamprede e di lucci, polli al pistacchio, innocenti ai tartufi e alle olive, due piccioncini con crema di gamberetti, di funghi porcini e di spugnoli, e una cipollata. L'arrosto comprendeva fagiani, pernici, gallinelle, quaglie e ortolani, con quattro insalate. C'era uno splendido centro da tavola. Niente poteva superare in delicatezza i tramezzi; in magnificenza, bellezza e ingegnosità il dolce.

Per altro il discreto Mambre aveva avuto somma cura che sulla tavola non comparisse né bollito, né filetto, né lingua, né muso di bue, né mammella di vacca, perché lo sventurato monarca, che da lontano assisteva al pranzo, non si credesse insultato.

Questo grande e disgraziato principe brucava l'erba presso la tenda.

Non aveva mai sentito così crudelmente la fatale rivoluzione che per sette interi anni lo aveva privato del trono.

"Ahimè!" diceva fra sé e sé, "questo Daniele che mi ha trasformato in bue, e questa strega d'una pitonessa che mi custodisce, mangiano come principi; e io, sovrano dell'Asia, sono ridotto a mangiar fieno e a bere acqua!" Bevvero molto vino d'Engaddi, di Tadmor, e di Sciraz. Quando i profeti e la pitonessa furono un pochino brilli, parlarono con più abbandono che non alle prime portate.

"Ammetto" disse Daniele, "che non mangiavo così bene quand'ero nella fossa dei leoni." "E che! signore, vi hanno messo nella fossa dei leoni?" disse Mambre.

"E come mai non vi hanno mangiato?" "Signore," rispose Daniele, "sapete che i leoni non mangiano mai profeta." "Quanto a me," fece Geremia, "ho passato tutta la vita a morir di fame, non ho mai fatto un buon pasto prima d'oggi. Dovessi rinascere, e potessi scegliermi uno stato, confesso che preferirei le mille volte esser commissario generale o vescovo a Babilonia che profeta a Gerusalemme." Ezechiele disse:

"Una volta mi fu comandato di dormire trecentonovanta giorni di seguito sul lato sinistro, e di mangiare frattanto pane d'orzo, di miglio, di veccia, di fave e di frumento, spalmato di... [1] mi vergogno a dirlo. Tutto quanto potei impetrare, fu di spalmarlo di sterco di bue. Confesso che la cucina del signor Mambre è più delicata. Tuttavia il mestiere di profeta ha del buono; prova ne sia che mille se ne impicciano".

"A proposito," disse Mambre, "spiegatemi un poco cosa intendete con quella vostra Oolla e quella vostra Ooliba, che facevan tanto caso dei cavalli e degli asini." "Ah!" rispose Ezechiele, "quelli sono fiori di retorica." Dopo queste cordiali effusioni, Mambre parlò d'affari. Domandò ai tre pellegrini perché erano venuti negli stati del re di Tanis. Daniele prese la parola; disse che il regno di Babilonia era stato messo a fuoco dopo la scomparsa di Nabucodonosor; che avevan perseguitato tutti i profeti, secondo l'uso della corte; che i profeti passavan la vita ora vedendosi i re ai piedi, ora ricevendo cento colpi di frusta; che infine erano stati costretti a rifugiarsi in Egitto, per tema di essere lapidati. Anche Ezechiele e Geremia parlarono molto a lungo e in bellissimo stile, che si durava fatica a intendere. Quanto alla pitonessa, teneva sempre d'occhio il suo animale. Il pesce di Giona stava nel Nilo, davanti alla tenda, e il serpente giocava tra l'erba.

Dopo il caffè andarono a passeggiare lungo il Nilo. Allora il toro bianco, vedendo i tre profeti suoi nemici, cacciò spaventosi muggiti; impetuosamente si gettò contro di loro, li colpì con le corna; e siccome i profeti son sempre pelle e ossa, li avrebbe trafitti da parte a parte e li avrebbe privati della vita; ma il Padrone delle cose, che vede tutto e a tutto rimedia, li trasformò immediatamente in gazze; e così continuarono a parlare come prima. La stessa cosa capitò poi alle Pieridi, a tal punto la favola ha imitato la storia.

Questo nuovo incidente suscitò nuove riflessioni nell'animo del savio Mambre:

"Ecco" diceva, "tre grandi profeti mutati in gazze; il che ci deve insegnare a non parlar troppo, a mantenere sempre una opportuna discrezione".

Concluse che la saggezza vale più dell'eloquenza, e secondo il suo solito pensava profondamente, quando un grande e terribile spettacolo venne a colpire i suoi sguardi.

 

NOTE

1) "Ezechiele", Quarto.

 

CAPITOLO SETTIMO

ARRIVA IL RE DI TANIS SUA FIGLIA E IL TORO STANNO PER ESSERE SACRIFICATI

Turbini di polvere si alzavano da mezzogiorno a settentrione. Si sentiva il fragore dei tamburi, delle trombe, dei pifferi, dei salteri, delle cetre, delle sambuche: parecchi squadroni e parecchi battaglioni venivano innanzi, e Amasi, re di Tanis, cavalcava in testa su un destriero in gualdrappa scarlatta ricamata d'oro, e gli araldi gridavano: "Prendete il toro bianco, legatelo, gettatelo nel Nilo, datelo da mangiare al pesce di Giona; perché il re mio signore, che è giusto, vuol vendicarsi del toro bianco che gli ha stregato la figlia".

Il buon vecchio Mambre si immerse più che mai nelle sue riflessioni.

Capiva che il corvo maligno era andato a squattrinar tutto al re e che la principessa correva gran rischio di farsi tagliare il collo. Disse al serpente:

"Caro amico, andate di corsa a consolare la bella Amaside, mia alunna; ditele che non tema nulla, checché capiti, e raccontatele delle storielle per disacerbare la sua inquietudine: infatti, le storielle divertono sempre le ragazze, e nel mondo non si riesce che grazie ad esse".

Poi si prosternò davanti ad Amasi, re di Tanis, e gli disse:

"O re! vivete per sempre. Il toro bianco dev'essere sacrificato, perché la Maestà Vostra ha sempre ragione; ma il Padrone delle cose ha detto: 'Questo toro non ha da essere mangiato dal pesce di Giona prima che Memfi non abbia trovato un dio da mettere al posto del dio che è morto'. Allora sarete vendicato, e vostra figlia sarà esorcizzata, perché è ossessa. Avete troppa pietà per non ubbidire agli ordini del Padrone delle cose".

Amasi, re di Tanis, rimase tutto pensieroso, poi disse:

"Il bue Api è morto! Dio abbia la sua anima. Quando credete che potranno trovare un altro bue che regni sul fecondo Egitto?" "Sire," rispose Mambre, "non vi domando che otto giorni." Il re, che era assai devoto, disse:

"Acconsento, e starò qui otto giorni; dopo di che sacrificherò il seduttore di mia figlia".

Poi fece venire le sue tende, i cuochi, i musici, e rimase otto giorni in quel posto, come è scritto in Manetone.

La vecchia era ridotta alla disperazione vedendo che il toro in sua custodia non aveva più che otto giorni da vivere. Faceva comparire fantasmi al re tutte le notti, per dissuaderlo dalla crudele sua decisione; ma la mattina il re non si ricordava più dei fantasmi visti la notte, al modo stesso in cui Nabucodonosor aveva dimenticato i suoi sogni.

 

CAPITOLO OTTAVO

IN CHE MODO IL SERPENTE RACCONTO' STORIELLE ALLA PRINCIPESSA PER CONSOLARLA

Frattanto il serpente raccontava storielle alla bella Amaside per calmare i suoi dolori. Le raccontava in che modo aveva, in altri tempi, guarito tutto un popolo dal morso di certi serpentelli, facendosi vedere appena in cima a un bastone. Le narrava le conquiste di un eroe che fece così bel contrasto con Anfione, architetto di Tebe in Beozia. Questo Anfione attirava le pietre squadrate col suono del violino: un rigodone e un minuetto gli bastavano per edificare una città. L'altro invece le distruggeva al suono d'un corno da capre; fece impiccare trentun potentissimi re in una regione che misura quattro leghe in quadro; fece piovere grosse pietre dal cielo su un battaglione di nemici che fuggivano davanti a lui; e dopo di averli sterminati in quel modo, fermò il sole e la luna in pieno mezzogiorno, per sterminarli ancora tra Gabaon e Aialon, sulla strada di Betoron; sull'esempio di Bacco, che aveva fermato il sole e la luna nel suo viaggio alle Indie.

La prudenza che si addice a qualsiasi serpente gli impedì di parlare alla bella Amaside del potente bastardo Jefte, che tagliò il collo alla sua figliuola perché aveva vinto una battaglia: avrebbe gettato troppo terrore nel cuore della bella principessa. Ma le narrò le avventure del gran Sansone, che ammazzò mille Filistei con una mascella d'asino, che legò insieme per la coda trecento volpi e che cadde nelle reti d'una figliuola meno bella, meno tenera, meno fedele dell'incantevole Amaside.

Le narrò gli amori sventurati di Sichem e della piacente Dina, che aveva sei anni, e gli amori più avventurati di Booz e di Ruth, quelli di Giuda con la sua nuora Tamar, quelli di Lot con le due figlie che non volevano lasciar finire il mondo, quelli di Abramo e di Giacobbe con le loro serve, quelli di Ruben con sua madre, quelli di David e Betsabea, quelli del gran re Salomone; insomma, tutto quanto poteva dissipare l'afflizione d'una bella principessa.

 

CAPITOLO NONO

IN CHE MODO IL SERPENTE NON LA CONSOLO'

"Tutte queste storie mi annoiano" disse la bella Amaside, che era donna di spirito e di gusto. "Non son buone che ad essere commentate presso gli Irlandesi da quel matto di Abbadie, o presso i Francesi da quel chiacchierone di Houteville. Le storie che si potevano narrare alla trisavola della trisavola della mia nonna non sono più adatte per me, che sono stata allevata dal savio Mambre, e che ho letto "l'intendimento umano" del filosofo egiziano chiamato Locke, e la "Matrona d'Efeso". Io voglio che una storia sia fondata sulla verosimiglianza, e che non somigli sempre a un sogno. Voglio che non abbia nulla di triviale o di stravagante. Soprattutto vorrei che, sotto il velo della favola, permettesse agli occhi esperti di intravedere qualche sottile verità che sfugge al volgo. Sono stufa del sole e della luna, di cui una vecchia fa l'uso che le pare, delle montagne che ballano, dei fiumi che risalgono alla sorgente, e dei morti che risuscitano; e particolarmente quando queste insulsaggini sono scritte in uno stile ampolloso e incomprensibile, mi disgustano in modo orribile. Capite che una ragazza che teme di vedere il suo amante inghiottito da un enorme pesce, e di vedersi tagliato il collo dal suo proprio genitore, ha bisogno d'esser divertita; ma procurate di divertirmi secondo il mio gusto." "Mi imponete in questo modo un compito assai difficile" rispose il serpente. "Altre volte avrei potuto farvi passare gradevolmente qualche quarto d'ora; ma da un po' di tempo vado perdendo la memoria e l'immaginazione. Ahimè! dove sono i tempi in cui divertivo le ragazze?

Ma vediamo un poco se posso raccapezzarmi qualche racconto morale per compiacervi.

"Venticinquemila anni fa il re Gnaof e la regina Patra stavano sul trono di Tebe dalle cento porte. Il re Gnaof era bellissimo, e la regina Patra ancora più bella; ma non potevano aver figli. Il re Gnaof offrì un premio a colui che avesse escogitato il metodo migliore per perpetuare la razza regale.

"La facoltà di medicina e l'accademia di chirurgia composero ottimi trattati sull'importante argomento; ma non ebbero esito. Mandarono la regina alle acque; fece delle novene; diede di gran denaro al tempio di Giove Ammone, dal quale deriva il sale ammoniaco: tutto invano.

Finalmente un giovane sacerdote di venticinque anni si presentò al re e disse: 'Sire, credo di esser capace di far lo scongiuro che operi quello che Vostra Maestà desidera così ardentemente. Ma devo poter parlare in segreto all'orecchio della Vostra Augusta Consorte, e, se non diventa feconda, consento a essere impiccato'. 'Accetto la vostra proposta' disse il re Gnaof. Lasciarono la regina e il sacerdote insieme appena per un quarto d'ora. La regina ingravidò, e il re volle far impiccare il sacerdote." "Dio mio!" fece la principessa, "vedo dove volete andare a parare; è un racconto troppo volgare; vi dirò anzi che allarma il mio pudore.

Raccontatemi qualche favola vera verissima, e morale, di cui non abbia mai sentito parlare, per finire di formarmi 'lo spirito e il cuore', come dice il professore egiziano Linro".

"Eccone una, signora," disse il bel serpente, "che è tra le più autentiche.

"C'erano tre profeti, tutt'e tre ambiziosi, tutt'e tre disgustati del loro stato. Avevano la fissa di voler essere re; infatti non c'è che un passo dal rango di profeta a quello di monarca, e l'uomo aspira sempre a salire tutti i gradini della scala della fortuna. Del resto avevano gusti e piaceri del tutto diversi. Il primo era mirabile predicatore, i suoi confratelli riuniti gli battevano le mani; il secondo andava pazzo per la musica; il terzo era un grande amatore di ragazze. L'angelo Ituriele venne e si presentò a loro un giorno che stavano a tavola e discorrevano delle dolcezze della condizione di re.

"'II Padrone delle cose' disse l'angelo, 'mi manda a voi per ricompensarvi della vostra virtù. Non soltanto sarete re, ma potrete soddisfare continuamente le vostre passioni dominanti. Voi, primo profeta, vi faccio re dell'Egitto, e presiederete sempre il consiglio, che applaudirà la vostra eloquenza e la vostra saggezza. Voi, secondo profeta, regnerete sulla Persia, e ascolterete continuamente una musica divina. Voi, terzo profeta, vi creo re delle Indie, e vi do un'amante incantevole, che non vi abbandonerà mai.' "Colui che aveva avuto in sorte l'Egitto cominciò radunando il consiglio privato, che era composto soltanto di duecento savi. Fece, secondo l'etichetta, un lungo discorso, che fu applauditissimo, e il monarca gustò la dolce soddisfazione di inebriarsi di lodi che non erano corrotte da nessuna adulazione.

"Il consiglio degli affari esteri succedette al consiglio privato. Fu assai più numeroso; e un nuovo discorso fu ancora più applaudito. Così andò anche con gli altri consigli. I piaceri e la gloria del profeta re d'Egitto non conobbero un momento di tregua. La fama della sua eloquenza riempì la terra intera.

"Il profeta re di Persia cominciò facendo rappresentare un'opera italiana, i cui cori erano cantati da millecinquecento castrati.

Quelle voci gli sommovevano l'anima fino al midollo delle ossa, dove l'anima risiede. A quell'opera ne seguì una seconda, alla seconda una terza, e così via, senza tregua.

"Il re delle Indie si rinchiuse in camera con l'amante e gustò insieme a lei una perfetta voluttà. Considerava come sovrano bene la necessità di continuamente carezzarla, e compiangeva la triste sorte dei due confratelli, dei quali l'uno era ridotto a tener sempre consiglio, l'altro a stare sempre all'opera.

"Ognuno dei tre, dopo alcuni giorni, sentì dalla finestra certi boscaiuoli che uscivan dall'osteria e se ne andavano a tagliar legna nella vicina foresta; davan braccio alle loro dolci amiche, e le potevano cambiare a volontà. I nostri re pregarono Ituriele di cortesemente intercedere per loro presso il Padrone delle cose, e di farli diventare boscaiuoli." "Non so" interruppe la tenera Amaside, "se il Padrone delle cose accondiscese al loro desiderio, e del resto non me ne importa; ma so bene che non domanderei niente a nessuno se potessi stare in camera da sola con il mio amante, il mio caro Nabucodonosor." Le volte del palazzo risuonarono a quel gran nome. Dapprima Amaside non aveva pronunciato che Na, poi Nabu, poi Nabuco; ma insomma la passione ebbe la meglio, e pronunciò il fatale nome tutto intero, nonostante il giuramento che aveva fatto al re suo padre. Tutte le dame di palazzo ripeterono "Nabucodonosor", e il malvagio corvo corse difilato a darne avviso al re. Il volto di Amasi, re di Tanis, si turbò, perché il suo cuore era pieno di turbamento. Ed ecco come il serpente, che era il più prudente e sottile degli animali, faceva sempre del male alle donne, pur credendo di fare il loro bene.

Allora Amasi, pieno di sdegno, mandò immediatamente a cercare sua figlia Amaside da dodici dei suoi sbirri, che sono sempre pronti ad eseguire tutte le barbarie che il re comanda, e che dicono a loro giustificazione: "Siamo pagati per questo".

 

CAPITOLO DECIMO

IN CHE MODO VOLLERO TAGLIARE IL COLLO ALLA PRINCIPESSA E COME NON GLIELO TAGLIARONO

Quando la principessa, tutta tremante, giunse all'accampamento del re suo padre, questi le disse:

"Figlia mia, sapete che si mettono a morte tutte le principesse che disubbidiscono al re loro padre, senza di che un regno non potrebbe essere governato come si deve. Vi avevo proibito di pronunciare il nome del vostro amante Nabucodonosor, mio mortale nemico, che mi ha spodestato or sono quasi sette anni e che è scomparso dalla terra. Al posto suo avete scelto un toro bianco e avete gridato; 'Nabucodonosor!' E' giusto che vi tagli il collo".

La principessa gli rispose:

"Padre mio, sia fatto secondo la vostra volontà; ma datemi il tempo di piangere la mia verginità".

"E' giusto" disse il re Amasi; "è legge stabilita presso tutti i principi illuminati e prudenti. Vi do tutto il giorno per piangere la vostra verginità, dal momento che dite di averla. Domani, che è l'ottavo giorno del mio accampamento, farò inghiottire il toro bianco dal pesce e vi taglierò il collo alle nove di mattina." La bella Amaside se ne andò dunque a piangere, lungo il Nilo, con le dame di palazzo, quello che le rimaneva del suo pulzellaggio. Il savio Mambre rifletteva vicino a lei, e contava le ore, i momenti.

"E dunque, caro il mio Mambre," gli disse la principessa, "avete mutato in sangue le acque del Nilo, secondo il solito, ma non siete capace di mutare il cuore di Amasi mio padre, re di Tanis! Lascerete che mi tagli il collo domattina alle nove!" "Dipenderà" disse riflettendo Mambre, "dalla diligenza dei miei corrieri." L'indomani, non appena le ombre degli obelischi e delle piramidi segnarono l'ora nona del giorno sulla terra, il toro bianco fu legato per esser gettato in pasto al pesce di Giona, e portarono al re la sua grande spada.

"Ahimè! ahimè!" diceva Nabucodonosor in fondo al suo cuore, "io, re, sono bue da quasi sette anni; ed ecco che, appena ho ritrovato l'amante mia, mi danno in pasto a un pesce." Il savio Mambre non aveva mai fatto così profonde riflessioni. Era assorto nei suoi tristi pensieri, quando vide giunger da lontano quello che aspettava. Una innumerevole folla veniva innanzi. Le tre statue di Iside, di Osiride e di Oro, strette insieme, avanzavano portate su una lettiga d'oro e di pietre preziose da cento senatori di Memfi, precedute da cento fanciulle che suonavano il sistro sacro.

Quattromila sacerdoti, la testa rapata e coronata di fiori, cavalcavano ciascuno un ippopotamo. Venivano poi con l'identica pompa la pecora di Tebe, il cane di Bubaste, il gatto di Febe, il coccodrillo di Arsinoe, il becco di Mende, e tutti gli dèi inferiori d'Egitto: venivano tutti a rendere omaggio al gran bue, al gran dio Api, potente quanto Iside, Osiride e Orus messi insieme.

In mezzo a tutti questi semidei, quaranta sacerdoti portavano un enorme corbello pieno di cipolle sacre, che non erano propriamente del tutto degli dèi, ma che gli somigliavano molto.

Ai due lati di questo corteo di dèi, seguito da una folla innumerevole, marciavano quarantamila guerrieri, casco in testa, scimitarra sull'anca sinistra, faretra in spalla e arco in mano.

Tutti i sacerdoti cantavano in coro, con un'armonia che insieme elevava e inteneriva l'anima:

"Composto il bue defunto nell'avello, ne troveremo un altro ancor più bello".

E nelle pause si sentivano risuonare i sistri, le castagnette, i tamburelli, i salteri, le cornamuse e le sambuche.

 

CAPITOLO UNDICESIMO

IN CHE MODO LA PRINCIPESSA SPOSO' IL BUE

Amasi, re di Tanis, meravigliato dallo spettacolo, non tagliò il collo a sua figlia; rimise la scimitarra nel fodero. Mambre gli disse:

"Gran re! L'ordine delle cose è mutato; bisogna che Vostra Maestà ne dia l'esempio! O re! slegate voi stesso e presto il toro bianco, e siate il primo ad adorarlo". Amasi ubbidì e si prosternò con tutto il suo popolo.

Il sommo sacerdote di Memfi presentò al nuovo bue Api la prima manciata di fieno. La principessa Amaside gli appendeva alle corna festoni di rose, d'anemoni, di ranuncoli, di tulipani, di garofani e di giacinti. Si concedeva la libertà di abbracciarlo, ma con profondo rispetto. I sacerdoti spargevano palme e fiori sulla strada che lo portava a Memfi; e il savio Mambre, facendo sempre le sue riflessioni, diceva sottovoce all'amico serpente:

"Daniele ha cambiato quell'uomo in bue, e io ho cambiato questo bue in dio".

Così se ne tornarono verso Memfi nello stesso ordine. Il re di Tanis, assai confuso, seguiva il corteo. Con viso ilare e raccolto, Mambre gli stava accanto. La vecchia, tutta stupita, li accompagnava, seguita dal serpente, dal cane, dall'asina, dal corvo, dalla colomba e dal capro espiatorio. Il gran pesce risaliva il Nilo. Daniele, Ezechiele e Geremia, trasformati in gazze, chiudevano la marcia.

Quando furono giunti alle frontiere del regno, che non erano molto lontane, il re Amasi si accomiatò dal bue Api e disse alla figliuola:

"Figlia mia, torniamo nei nostri stati, perché vi possa tagliare il collo, così come ho deciso nel mio cuore regale; infatti avete pronunciato il nome di Nabucodonosor mio nemico, che mi ha spodestato or sono sette anni. Quando un padre ha giurato di tagliare il collo a sua figlia, bisogna che mantenga il suo giuramento, senza di che sarà precipitato per sempre nell'inferno, e io non mi voglio dannare per amor vostro".

La bella principessa rispose al re Amasi con queste parole:

"Caro papà, andate a tagliare il collo a chi volete, ma il mio certo no. Sono sulle terre di Iside, di Osiride di Orus e di Api; non abbandonerò certo il mio bel toro bianco; lo bacerò lungo tutta la strada, fin che avrò visto la sua apoteosi nella gran scuderia della santa città di Memfi: è debolezza che si può perdonare a una figliuola bennata".

Aveva appena pronunciato quelle parole, che il bue Api esclamò:

"Mia cara Amaside, ti amerò per tutta la vita!" Era la prima volta che si sentiva parlare il bue Api in Egitto, da quarantamila anni che lo adoravano. Il serpente e l'asina esclamarono:

"I sette anni sono compiuti!" E le tre gazze ripeterono:

"I sette anni sono compiuti!" Tutti i sacerdoti egiziani levarono le mani al cielo. A un tratto si vide il dio perdere le due zampe anteriori; le due zampe posteriori gli si trasformarono in due gambe umane; due belle braccia carnose, muscolose e bianche gli spuntarono dalle spalle; il muso di toro fece posto al bel volto di un eroe. Rifatto il più bell'uomo del mondo, disse:

"Preferisco essere l'amante di Amaside che dio. Sono Nabucodonosor, re dei re".

Questa nuova metamorfosi stupì ognuno, eccettuato il meditativo Mambre; ma nessuno fu stupito vedendo Nabucodonosor sposare immediatamente la bella Amaside, davanti a tutta quella grande adunata.

Lasciò il regno di Tanis a suo suocero, istituì dei buoni legati per l'asina, il serpente, il cane, la colomba e persino per il corvo, per le tre gazze e per il grosso pesce; dimostrando al mondo intero che era capace di perdonare come di vincere. La vecchia si ebbe una bella pensione. Il capro espiatorio lo mandarono per un giorno nel deserto, perché fossero espiati tutti i peccati; dopo di che lo premiarono con dodici capre. Il savio Mambre tornò nel suo palazzo a continuare le sue riflessioni. Nabucodonosor, dopo le carezze, governò pacificamente il regno di Memfi, quello di Babilonia, di Damasco, di Balbec, di Tiro, la Siria, l'Asia Minore, la Scizia, le contrade di Sciraz, di Mosoc, del Tubal, di Madai, di Gog, di Magog, di Giavan, la Sogdiana, la Battriana, le Indie e le isole.

I popoli di questa monarchia tutte le mattine gridavano: "Viva il grande Nabucodonosor, re dei re, che non è più bue!" E da allora in Babilonia si stabilì l'usanza che ogni qualvolta il sovrano, grossolanamente ingannato dai satrapi, o dai magi, o dai tesorieri, o dalle sue donne, riconosceva finalmente i suoi errori e correggeva la sua cattiva condotta, il popolo tutto alla sua porta gridasse: "Viva il nostro grande re, che non è più bue!"

 

 

Ultima modifica 09.01.2009