Introduzione a Marx

Leon Trotsky (1939)


Tradotto dall'originale disponibile su MIA da Leonardo Maria Battisti, 2021.07.29.


INDICE
    Cosa viene offerto al lettore
    Il metodo di Marx
    Marxismo e scienza ufficiale
    La legge del valore del lavoro
    Disuguaglianza e sfruttamento
    Concorrenza e monopolio
    Accentramento della ricchezza e crescita dei contrasti di classe
    L'insegnamento di Marx è diventato obsoleto?
      [1] La "teoria dell'aumento della miseria"
      [2] L'esercito di riserva e la nuova sottoclasse dei disoccupati
      [3] La dissoluzione dell'autentica classe media
      [4] Crisi industriale
      [5] La “Teoria del collasso"
    La decadenza del capitalismo
    Il fascismo e il New Deal
    Anomalia o norma?
    Ciarlataneria giudiziaria
    Per tornare a ieri
    Millikan e il marxismo
    Possibilità produttive e proprietà privata
    L'inevitabilità del socialismo
    L'inevitabilità della rivoluzione socialista
    Il marxismo negli Stati Uniti
    Lo specchio ideale del capitalismo
    Madrepatrie e colonie
    Economia mondiale pianificata

Cosa viene offerto al lettore

Questo libro espone concisamente le basi dell'insegnamento economico di Marx con le parole di Marx stesso. Perché ancora nessuno sa esporre la teoria del valore del lavoro meglio di Marx.

Il riassunto del primo volume del Capitale (il fondamento dell'intero sistema economico di Marx) è fatto da Otto Rühle con grande cura e con profonda comprensione del suo compito. Prima sono stati eliminati esempi obsoleti, poi citazioni di scritti oggi di solo interesse storico, polemiche con scrittori ormai dimenticati, e infine numerosi documenti (Atti del Parlamento, relazioni degli ispettori di fabbrica...) che rendono comprensibile una certa epoca ma non hanno posto in un'esposizione concisa con obiettivi teorici anziché storici. Al contempo, Rühle ha garantito la continuità nello sviluppo dell'analisi scientifica e l'unità dell'esposizione. Nessun punto smarrisce le deduzioni logiche e le transizioni dialettiche del pensiero. Certo: il riassunto esige una lettura attenta e ponderata. Per aiutare il lettore, Otto Rühle ha inserito nel testo titoli a margine.

Certe argomentazioni di Marx appariranno al lettore profano troppo verbose, sofistiche o “metafisiche”. Ma è un'impressione che deriva dalla predisposizione a non affrontare i fenomeni più abituali scientificamente. Le merci sono un elemento così onnipresente, abituale e familiare della nostra vita quotidiana da non chiederci neppure perché gli uomini rinuncino a beni di sussistenza in cambio di monetine senza valore d'uso.

Non è solo il caso delle merci. Ogni ramo dell'economia di mercato è preteso inestinguibile, senza analisi, come base naturale delle relazioni umane. Eppure (mentre le realtà del processo economico sono la manodopera, le materie prime, gli strumenti, le macchine, la divisione del lavoro, la necessità di distribuire i prodotti finiti tra i partecipanti al processo di produzione...), categorie come “merce”, “denaro”, “salario”, “capitale”, “profitto”, “imposta” ..., sono solo riflessi semi-mistici nella testa degli uomini dei vari aspetti di un processo di economia che non capiscono e non controllano, decifrabili solo in sede di analisi scientifica.

Negli Stati Uniti, dove un uomo che possiede un milione si dice “che vale un milione”, i concetti economici sono sconosciuti più che altrove. Fin di recente, agli statunitensi è importata poco la natura dei rapporti economici. Nella terra del sistema economico più potente, la teoria economica continuava a languire. Solo la Grande Depressione (i cui effetti a lungo termine devono ancora manifestarsi) ha messo l'opinione pubblica statunitense di fronte ai problemi fondamentali della società capitalista. In ogni caso, chi ha ancora la disposizione di accettare acriticamente i concetti preconfezionati dello sviluppo economico, chi non abbia indagato, sulla via di Marx, la natura essenziale della merce come cellula fondamentale dell'organismo capitalista, sarà sempre incapace di attecchire scientificamente alle manifestazioni più importanti della nostra epoca.

Il metodo di Marx

Definita la scienza come conoscenza dei fenomeni oggettivi della natura, l'uomo ha preteso di non essere passibile di trattamento scientifico, mercé presunti rapporti privilegiati con forze soprasensibili (religione), o con precetti morali senza storicità (idealismo). Marx tolse all'uomo questi odiosi privilegi, stimando l'uomo una fase del naturale processo evolutivo della materia; la società umana un'organizzazione della produzione e della distribuzione; il capitalismo una fase dello sviluppo della società umana.

Non era obiettivo di Marx scoprire le “leggi eterne” dell'economia. Egli negava l'esistenza di tali leggi. La storia dello sviluppo della società umana è la storia della successione di vari sistemi economici, ognuno rispondente a proprie leggi. Il passaggio da un sistema all'altro è sempre stato determinato dalla crescita delle forze produttive, cioè della tecnica e dell'organizzazione del lavoro. All'inizio, i mutamenti sociali sono di carattere quantitativo e non alterano i fondamenti della società, cioè le forme prevalenti di proprietà. Ma si arriva a un punto in cui le forze produttive maturate non entrano più dentro le vecchie forme di proprietà; ne segue un mutamento radicale dell'ordine sociale, accompagnato da urti violenti. La comune primitiva fu sostituita o integrata con la schiavitù; alla schiavitù seguì la servitù della gleba con la sua sovrastruttura feudale; lo sviluppo commerciale urbano portò l'Europa nel XVI secolo all'ordine capitalistico, che ebbe varie fasi. Il Capitale di Marx non è un libro di economia generale; è un libro di transitoria economia capitalistica, la quale ha le sue leggi specifiche. E fa digressioni su altri sistemi economici, altrettanto particolari, solo per chiarire le peculiarità del capitalismo.

L'economia autosufficiente della primitiva famiglia contadina non ha bisogno di una “economia politica”, perché è dominata da un lato dalle forze della natura e dall'altro dalle forze della tradizione. L'economia naturale chiusa dei Greci o dei Romani, fondata sul lavoro schiavile, era governata dalla volontà del proprietario degli schiavi, il cui “piano” era a sua volta determinato direttamente dalle leggi della natura e dalla consuetudine. Lo stesso potrebbe dirsi pure dello Stato medievale coi suoi servi della gleba. In tutti questi casi, i rapporti economici erano chiari e trasparenti nella loro primitiva crudezza. Ma il caso della società contemporanea è affatto diverso. Ha distrutto i vecchi rapporti economici autonomi e i modi di lavoro ereditati. I nuovi rapporti economici allacciano città e villaggi, province e nazioni. La divisione del lavoro è planetaria. Rotta la tradizione e la consuetudine, questi legami non si sono composti secondo pianificazione, ma fuori dalla consapevolezza e previsione umane. L'interdipendenza di uomini, gruppi, classi, nazioni (derivante dalla divisione del lavoro) non è diretta da alcuno. Le persone lavorano l'una per l'altra senza conoscersi, senza sapere i bisogni dell'altro, sperando o pretendendo che i loro rapporti si autoregolino da soli. E una volta tendevano a farlo.

È assolutamente impossibile cercare le cause delle fasi della società capitalistica nella coscienza soggettiva, nelle intenzioni o nei piani dei suoi membri. Le leggi oggettive del capitalismo operarono prima che la scienza iniziasse a pensarle seriamente. La stragrande maggioranza dell'umanità ignora ancora le leggi che governano l'economia capitalista. Tutta la forza del metodo di Marx sta nell'affrontare i fenomeni economici, non dal punto di vista soggettivo di certe persone, ma dal punto di vista oggettivo della società nel suo insieme, così come fa un entomologo con un alveare o un formicaio.

Il senso della scienza economica è cosa e come fa l'umanità, non cosa pensano le persone delle loro azioni. Alla base della società non stanno religione e morale, ma natura e lavoro. Il metodo di Marx è materialistico, perché procede dall'esistenza alla coscienza, non il contrario. Il metodo di Marx è dialettico, perché stima la natura e la società provvisorie nel loro evolversi, e stima l'evoluzione stessa lotta costante di forze contrarie.

Marxismo e scienza ufficiale

Marx ebbe predecessori. L'economia politica classica (Adam Smith, David Ricardo) giunse alla massima fioritura prima che il capitalismo iniziasse a invecchiare e a temere il domani. Marx tributò ai grandi classici una profonda gratitudine. Ma l'errore fondamentale dell'economia classica fu stimare il capitalismo la normale esistenza dell'umanità, anziché una fase storica dello sviluppo della società. Marx iniziò con una critica a quell'economia politica, esponendo i suoi errori, così come le contraddizioni del capitalismo stesso, provandone la transitorietà. Rosa Luxemburg disse con ragione che il pensiero di Marx è il figlio dell'economia classica, la cui nascita è costata la vita alla madre.

La scienza non raggiunge il suo obiettivo nello studio asettico dello studioso, ma nella società in carne e ossa. Tutti gli interessi e le passioni che dilaniano la società intervengono sullo sviluppo della scienza, specie sull'economia politica: la scienza della ricchezza e della povertà. La lotta dei lavoratori contro i capitalisti costrinse i teorici della borghesia ad abbandonare l'analisi scientifica del sistema di sfruttamento, limitandosi ha una scarna descrizione dei fatti economici, alla storia dell'economia e, quel che è peggio, a una falsificazione delle cose quali sono per perpetuare il provvisorio regime capitalista. La dottrina economica ufficiale (insegnata a scuola e predicata dalla stampa borghese) non difetta di importanti dati di fatto, ma è incapace di attingere all'essenza del processo economico e di scoprirne le leggi e le prospettive, né ha alcuna volontà di farlo. L'economia politica ufficiale è morta. La vera conoscenza della società capitalistica può essere ottenuta solo attraverso il Capitale di Marx.

La legge del valore del lavoro

Nella società contemporanea, la principale relazione fra uomini è lo scambio. Un prodotto del lavoro che entri nel processo di scambio diviene una merce. Marx iniziò la sua indagine dalla merce e dedusse da tale cellula fondamentale della società capitalista i rapporti sociali che si sono oggettivamente formati sulla base dello scambio, indipendentemente dalla volontà dell'uomo. Solo lo scambio offre soluzione al rompicapo fondamentale: come fa nella società capitalistica (in cui ognuno pensa per sé e nessuno pensa per tutti) ad esserci un equilibrio fra i vari rami dell'economia indispensabili alla vita?

L'operaio vende la sua forza-lavoro, il contadino porta i suoi prodotti al mercato, il prestatore di denaro o banchiere concede prestiti, il negoziante offre un assortimento di merci, l'industriale costruisce un impianto, lo speculatore compra e vende azioni e obbligazioni - ognuno con le proprie valutazioni, il proprio piano privato, la propria preoccupazione per il salario o il profitto. Eppure, da questo caos di sforzi e azioni individuali emerge un'unità economica, certo non armoniosa, anzi contraddittoria, eppure tale che la società, nonché sostenersi, si sviluppa. Ciò significa che, dopo tutto, il caos non è affatto caos, che è regolato automaticamente, non essendolo consapevolmente. Capire il meccanismo che porta i vari aspetti dell'economia a uno stato di relativo equilibrio significa scoprire le leggi oggettive del capitalismo.

Si tratta di leggi numerose e complesse (salario, prezzo, rendita fondiaria, affitto, profitto, interessi, credito, borsa) che governano le varie sfere dell'economia capitalista. Ma, in ultima analisi, si riducono alla sola legge che Marx scoprì e spiegò completamente: la legge del valore del lavoro, che è il regolatore basilare dell'economia capitalista. L'essenza di tale legge è semplice. La società dispone di una certa riserva di forza-lavoro vivente. Applicato alla natura, tale forza produce i prodotti necessari per la soddisfazione dei bisogni umani. A seguito della divisione del lavoro fra produttori indipendenti, i prodotti assumono la forma di merci. Le merci sono scambiate fra loro in un dato rapporto, dapprima direttamente, poi attraverso il mezzo dell'oro o del denaro. La proprietà fondamentale delle merci, che in un certo rapporto le rende comparabili fra loro, è la quantità di lavoro umano in esse incorporata (il lavoro astratto, il lavoro in generale) che è la base e la misura del valore. La divisione del lavoro fra milioni di produttori sparsi non disgrega la società, perché le merci sono scambiate in base al tempo di lavoro socialmente necessario incorporato in esse. Accettando e rifiutando merci, il mercato (in quanto arena dello scambio) decide se esse incorporino o no lavoro socialmente utile, determinando così le proporzioni fra i vari tipi di merci necessarie alla società, e di conseguenza anche la distribuzione della forza-lavoro secondo i vari mestieri.

I processi reali del mercato sono guari più complessi di quanto ho esposto in queste poche righe. Oscillando intorno al valore del lavoro, i prezzi fluttuano sempre al di sopra e al di sotto del loro valore. Le cause di tali fluttuazioni sono pienamente spiegate da Marx nel terzo volume del Capitale (che descrive «il processo di produzione capitalistica considerato nel suo insieme»). Ma, per quanto grandi possano essere le divergenze fra i prezzi e i valori delle merci nei singoli casi, la somma di tutti i prezzi è uguale alla somma di tutti i valori; perché, alla fine, la società dispone solo di valori creati dal lavoro umano, e i prezzi non possono superare tale limite, inclusi i prezzi monopolistici dei trust; dove il lavoro umano non ha creato nuovo valore aggiunto, neppure Rockefeller può ottenere alcunché.

Disuguaglianza e sfruttamento

Ma se le materie prime sono scambiate fra loro in base alla quantità di lavoro incorporata in esse, come nasce la disuguaglianza? Marx risolse questo rompicapo: esiste una merce diversa dalle altre, che sta alla base di tutte le altre merci: la forza-lavoro. Il proprietario dei mezzi di produzione (il capitalista) compra la forza-lavoro. Come qualsiasi merce, la forza-lavoro vale quanto la quantità di lavoro incorporata in essa, cioè sulla base di quei mezzi di sussistenza necessari alla salute e alla riproduzione del lavoratore. Ma il consumo di tale merce (la forza-lavoro) consiste nel lavoro, cioè nella creazione di nuovi valori. La quantità di questi valori è maggiore di quelli che l'operaio stesso riceve e che spende per il suo mantenimento. Il capitalista compra la forza-lavoro per sfruttarla. È questo sfruttamento che è la fonte della disuguaglianza.

Marx chiama prodotto-necessario quella parte del prodotto che va a coprire il sostentamento del lavoratore; e prodotto-eccedente (plusprodotto) quella parte del prodotto che il lavoratore produce in eccesso. Se gli schiavi non fossero stati produttori di plusprodotto, non sarebbero stati tenuti in vita. Pure i servi della gleba dovevano produrre plusprodotto, o il vassallaggio non sarebbe stato utile alla nobiltà terriera. Seppur in misura molto maggiore, il lavoro salariato è ancora produzione di plusprodotto, o il capitalista non avrebbe avuto bisogno di acquistare forza-lavoro. La lotta di classe è solo lotta per il plusprodotto. Chi possiede il plusprodotto è il padrone della situazione – possiede la ricchezza, possiede lo Stato, ha le chiavi della Chiesa, dei tribunali, delle scienze e delle arti.

Concorrenza e monopolio

I rapporti fra i capitalisti (sfruttatori di lavoratori) sono determinati dalla concorrenza, ultima molla del progresso in una società capitalistica. Le grandi imprese godono di vantaggi tecnici, finanziari, organizzativi, economici e, non da ultimo, politici rispetto alle piccole imprese. La maggiore quantità di capitale, potendo sfruttare più lavoratori, vince qualsiasi competizione. Ciò determina il processo di accentramento del capitale.

Pur stimolando l'innovazione tecnologica, la concorrenza dissolve sé stessa oltre agli strati intermedi! Sui cadaveri e i semi-cadaveri di piccoli e medi capitalisti, si erge un numero sempre minore di super capitalisti. Così, l'“onestà”, “democratica”, “progressista” concorrenza conduce sempre al “dannoso”, “parassitario”, “reazionario” monopolio. Il dominio monopolistico iniziò a fine ‘800, assumendo una forma definitiva solo a inizio ‘900. Oggi, la vittoria del monopolio è sancita da membri istituzionali della società borghese. Homer S. Cummings (ex procuratore generale degli Stati Uniti) biasima la concorrenza come forza di contenimento, in corso di rimozione e, in vasti settori, di essa resta solo “un oscuro ricordo delle condizioni che esistevano una volta”. Eppure, quando nel corso della sua prognosi, Marx fu il primo a concludere che il monopolio fosse tendenza intrinseca del capitalismo, il mondo borghese ritenne la concorrenza un'eterna legge di natura.

La concorrenza distrutta dal monopolio è l'inizio della disintegrazione della società capitalistica. La concorrenza fu la molla creativa e la giustificazione storica del capitalista. Ma l'eliminazione della concorrenza muta gli azionisti in parassiti sociali. Alla concorrenza servivano libertà, un'atmosfera liberale, un regime democratico, un cosmopolitismo commerciale. Il monopolio esige un governo autoritario, barriere doganali, possesso delle fonti di materie prime, arene di commercializzazione (colonie). L'ultimo atto della disintegrazione del capitale giunto al monopolio è il fascismo.

Accentramento della ricchezza e crescita dei contrasti di classe

I capitalisti e i loro sostenitori cercano di sottovalutare l'accentramento della ricchezza agli occhi del popolo quanto del fisco. In spregio all'ovvio, la stampa borghese cerca ancora di mantenere l'illusione di una distribuzione “democratica” degli investimenti capitalistici. Il New York Times, per confutare i marxisti, nota che ci sono da tre a cinque milioni di imprenditori. Le società per azioni, è vero, rappresentano una maggiore concentrazione di capitale rispetto ai milioni di singoli imprenditori, eppure gli Stati Uniti hanno “mezzo milione di società per azioni”. Queste cifre sono tirate fuori non per rivelare bensì per nascondere.

Dalla Grande Guerra al 1923 l'indice percentuale di stabilimenti e fabbriche negli Stati Uniti è sceso da 100 a 98,7, mentre la massa della produzione industriale è passata da 100 a 156,3. Nei cosiddetti Anni Ruggenti (1923-1929), quando tutti parevano arricchirsi, il numero di stabilimenti è sceso da 100 a 93,8, mentre la produzione è salita da 100 a 113. Ma l'accentramento di impianti industriali (dovuto alle loro immense dimensioni) resta inferiore a quello dei proprietari. È vero che nel 1929 gli Stati Uniti avessero più di 300.000 società per azioni, come diceva il New York Times. Però basta aggiungere che 200 di queste (lo 0,07%) controllavano direttamente il 49,2% dei beni di tutte le società. Quattro anni dopo, tale rapporto era già salito al 56%. Negli anni dell'amministrazione di Roosevelt può solo essere salito. All'interno di queste 200 società per azioni il dominio effettivo appartiene a una piccola minoranza. Una commissione del Senato scoprì nel febbraio del 1937 che negli ultimi 20 anni le decisioni di dodici delle maggiori società per azioni sono state come ordini impartiti alla maggioranza dell'industria americana. Il numero dei presidenti del consiglio di amministrazione di queste società è all'incirca uguale al numero dei membri del gabinetto del Presidente degli Stati Uniti, il potere esecutivo del governo della repubblica. Ma questi presidenti del consiglio di amministrazione sono molto più potenti dei membri del gabinetto.

Lo stesso fenomeno avviene nei sistemi bancari e assicurativi. Cinque delle maggiori compagnie di assicurazione degli Stati Uniti hanno assorbito, nonché altre compagnie, molte banche. Il numero totale di banche si è ridotto perlopiù attraverso cosiddette “fusioni”, cioè venendo assorbite. L'entità del fatturato cresce rapidamente. Sopra le banche cresce l'oligarchia delle super-banche. Il capitale delle banche si fonde con il capitale delle industrie in un super-capitale finanziario. Se l'accentramento dell'industria e delle banche continuasse allo stesso ritmo dell'ultimo quarto di secolo (in realtà, il ritmo è in aumento), allora nel prossimo quarto di secolo i monopolisti avranno accorpato l'intera economia del Paese, senza lasciare manco l'obolo della vedova.

Qui ho fatto solo il caso statunitense perché dispone delle statistiche più esatte e più sorprendenti. Ma il processo di accentramento è internazionale. Nelle varie fasi del capitalismo (dietro l'avvicendarsi di cicli congiunturali, regimi politici, periodi di pace, conflitti armati) il processo di accentramento di tutte le grandi fortune in un numero sempre minore di mani è continuato e continuerà. Durante gli anni della Grande Guerra, quando le nazioni morivano dissanguate, quando gli stessi corpi politici della borghesia giacevano schiacciati sotto il peso dei debiti nazionali, quando i sistemi fiscali sprofondavano dissolvendo la classe media, i monopolisti facevano profitti senza precedenti dal sangue e dal fango. Le più potenti compagnie statunitensi accrebbero il loro patrimonio durante gli anni della guerra di due, tre, quattro e più volte e gonfiarono i loro dividendi al 300, 400, 900%.

Otto anni prima che Marx ed Engel si pubblicassero il Manifesto del Partito Comunista, Alexis de Tocqueville scrisse nel suo libro Democrazia in America (1840):

«I grandi patrimoni tendono a scomparire, il numero delle piccole fortune ad aumentare».

Questo pensiero è stato ripetuto innumerevoli volte per gli Stati Uniti e poi per altre giovani democrazie: l'Australia e la Nuova Zelanda. Seppur fosse errato già ai suoi tempi, la vera concentrazione di ricchezza iniziò solo dopo la Guerra di secessione, alla vigilia della quale Tocqueville morì. Già a inizio ‘900 il 2% degli statunitensi possedeva più della metà della ricchezza nazionale. Nel 1929, sempre il 2% possedeva i tre quinti della ricchezza nazionale, e la somma dei redditi di 36.000 famiglie benestanti era pari a quella di 11.000.000.000 di famiglie mediocri e povere. La Grande Depressione non mise gli istituti monopolistici nella situazione di chiedere carità pubblica; anzi, li innalzò più che mai sopra il declino generale dell'economia nazionale. Durante la successiva traballante ripresa, i monopolisti contrastarono il New Deal, scremando panna dal dolce. Mentre in basso il numero dei disoccupati scese da venti a dieci milioni; in alto fantastici dividendi furono raccolti da soli 6.000 adulti; questo è ciò che provò il procuratore generale Robert H. Jackson con le cifre durante il suo mandato come viceprocuratore generale dell'antitrust statunitense.

Ferdinand Lundberg (che malgrado la scrupolosità è un economista piuttosto conservatore) scrisse nel suo libro, facendo scalpore:

«Gli Stati Uniti sono oggi posseduti e dominati da una gerarchia di 60 famiglie ricche, sostenuta da non più di 90 famiglie meno ricche».

A queste si potrebbe aggiungere un terzo livello di forse 350 altre famiglie con redditi superiori ai centomila dollari annui. La posizione predominante spetta al primo gruppo, che domina non solo il mercato ma tutte le leve del governo. Sono loro il vero governo, “il governo del denaro in una democrazia del dollaro”.

Così, il concetto di “capitale monopolistico” pare astratto ma è per noi pieno di carne e sangue. Significa che una manciata di famiglie (legate da vincoli di parentela e da comuni interessi in un'oligarchia capitalistica esclusiva) dispone delle fortune economiche e politiche di una grande nazione. Bisogna ammettere per forza che la legge capitalistica dell'accentramento di capitali scoperta da Marx ha funzionato egregiamente!

L'insegnamento di Marx è diventato obsoleto?

Le questioni della concorrenza, dell'accentramento della ricchezza e del monopolio fanno chiedersi: la teoria economica di Marx è oggi solo di interesse storico (come la teoria di Adam Smith) o conserva pregnanza? Il criterio per rispondere è semplice: se la teoria stima il corso dello sviluppo e prevede il futuro meglio di altre teorie, allora rimane la teoria più avanzata del nostro tempo, nonostante i suoi anni.

Il famoso economista tedesco Werner Sombart (a inizio carriera un marxista di fatto, per poi rivedere tutti gli aspetti più rivoluzionari dell'insegnamento di Marx), nel 1928 (a fine carriera), contrappose al Capitale di Marx il suo libro Capitalismo, forse il più noto trattato economica borghese contemporaneo. Dopo la lode dei princìpi del Capitale, Sombart scrive:

«Karl Marx profetizzava: in primo luogo, la crescente miseria dei lavoratori salariati; in secondo luogo, l'“accentramento” generale (scomparsa della classe di artigiani e contadini); in terzo luogo, il collasso catastrofico del capitalismo. Nulla di tutto ciò è avvenuto».

Date queste previsioni errate, Sombart formula le sue «con rigore scientifico». Per lui:

«Il capitalismo continuerà a trasformarsi internamente nella stessa direzione verso cui iniziò a trasformarsi al suo apogeo: invecchiando, diventerà sempre più pacifico, tranquillo, ragionevole».

Proviamo a verificare, almeno nelle seguenti [cinque] linee essenziali, chi abbia ragione: Marx, con la sua prognosi di catastrofe; o Sombart, che in nome di tutta l'economia borghese, ha promesso che le cose si sarebbero aggiustate “pacificamente, tranquillamente, ragionevolmente”. Il lettore converrà che la questione è degna di nota.

[1] La "teoria dell'aumento della miseria"

Marx scrisse prima di Sombart:

«L'accumulo di ricchezza a un polo significa al contempo accumulo di miseria, agonia della fatica, schiavitù, ignoranza, brutalità, degrado mentale, al polo opposto (cioè dalla parte della classe che produce il suo prodotto sotto forma di capitale)».

La tesi di Marx soprannominata “Teoria dell'aumento della miseria” è stata sempre attaccata da riformisti democratici e socialdemocratici, specie nel periodo 1896-1914, quando il capitalismo si sviluppava così in fretta da fare concessioni ai lavoratori, almeno di livello superiore. Dopo la Grande Guerra (quando la borghesia, spaventata dai suoi stessi crimini e dalla Rivoluzione d'ottobre, pubblicizzò di prendere la strada delle riforme sociali – la cui efficacia fu annullata dall'inflazione e dalla disoccupazione) la teoria della progressiva trasformazione della società capitalista sembrò ai riformatori e ai professori borghesi provata. Sombart ci assicurava nel 1928:

«Il potere d'acquisto del lavoro salariato è aumentato in proporzione diretta all'espansione della produzione capitalistica».

In realtà, la contraddizione economica fra proletariato e borghesia aggravò nel periodo più prospero dello sviluppo capitalistico: l'innalzamento del tenore di vita di certi settori di lavoro (a volte anche estesi) occultò la ridotta quota di partecipazione del proletariato alla ricchezza nazionale più innalzata. Così, poco prima della Grande Depressione, la produzione industriale statunitense crebbe del 50% tra il 1920 e il 1930, ma l'aumento dei salari fu solo del 30% – il che significava un'enorme riduzione di partecipazione operaia alla ricchezza nazionale, contro le assicurazioni di Sombart. Nel 1930 iniziò una minacciosa crescita della disoccupazione, e nel 1933 si introdusse un sussidio più o meno sistematico ai disoccupati, che non doveva superare la metà del salario perso. L'illusione del “progresso” ininterrotto di tutte le classi è svanita senza lasciare traccia. Il declino relativo del tenore di vita delle masse è stato superato da un declino assoluto. Gli operai iniziano a risparmiare sui piaceri, sui vestiti e sul cibo. I prodotti di qualità media sono sostituiti da prodotti scadenti, e quelli scadenti da prodotti peggiori. I sindacati iniziano ad assomigliare a qualcuno che pensa di salvarsi dalla caduta di un altissimo ascensore aggrappandosi disperatamente alla ringhiera.

Gli Stati Uniti detengono il 40% della ricchezza mondiale pur essendo solo il 6% della popolazione mondiale, ma un terzo della nazione (a detta di Roosevelt) è denutrito, malvestito e vive in condizioni subumane. Quale sarà allora la situazione dei paesi molto meno privilegiati? La storia del capitalismo dal dopoguerra è la prova definitiva della cosiddetta “teoria della miseria crescente”. La polarizzazione della società è oggi riconosciuta da ogni statistico competente, nonché da statisti che ricordino le rudimentali regole dell'aritmetica.

Il regime fascista, massimo freno al declino della reazione insito in ogni capitalismo imperialista, divenne indispensabile quando la degenerazione del capitalismo rese impossibile illudere il proletariato di migliorare il suo tenore di vita. La dittatura fascista è la confessione della tendenza all'impoverimento, che le democrazie più ricche cercano ancora di nascondere. Mussolini e Hitler odiano il marxismo perché il loro stesso regime è la più orribile conferma della previsione marxista. Il mondo civile si indignò o finse di farlo quando Göring, col suo tono unico fra boia e buffone, dichiarò che le bombe sono più importanti del burro, o quando Cagliostro-Casanova-Mussolini consigliò agli operai italiani di fare più buchi sulle cinture delle loro camicie nere. Ma qual è la differenza sostanziale da quanto avviene nelle democrazie imperialiste? Ovunque il burro è usato lubrificare cannoni. Gli operai di Francia, Inghilterra, Stati Uniti fanno buchi alle cinture senza camicie nere. Nel Paese più ricco del mondo milioni di lavoratori si sono trasformati in poveri che vivono a spese della carità federale, statale, comunale o privata. 

[2] L'esercito di riserva e la nuova sottoclasse dei disoccupati

L'esercito industriale di riserva è una componente necessaria del meccanismo sociale del capitalismo, quanto la scorta di macchine e materie prime nei magazzini delle fabbriche o di prodotti finiti nei negozi. Né l'espansione generale della produzione né l'adattarsi del capitale al flusso e riflusso periodico del ciclo industriale sarebbero possibili senza una riserva di forza-lavoro. Dalla tendenza generale dello sviluppo capitalistico – l'aumento del capitale fisso (macchine e materie prime) a scapito del capitale variabile (forza-lavoro) – Marx trasse la conclusione:

«Maggiore è la ricchezza sociale, maggiore è l'esercito industriale di riserva, maggiore è la massa di sovrappopolazione consolidata, maggiore è il pauperismo ufficiale. Questa è la legge generale assoluta dell'accumulazione capitalistica» [Capitale, I, 23, 4].

Questa tesi – indissolubilmente legata alla “teoria della miseria crescente” e per decine di anni denunciata come “esagerata”, “tendenziosa” e “demagogica” – è ormai l'unica immagine teorica dello stato di cose. L'attuale esercito di disoccupati non può più essere considerata una riserva, perché la sua massa di base non può più avere alcuna speranza di tornare al lavoro; anzi, è destinato a crescere per un afflusso costante di ulteriori disoccupati. Il capitalismo dissolvente ha fatto crescere un'intera generazione di giovani che mai hanno avuto un lavoro e senza alcuna speranza di trovarne uno. Questa nuova sottoclasse, fra il proletariato e il sottoproletariato, è costretta a vivere a spese della società. Si stima che in nove anni (1930-1938) la disoccupazione abbia tolto all'economia degli Stati Uniti più di 43 milioni di anni lavorativi. Considerando che nel 1929, all'apice della prosperità, negli Stati Uniti c'erano due milioni di disoccupati e che in questi nove anni il numero di potenziali lavoratori è aumentato di cinque milioni, il numero di anni-uomo persi deve essere incomparabilmente più alto. Un regime sociale devastato da una tale piaga è un malato terminale. La diagnosi corretta di tale malattia fu fatta ottant'anni fa, quando la malattia era solo un germe.

[3] La dissoluzione dell'autentica classe media

I dati che provano l'accentramento del capitale provano pure che il contributo specifico della classe media nella produzione e la sua quota di reddito nazionale sono in costante diminuzione, mentre le piccole aziende sono state inghiottite dalle grandi o private della loro indipendenza, diventando un esempio di fatica insopportabile e di disperazione. È vero che lo sviluppo del capitalismo ha al contempo creato cosiddette “nuove classi medie” (un esercito di tecnici, dirigenti, funzionari, impiegati, avvocati, medici); ma questo strato, la cui esistenza era già nota a Marx, non è autentica classe media, non è la vecchia borghesia proprietaria di propri mezzi di produzione con una garanzia tangibile di indipendenza economica. Anzi, la “nuova classe media” è più dipendente dai capitalisti degli operai perché forma i loro caposquadra. Inoltre, pure in essa si registra una notevole sovrappopolazione, con conseguente degrado sociale.

Di nuovo Homer S. Cummings (lontano dal marxismo) dice:

«Informazioni statistiche affidabili provano che tante imprese industriali sono scomparse e che ciò che è avvenuto è stata una progressiva eliminazione del piccolo imprenditore come attore della vita americana».

Ma, obietta Sombart, non è ancora successo “l'accentramento generale, con la scomparsa della classe degli artigiani e dei contadini”. Difficile dire cosa abbia più peso in un argomento del genere, l'irresponsabilità o la malafede. Come ogni teorico, Marx iniziò isolando le tendenze fondamentali nella loro forma pura (altrimenti sarebbe stato impossibile comprendere il destino della società capitalista); eppure, era perfettamente in grado di vedere i fenomeni della vita alla luce di analisi concrete, come prodotto della concentrazione di diversi fattori storici. Sicuramente le leggi di Newton non sono invalidate dal fatto che l'accelerazione della caduta dei corpi varia in condizioni diverse o che le orbite dei pianeti sono soggette a deviazioni.

Per comprendere la cosiddetta “tenacia” dei ceti medi, serve considerare due tendenze: la rovina e proletarizzazione dei ceti medi non si sviluppano né ad un ritmo uniforme né nella stessa misura. Dalla crescente automazione a scapito della forza-lavoro deriva che: più la rovina dei ceti medi avanza, più essa supera la loro proletarizzazione; anzi, a un certo punto, la proletarizzazione deve cessare e fare marcia indietro.

Come il funzionamento delle leggi della fisiologia produce risultati diversi in un organismo durante la crescita rispetto a durante la senescenza, così le stesse leggi dell'economia marxista si attuano in modo diverso in un capitalismo in via di sviluppo anziché in un tardocapitalismo. Tale differenza si appalesa nei rapporti reciproci fra città e campagna. La popolazione rurale statunitense, che in proporzione cresce meno della popolazione totale, ha continuato a crescere in cifre assolute fino al 1910 (allora superò i 32 milioni). Nei vent'anni successivi, la popolazione totale crebbe, ma la popolazione rurale scese a 30,4 milioni, ovvero di 1,6 milioni. Ma nel 1935 salì di nuovo a 32,8 milioni, gonfiandosi rispetto al 1930 di 2,4 milioni. Questo giro di ruota, a prima vista sbalorditivo, non confuta affatto né la tendenza della popolazione urbana a crescere a scapito di quella rurale, né la tendenza della classe media a dissolversi; mentre, al contempo, prova che è in corso la disintegrazione del sistema capitalistico nel suo complesso. L'aumento della popolazione rurale durante il periodo della Grande Depressione si spiega col fatto che quasi due milioni di abitanti urbani (più precisamente, due milioni di disoccupati affamati) si sono trasferiti in campagna – in appezzamenti di terreno abbandonati dai contadini o nelle fattorie dei loro parenti, in modo da applicare la loro forza-lavoro, rifiutata dalla società, all'economia naturale produttiva: vivere da semi-affamati anziché morire di fame.

Non prova della stabilità dei piccoli contadini, degli artigiani e dei negozianti, bensì dell'abietta impotenza della loro situazione. Anziché essere una garanzia per il futuro, la classe media è una sfortunata e tragica reliquia del passato. Incapace di farne a meno, il capitalismo è riuscito a ridurla al massimo del degrado e del disagio: al contadino sono negati l'affitto per il suo appezzamento di terreno e il profitto sul capitale investito, ma anche una buona parte del suo salario. Parimenti, i piccoli abitanti di città si agitano tra la vita economica e la morte. Il ceto medio non è proletarizzato solo quando è povero bensì sempre quando è precario.

In questo è difficile trovare un'argomentazione contro Marx, così come è difficile trovare un argomento a favore del capitalismo.

[4] Crisi industriale

La fine dell'800 e l'inizio del ‘900 hanno visto progressi così travolgenti del capitalismo che le crisi cicliche parevano fastidi inessenziali. Negli anni del quasi universale ottimismo capitalistico, i critici di Marx ci assicurarono che lo sviluppo nazionale e internazionale di trust, consorzi e cartelli stavano introducendo il controllo pianificato del mercato e il trionfo definitivo sulle crisi. Secondo Sombart, le crisi erano già state “abolite” prima della guerra dal meccanismo del capitalismo stesso, così che “il problema delle crisi ci lascia oggi praticamente indifferenti”. Ora, dopo soli dieci anni, queste parole suonano una beffa; mentre la previsione di Marx, dopo ottant'anni, solo ora si realizza nella sua tragica cogenza. In un organismo con sangue avvelenato ogni malattia accidentale tende a diventare cronica; eppure, nell'organismo in putrefazione del capitalismo monopolistico, le crisi del capitalismo monopolistico assumono una forma particolarmente acuta.

È notevole che la stampa capitalistica in parte cerca di negare l'esistenza stessa dei monopoli, e in parte ricorre a questi stessi monopoli per negare l'anarchia capitalistica. Osserva ironicamente il New York Times: se sessanta famiglie controllassero la vita economica degli Stati Uniti, “dimostrerebbe che il capitalismo americano, anziché essere non pianificato, è organizzato con gran precisione”. Tale argomento manca il bersaglio.

Il capitalismo è incapace di sviluppare appieno qualsiasi sua tendenza. Come l'accentramento di ricchezza non abolisce la classe media, così il monopolio non abolisce la concorrenza, ma semplicemente la stritola. Non meno del “piano” di ciascuna delle sessanta famiglie, le diverse varianti di questi piani non sono volte a coordinare i vari rami dell'economia, bensì ad accrescere i profitti della propria cricca monopolistica a spese di altre cricche e a spese dell'intera nazione. L'incrocio di tali piani finisce con l'aggravare l'anarchia dell'economia nazionale. Il dominio monopolistico e il caos non si escludono a vicenda, ma si alimentano a vicenda.

La crisi del 1929 scoppiò negli Stati Uniti un anno dopo che Sombart aveva proclamato la totale indifferenza della sua “scienza” al problema stesso delle crisi. Dal picco di una prosperità senza precedenti l'economia statunitense fu catapultata nell'abisso di una mostruosa prostrazione. Nessuno ai tempi di Marx avrebbe potuto concepire convulsioni così intense! Il reddito nazionale statunitense era salito per la prima volta nel 1920 a 69 miliardi di dollari, per poi scendere l'anno successivo a 50 miliardi di dollari (cioè del 27%). Grazie alla prosperità degli anni successivi, il reddito nazionale toccò un nuovo culmine nel 1929: 81 miliardi di dollari. Poi scese nel 1932 a 40 miliardi di dollari, cioè a meno della metà! Durante i nove anni 1930-1938 si sono persi circa 43 milioni di anni-uomo lavorativi e 133 miliardi di dollari del reddito nazionale, stando ai dati su lavoro e reddito del 1929, quando c'erano “solo” due milioni di disoccupati. Se tutto ciò non è anarchia, quale può essere il significato della parola?

[5] La “Teoria del collasso"

Le menti e i cuori degli intellettuali della classe media e dei burocrati dei sindacati furono affatto conquisi dalle conquiste del capitalismo fra la morte di Marx e lo scoppio della guerra mondiale. L'idea del progresso graduale (“evoluzione”) pareva ormai garantita, mentre l'idea della rivoluzione pareva un residuo di barbarie. Alla previsione di Marx (sull'accentramento del capitale, sull'aggravarsi dei conflitti di classe, sull'aggravarsi delle crisi e sul collasso catastrofico del capitalismo) fu contrastata con la previsione contraria sulla distribuzione più equilibrata del reddito nazionale, sull'attenuazione dei conflitti di classe e sulla graduale riforma della società capitalistica. Jean Jaurès, il più dotato dei socialdemocratici di quell'epoca classica, sperava di riempire gradualmente la democrazia politica di contenuti sociali. In questo risiedeva l'essenza del riformismo. Tale era l'alternativa alla previsione. Che cosa ne rimane?

La vita del capitalismo monopolistico nel nostro tempo è una serie di crisi. Ogni crisi è una catastrofe. Il bisogno di salvarsi da queste catastrofi parziali mediante barriere doganali, inflazione, aumento della spesa pubblica e dei debiti getta le basi per ulteriori crisi, più profonde e diffuse. La lotta per i mercati, per le materie prime, per le colonie rende inevitabili le catastrofi militari. Tutto sommato, preparano catastrofi rivoluzionarie. Non è facile concordare con Sombart sul fatto che il capitalismo invecchiando diventi “pacifico, tranquillo e ragionevole”. Semmai è arrivato alla demenza senile. In ogni caso, non c'è dubbio che la “teoria del collasso” abbia trionfato sulla teoria dello sviluppo pacifico.

La decadenza del capitalismo

Per quanto costoso sia stato per la società il controllo del mercato, l'umanità fino a un certo punto (circa fino alla guerra mondiale) è cresciuta, si è sviluppata e si è arricchita attraverso crisi parziali e generali. La proprietà privata dei mezzi di produzione continuò ad essere in quell'epoca un fattore di relativo progresso. Ma ora il cieco controllo della legge del valore rifiuta di prestare altri servizi. Il progresso umano è bloccato in un vicolo cieco. Nonostante gli ultimi trionfi del pensiero tecnico, le forze produttive materiali non crescono più. Il sintomo più evidente del declino è il ristagno mondiale dell'industria edilizia, dovuto all'assenza di nuovi investimenti nei rami fondamentali dell'economia. I capitalisti non credono più al futuro del proprio sistema. Costruzioni stimolate dal governo significano un aumento di tasse e la contrazione del reddito nazionale “che non è necessario allocare altrove”, tanto più che la maggior parte delle nuove costruzioni del governo è direttamente progettata per scopi bellici.

Il marasma ha acquisito un carattere particolarmente maligno nella sfera più antica dell'attività umana, quella più strettamente legata ai bisogni vitali dell'uomo: in agricoltura. Non più soddisfatti degli ostacoli che la proprietà privata nella sua forma più reazionaria, quella delle piccole proprietà terriere, pone allo sviluppo dell'agricoltura, i governi capitalistici si vedono spesso chiamati a limitare artificialmente la produzione con l'ausilio di provvedimenti legislativi e amministrativi che avrebbero spaventato gli artigiani delle gilde durante il loro declino. Sarà ricordato nella storia che il governo del più potente Paese capitalista ha concesso premi agli agricoltori per la riduzione delle piantagioni, cioè per diminuire artificialmente il reddito nazionale già in calo. I risultati sono evidenti: nonostante le grandiose possibilità produttive, garantite dall'esperienza e dalla scienza, l'economia agraria non esce da una crisi putrescente, mentre il numero degli affamati continua ad essere la maggioranza preponderante e in aumento della popolazione mondiale. I conservatori considerano politica sensata la difesa di un ordine sociale arrivato a una tale follia distruttiva, e condannano la lotta socialista contro tale follia come utopismo distruttivo. 

Il fascismo e il New Deal

Due metodi per salvare il capitalismo storicamente condannato oggi, in tutte le loro manifestazioni, gareggiano fra loro nell'arena mondiale: il fascismo e il New Deal. Il fascismo basa il suo programma sulla demolizione delle organizzazioni del lavoro, sulla distruzione delle riforme sociali e sul completo annientamento dei diritti democratici, per prevenire il ritorno della lotta di classe del proletariato. Lo Stato fascista legalizza ufficialmente il degrado dei lavoratori e la dissoluzione dei ceti medi, in nome della salvezza della “nazione” e della “razza” – nomi presuntuosi sotto i quali si cela il capitalismo in decadenza.

La politica del New Deal, che cerca di salvare la democrazia imperialista per mezzo di regalie all'aristocrazia operaia e agraria, è nella sua ampiezza possibile solo in nazioni molto ricche, e in tal senso è quindi la politica statunitense per eccellenza. Il governo statunitense ha cercato di far in parte pagare tale politica ai monopolisti, esortandoli ad aumentare i salari e a ridurre l'orario di lavoro e quindi ad aumentare il potere d'acquisto della popolazione e ad estendere la produzione. Léon Blum si tentò di tradurre questo sermone in un francese da scuola elementare. Invano! Il capitalista francese, come l'americano, non produce per il bene della produzione, ma per il profitto. È sempre pronto a limitare la produzione, anzi a distruggere i prodotti manufatti, se ciò aumentasse la sua quota del reddito nazionale.

Il programma New Deal è tanto più incoerente in quanto, mentre predica ai magnati del capitale i vantaggi dell'abbondanza sulla penuria, il governo eroga premi per ridurre la produzione. È possibile una maggiore confusione? Il governo confonde i suoi critici con la sfida: sapreste fare di meglio? Tutto ciò significa che, a detta del capitalismo, la situazione è senza speranza.

Dal 1933, cioè negli ultimi sei anni, il governo federale, gli Stati e i comuni hanno elargito ai disoccupati quasi 15 miliardi di dollari in sussidi, una somma di per sé insufficiente che rappresenta una minima parte dei salari persi, ma che, rispetto al calo del reddito nazionale, è al contempo una somma colossale. Nel corso del 1938, anno di relativa ripresa economica, il debito pubblico statunitense superò di due miliardi il record massimo (38 miliardi di dollari) e di 12 miliardi l'apice toccato alla fine della guerra mondiale. All'inizio del 1939 è andato ancora oltre i 40 miliardi di dollari. E poi? L'aumento del debito pubblico è ovviamente a carico dei posteri. Ma il New Deal stesso è stato possibile solo grazie all'enorme ricchezza accumulata dalle generazioni passate. Solo una nazione ricchissima poteva concedersi una politica così generosa. Ma neppure una tale nazione può seguitare all'infinito a vivere a spese delle generazioni passate. La politica del New Deal (con vittorie di Pirro e un più reale aumento del debito pubblico) porta inevitabilmente a una feroce reazione capitalistica e a una devastante esplosione dell'imperialismo. In altre parole, la destinazione è la stessa della politica del fascismo.

Anomalia o norma?

Il ministro degli Interni Harold L. Ickes stima «una delle più strane anomalie dell'intera storia» che gli Stati Uniti siano democratici nella forma ma autoritari nella sostanza:

«Gli Stati Uniti sono governo della maggioranza, eppure controllata, almeno fino al 1933 (!), da monopoli che a loro volta sono controllati da un esiguo numero di azionisti».

La diagnosi è corretta, salvo l'allusione che Roosevelt abbia infranto o indebolito il dominio del monopolio. Ma ciò che Ickes chiama «una delle più strane anomalie dell'intera storia» è la principale norma del capitalismo. Il dominio dei deboli da parte dei forti, dei molti da parte dei pochi, dei lavoratori da parte degli sfruttatori è una legge basilare della democrazia borghese. Ciò che distingue gli Stati Uniti dagli altri Paesi è solo la maggiore estensione e profondità delle contraddizioni capitalistiche. L'assenza di un passato feudale, l'abbondanza di risorse naturali, un popolo energico e intraprendente (tutti stimoli ad uno sviluppo ininterrotto della democrazia) giovano in realtà all'accentramento di ricchezza.

Promettendo di vincere la lotta contro i monopoli, Ickes stima incautamente Thomas Jefferson, Andrew Jackson, Abraham Lincoln, Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson prodromi di Franklin D. Roosevelt. Disse il 30 dicembre 1937:

«Praticamente tutti i nostri più grandi personaggi storici sono famosi per la loro ostinata e coraggiosa lotta per prevenire o ridurre la concentrazione di ricchezza e potere in poche mani».

Ma ciò significa che il frutto di questa “persistente e coraggiosa lotta” sia stato il completo controllo della democrazia da parte della plutocrazia.

Per qualche inspiegabile ragione Ickes pensa che stavolta la vittoria sia sicura, purché la gente capisca che

«la lotta non è fra il New Deal e l'illuminato uomo d'affari medio, bensì fra il New Deal e i Borboni delle 60 famiglie che hanno portato il resto degli uomini d'affari statunitensi sotto il terrore del loro dominio».

Questo autorevole governativo non spiega come i “Borboni” siano riusciti a soggiogare tutti gli illuminati uomini d'affari, malgrado la democrazia e gli sforzi dei “più grandi personaggi storici”. I Rockefeller, i Morgan, i Mellon, i Vanderbilt, i Guggenheim, i Ford e i Co. non hanno invaso gli Stati Uniti dall'esterno, come Cortez ha invaso il Messico; sono venuti fuori dal “popolo”, anzi, fuori dalla classe degli “illuminati industriali e imprenditori” e sono divenuti, in linea con la previsione di Marx, il naturale fior fiore del capitalismo. Se da giovane e vigorosa la democrazia non ha impedito l'accentramento della ricchezza al suo inizio, come credere che una democrazia decadente possa indebolire gli antagonismi di classe al loro massimo? In ogni caso, l'esperienza del New Deal non conforta tale ottimismo. Respingendo le accuse dell'alta finanza contro il governo, Robert H. Jackson, persona di alto rango nei consigli di amministrazione, provò con cifre che sotto Roosevelt i profitti dei magnati del capitale hanno raggiunto vette a cui ormai non speravano più dall'ultimo periodo della presidenza di Hoover. La lotta di Roosevelt contro i monopoli è finita male come quella dei suoi predecessori.

Pur sentendosi chiamati a difendere le basi del capitalismo, i riformatori sono incapaci di sfruttare le sue leggi con misure di politica economica, e che altro possono fare se non moralizzare? Ickes (come gli altri membri del gabinetto e i divulgatori del New Deal) finisce per supplicare i monopolisti di ricordare i princìpi della democrazia. Utile quanto le preghiere in meteorologia. Almeno il punto di vista di Marx sul proprietario dei mezzi di produzione non accoglie elementi spuri:

«Come capitalista lui è solo capitale personificato. La sua anima è l'anima del capitale. Ma il capitale ha un unico impulso vitale, la spinta a valorizzarsi, a generare plusvalore, a succhiare con la sua parte costante, coi mezzi di produzione, la più grande massa possibile di plus-lavoro» [Capitale, I, 8].

Se il comportamento del capitalista fosse determinato dagli attributi della sua anima individuale o dalle effusioni liriche del Segretario degli Interni, non sarebbero possibili né prezzi medi, né salari medi, né attivi in bilancio, né tutta l'economia capitalista. Invece, i bilanci continuano a prosperare ed è un forte argomento a favore della concezione materialistica della storia.

Ciarlataneria giudiziaria

Homer S. Cummings, l'ex procuratore generale degli Stati Uniti, nel novembre del 1937 disse:

«Se non distruggiamo il monopolio, il monopolio troverà il modo di distruggere la maggior parte della nostra riforma e, alla fine, di abbassare gli standard della nostra vita comune».

Provando con cifre che «la tendenza a un'indebita concentrazione della ricchezza e del controllo economico è indubbia», Cummings fu al contempo costretto ad ammettere che la lotta legislativa e giudiziaria contro i trust è stata vana perché, si lamenta, «è difficile imputare i risultati economici come un proposito illecito». È proprio questo il punto! Peggio ancora: la lotta giudiziaria contro i trust ha portato alla «confusione peggio confusa». Questo pleonasmo è ottimo a cogliere l'impotenza della giustizia democratica nella sua lotta contro la legge marxista del valore. Non c'è motivo di sperare che il successore di Cummings, Frank Murphy, sia più fortunato a risolvere questi compiti, la cui impostazione testimonia la ciarlataneria senza speranza nel campo del pensiero economico.

Per tornare a ieri

Concordo col professor Lewis W. Douglas, l'ex direttore del bilancio dell'amministrazione Roosevelt, quando condanna il governo per «aver attaccato il monopolio in un campo e averlo promosso in molti altri». Ma è nella natura della cosa non poter fare altrimenti.

Secondo Marx, il governo è il comitato esecutivo della classe dominante e i monopolisti sono oggi la parte più forte della classe dominante. Nessun governo è nella posizione di poter combattere contro il monopolio in generale, cioè contro la classe per volontà della quale governa. L'attacco a un settore del monopolio abbisogna di un alleato in altri settori del monopolio. In accordo con le banche e l'industria leggera si possono sferrare occasionali colpi contro i trust dell'industria pesante, che non per questo smettono di ottenere fantastici profitti.

Lewis Douglas non contrappone la scienza alla ciarlataneria ufficiale, ma solo un altro tipo di ciarlataneria: individua la fonte del monopolio nel protezionismo anziché nel capitalismo onde scopre la salvezza della società nell'abbassamento delle tariffe doganali anziché nell'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Predice:

«Se non si torna al mercato libero forse perirà la libertà di tutte le istituzioni (di impresa, di parola, di educazione, di religione)».

Cioè, senza la libertà di traffici internazionali, ovunque la democrazia cederà alla dittatura rivoluzionaria o alla dittatura fascista. Ma la libertà di commercio internazionale è inconcepibile senza la libertà di commercio interno, cioè senza concorrenza. E la libertà di concorrenza è inconcepibile sotto il dominio dei monopoli. Purtroppo, Douglas (proprio come Ickes, Jackson, Cummings, nonché Roosevelt) non si è sobbarcata la stesura di una ricetta contro il capitalismo monopolistico (pertanto contro una rivoluzione o il totalitarismo).

La libertà di commercio, la libertà di concorrenza, la prosperità della classe media, appartengono al passato irremeabile. Tornare a ieri è ora l'unica ricetta dei riformatori democratici del capitalismo; ridare più «libertà ai piccoli e medi industriali e finanzieri, cambiare il sistema monetario e creditizio a loro favore, liberare il mercato dall'interferenza dei trust, eliminare gli speculatori di professione dalla Borsa, ripristinare i liberi traffici internazionali, e così via all'infinito». I riformatori pretendono perfino di limitare l'uso delle macchine e fare una specie di lista di proscrizione di certe tecniche che disturbano l'equilibrio sociale e causano preoccupazione. Una simile modesta proposta fu fatta dal fisico Robert A. Millikan, osservando con amara ironia che una vita sicura è possibile solo tornando ad essere amebe felici, o almeno maiali pasciuti.

Millikan e il marxismo

Ma perfino Millikan guarda più all'indietro che in avanti. Parlando in difesa della scienza il 7 dicembre 1937, osservò:

«Le statistiche degli Stati Uniti indicato che la percentuale di popolazione occupata è cresciuta stabilmente negli ultimi cinquant'anni, quando si è ricorsa alla scienza più rapidamente».

Difendere il capitalismo come difensore della scienza è una scelta infelice. Proprio nell'ultimo mezzo secolo «si è spezzata la catena del tempo» ed è mutata l'interrelazione fra economia e tecnica. Il periodo indicato da Millikan comprende sia l'inizio del declino capitalistico sia l'acme della prosperità capitalistica; negligere l'inizio di questo declino, che è mondiale, equivale ad essere apologeta del capitalismo. Rifiutando il socialismo in modo lasco con argomenti indegni perfino di Henry Ford, il dottor Millikan ci dice che nessun sistema di distribuzione può soddisfare i bisogni dell'uomo senza un aumento della produzione. Ben detto! Ma cosa dovrebbero fare milioni di disoccupati statunitensi per produrre ricchezza nazionale? L'astratta predica sulla grazia salvifica dell'iniziativa individuale e dell'alta produttività del lavoro salariato non fornisce posti di lavoro, né colma i deficit di bilancio, né porta l'economia nazionale fuori dal suo vicolo cieco.

Ciò che distinse Marx fu la trasversalità del suo genio, il suo discernimento della connessione imprevista fra fenomeni e processi di diversi campi. Senza essere uno specialista di scienze naturali, Marx fu tra i primi a predire la dirompenza delle grandi scoperte in quel campo; per esempio, la teoria di Darwin. Marx era sicuro dell'importanza del suo metodo, non delle sue doti. Gli scienziati borghesi possono stimarsi superiori al socialismo, ma il caso di Robert Millikan prova che nell'ambito della sociologia gli scienziati continuano a essere ciarlatani senza speranza. Dovrebbero imparare l'indagine scientifica sull'uomo da Marx.

Possibilità produttive e proprietà privata

Nel suo discorso al Congresso dell'inizio del 1937, il presidente Roosevelt espresse il desiderio di portare il reddito nazionale a 90 o 100 miliardi di dollari. Come non si sa. Di per sé, è un programma modesto. Nel 1929, con circa due milioni di disoccupati, il reddito nazionale raggiunse 81 miliardi di dollari. Occupare simili forze produttive basterebbe a realizzare il programma di Roosevelt, nonché a superarlo di molto. Macchine, materie prime, lavoratori, c'è tutto. Per non parlare della domanda di prodotti da parte della popolazione. Se il piano è comunque irrealizzabile (come è), è per l'insanabile conflitto sviluppatosi fra la proprietà capitalistica e le capacità produttive della società. Il famoso National Survey of Potential Production Capacity (Indagine nazionale sulla capacità produttiva potenziale), sponsorizzato dal governo, è giunto alla conclusione che il costo della produzione e dei servizi usati nel 1929 ammontava a quasi 94 miliardi di dollari, calcolati sulla base dei prezzi al dettaglio. Eppure, se tutte le potenzialità produttive fossero attuate, tale cifra sarebbe salita a 135 miliardi di dollari, con una media di 4.370 dollari annui per famiglia (sufficienti a un tenore di vita dignitoso). I calcoli del National Survey si basano sull'attuale organizzazione produttiva statunitense, così come prodotta dalla storia anarchica del capitalismo. Se la struttura fosse riorganizzata con una pianificazione socialista, i preventivi potrebbero essere superati di molto e un alto tenore di vita verrebbe garantito a tutto il popolo con una brevissima giornata di lavoro.

Quindi, per salvare la società, non serve frenare lo sviluppo della tecnica, né chiudere le fabbriche, né concedere premi agli agricoltori per sabotare l'agricoltura, né trasformare un terzo dei lavoratori in poveri, né chiedere ai maniaci di farsi dittatori. Nessuna di queste misure, contrarie agli interessi della società, è necessaria. Ciò che è indispensabile e urgente è separare i mezzi di produzione dai loro attuali proprietari parassitari e organizzare la società secondo un piano razionale. Allora sarebbe subito possibile sanare la società dai suoi mali. Tutti gli abili al lavoro troverebbero un lavoro. La giornata lavorativa diminuirebbe gradualmente. I bisogni di tutti avrebbero sempre più garanzia di soddisfazione. Le parole “proprietà”, “crisi”, “sfruttamento”, “crisi”, “sfruttamento” non sarebbero più in circolazione. L'umanità varcherebbe finalmente la soglia della vera umanità.

L'inevitabilità del socialismo

Dice Marx:

«Al decrescere del numero dei magnati del capitale (che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di codesto processo di trasformazione) cresce la miseria, l'oppressione, la schiavitù, il degrado, lo sfruttamento della classe operaia; al che cresce la ribellione della classe operaia, sempre più numerosa e disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diviene un ostacolo al modo di produzione che con esso e sotto di esso è sorto. L'accentramento dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro arrivano a un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Questo involucro scoppia. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori sono espropriati» [Capitale, I, 24, 7].

Questa è la rivoluzione socialista. Per Marx, il problema di riformare la società non è una ricetta delle sue personali preferenze; esso si impone da sé, da un lato, quando le forze produttive arrivano a piena maturità; dall'altro, dall'impossibilità di giovare a queste forze produttive in balia della legge del valore.

Le elucubrazioni di certi intellettuali che, incuranti dell'insegnamento di Marx, stimano il socialismo possibile ma non inevitabile, sono prive di qualsiasi contenuto. Non che per Marx il socialismo si realizzi senza la volontà e l'azione dell'uomo (il che è un'assurdità). Marx ha predetto che la socializzazione dei mezzi di produzione è l'unica via di uscita dal necessario collasso economico con cui lo sviluppo del capitalismo culminerà. Alle forze produttive serve un nuovo organizzatore e un nuovo padrone, e, poiché la realtà determina la coscienza, Marx era sicuro che la classe operaia, attraverso costosissimi errori e sconfitte, sarebbe arrivata comprendere la situazione reale e, prima o poi, ne avrebbe tratto le indispensabili conclusioni pratiche.

Che il senso della socializzazione dei mezzi di produzione creati dal capitalismo sia un enorme beneficio economico è oggi provabile non solo in teoria, ma osservando l'esperimento dell'URSS, malgrado i limiti di tale esperimento. Certo, i reazionari capitalisti (con qualche artificio) usano il regime di Stalin contro le idee del socialismo come uno spauracchio. Ma Marx mai ha detto che il socialismo si può realizzare in un solo Paese, per di più in un Paese arretrato. Le continue privazioni delle masse in URSS, l'onnipotenza della nomenklatura sollevatasi al di sopra della nazione e della sua miseria, e, infine, la dilagante legge del bastone dei burocrati non sono conseguenze del metodo economico socialista, bensì dell'isolamento e dell'arretratezza dell'URSS sotto assedio capitalista. In condizioni così sfavorevoli è già tanto che un'economia pianificata sia possibile.

Tutti i salvatori del capitalismo, tanto democratici quanto fascisti, tentano di occultare il potere dei magnati del capitale per prevenire “l'espropriazione degli espropriatori”. Tutti riconoscono, taluni addirittura propalano, che il fallimento dei loro tentativi riformisti porterebbe d'uopo alla rivoluzione socialista. Tutti hanno dimostrato che i loro metodi per salvare il capitalismo sono solo vane ciarlatanerie reazionarie. Essi sono una dimostrazione per assurdo non richiesta della tesi di Marx sull'inevitabilità del socialismo.

L'inevitabilità della rivoluzione socialista

Il programma della “Tecnocrazia” (fiorito nel periodo della grande crisi del 1929-1932) si fonda sulla giusta premessa che l'economia può essere razionalizzata solo attraverso l'unione della tecnica al suo culmine scientifico e del governo al servizio della società. Tale unione è possibile solo se tecnica e governo siano liberati dalla schiavitù della proprietà privata. È qui che inizia il grande compito rivoluzionario. Per liberare la tecnica dalla cricca degli interessi privati e mettere il governo al servizio della società è necessario “espropriare gli espropriatori”. Solo una classe potente, interessata alla propria liberazione e contraria agli espropriatori monopolistici, è capace di compiere questo compito. Solo all'unisono con un governo proletario il ceto qualificato dei tecnici può costruire una vera economia scientifica e una vera economia nazionale, cioè socialista.

Certo, sarebbe meglio ottenere questo scopo in modo pacifico, graduale e democratico. Ma l'ordine sociale che è sopravvissuto a sé stesso non cede mai il suo posto al suo successore senza resistenza. Se nel fiore della sua giovinezza la democrazia fu incapace di impedire alla plutocrazia la presa della ricchezza e del potere, come può una democrazia senile e devastata trasformare un ordine sociale basato sul dominio assoluto di sessanta famiglie? La teoria e la storia insegnano che una successione di regimi sociali presuppone la forma più alta della lotta di classe, cioè la rivoluzione. Pure la schiavitù non poté essere abolita negli Stati Uniti senza una guerra civile.

«La forza è l'ostetrica di ogni vecchia società incinta di una nuova» [Capitale I, 24, 6].

Non esiste finora controesempio di questo principio fondamentale della sociologia della società classista. Solo una rivoluzione socialista può spianare la strada al socialismo.

Il marxismo negli Stati Uniti

La repubblica statunitense è la più avanzata nell'ambito della tecnica e dell'organizzazione della produzione. Non solo gli americani, ma tutta l'umanità costruirà sulle sue basi. Tuttavia, le varie fasi del processo sociale in ciascuna nazione hanno ritmi diversi, dettati da diverse condizioni storiche. Mentre gli Stati Uniti godono di un'enorme superiorità nella tecnologia, il loro pensiero economico è arretrato a destra e a sinistra. John L. Lewis ha più o meno le stesse opinioni di Franklin D. Roosevelt. Data la natura del suo officio, la funzione sociale di Lewis è più conservatrice (per non dire reazionaria) di quella di Roosevelt. In certi ambienti americani si tende a rinnegare qualsiasi teoria radicale come “anti-americana”, senza la minima critica scientifica. Ma come ne riconoscono una? Al cristianesimo è stato permesso immigrare negli Stati Uniti insieme ai logaritmi, alla poesia di Shakespeare, alle nozioni sui diritti dell'uomo e del cittadino, e ad alcuni altri prodotti non trascurabili del pensiero umano. Oggi il marxismo rientra nella stessa categoria.

Il ministro all'Agricoltura Henry A. Wallace accusò me “di una sottigliezza dogmatica assai anti-americana” e l'antitesi al mio dogmatismo russo sarebbe lo spirito opportunista di Jefferson, che sapeva andare d'accordo con i suoi avversari. Evidentemente, al ministro Wallace non viene in mente che una politica di compromesso non è una propria di un esclusivo spirito nazionale, ma un prodotto delle condizioni materiali. Una nazione che si arricchisce rapidamente ha un sufficiente serbatoio di conciliazione fra classi e partiti ostili. Invece, quando i contrasti sociali si acuiscono, il serbatoio si svuota. L'America era priva di “sottigliezza dogmatica” finché aveva una pletora di aree vergini, risorse inesauribili di ricchezza naturale e, sembrerebbe, illimitate opportunità di arricchimento. Condizioni favorevoli allo spirito di compromesso che comunque non hanno impedito la Guerra civile al momento irrimandabile. In ogni caso, le condizioni materiali alla base dell'"americanismo” sono oggi storia passata. Da qui la profonda crisi della tradizionale ideologia americana.

Il pensiero empirico, limitato di volta in volta alla soluzione di compiti immediati, pareva bastevole negli ambienti sia operai sia borghesi, finché la legge del valore di Marx si è imposta da sé all'attenzione di tutti. Quella legge oggi produce effetti opposti. Anziché stimolare l'economia, ne mina le fondamenta. Il pensiero eclettico conciliante (il cui momento teorico è il pragmatismo) diviene inadeguato, mentre la disistima del marxismo come “dogma” è sempre più reazionaria, autolesionista e ridicola. Semmai, è l'idea tradizionale di “americanismo” ad essere un “dogma” senza vita, pietrificato, e a generare solo errori e confusione. Al contempo, l'insegnamento economico di Marx ha acquisito una peculiare vitalità e incisività per gli Stati Uniti. Seppur il Capitale si basasse sull'esperienza internazionale dell'Inghilterra, la sua base teorica è un'analisi del capitalismo puro, del capitalismo in generale, del capitalismo in quanto tale. Perciò il capitalismo cresciuto sul suolo senza passato statunitense si avvicina di più a quel modello astratto di capitalismo.

Con tutto il rispetto per Wallace, l'America si è sviluppata economicamente non secondo i princìpi di Jefferson, ma secondo le idee di Marx. Non è un affronto all'orgoglio nazionale più che riconoscere che l'America gira intorno al sole secondo le leggi di Newton. Più Marx viene ignorato negli Stati Uniti, più le sue previsioni si avverano. Il Capitale offre una diagnosi impeccabile della malattia e una prognosi insostituibile. In tal senso l'insegnamento di Marx è molto più americano delle idee di Hoover e Roosevelt, di Green e Lewis.

Invero, la crisi dell'economia americana ha prodotto una discreta letteratura originale. Finché gli economisti coscienziosi offrono un quadro oggettivo delle tendenze distruttive del capitalismo americano, le loro indagini (a prescindere dalle loro premesse teoriche, di solito assenti) paiono esposizioni dirette della teoria di Marx. La loro tradizione conservatrice si manifesta quando si astengono dal trarre conclusioni definitive, limitandosi a tristi previsioni o a banalità edificanti come “il Paese deve capire”, “l'opinione pubblica deve certamente considerare” e simili. Questi libri sembrano un coltello senza lama o una bussola senza ago.

Gli Stati Uniti hanno avuto marxisti in passato, è vero, ma erano uno strano tipo di marxisti, anzi tre strani tipi. Per primi c'erano gli emigrati cacciati dall'Europa, che facevano ciò che potevano senza stimolare alcuna risposta; per secondi, gruppi americani isolati (come i de Leonisti), che nel corso del tempo, a causa dei loro stessi errori, si trasformarono in sette; per terzi, dilettanti attratti dalla Rivoluzione d'Ottobre e simpatizzanti del marxismo come se fosse una dottrina esoterica, sganciata dagli Stati Uniti. Il loro tempo è finito. Ora è il momento di un movimento di classe indipendente del proletariato e al contempo di... marxismo autentico. Pure in ciò, l'America raggiungerà con pochi balzi l'Europa e la supererà. Una tecnica e una struttura sociale progressiste si faranno strada forti della teoria marxista. I migliori teorici del marxismo appariranno sul suolo americano. Marx diventerà il mentore dei lavoratori americani avanzati. Per loro questo compendio del primo volume del Capitale sarà solo il primo passo verso il Marx completo. 

Lo specchio ideale del capitalismo

Quando uscì il primo volume del Capitale, il dominio mondiale dell'Inghilterra borghese era incontrastato. Era ovvio che leggi astratte dell'economia delle merci trovassero piena incarnazione (cioè minor dipendenza da influenze del passato) nel Paese in cui il capitalismo aveva raggiunto il suo massimo sviluppo. Pur basando la sua analisi sull'Inghilterra, Marx si riferiva all'intero mondo capitalistico. Usò l'Inghilterra coeva come osservatorio privilegiato del capitalismo.

Ora l'egemonia britannica è solo un ricordo. Il vantaggio della sua primogenitura capitalistica mutò in svantaggio. La struttura tecnica ed economica dell'Inghilterra divenne obsoleta. Il Paese tiene la sua posizione grazie all'impero coloniale, retaggio del passato, anziché a un potenziale economico attivo. Ciò spiega, fra l'altro, la carità cristiana di Chamberlain verso il gangsterismo internazionale dei fascisti, che ha stupito tutti. La borghesia inglese sa che col suo declino economico non può tenere la sua posizione nel mondo e che una nuova guerra significherebbe la caduta dell'Impero britannico. Sostanzialmente simile è la base economica del “pacifismo” francese.

Invece la Germania ha mutato in vantaggio il suo ritardo storico, affrontando la sua rapida ascesa capitalistica con la tecnica più perfetta d'Europa. Avendo scarso nazionalismo e una scarsità di risorse naturali, il dinamico capitalismo tedesco si è per necessità trasformato nell'attore più esplosivo nel cosiddetto equilibrio delle potenze mondiali. L'epilettica ideologia di Hitler corrisponde all'epilessia del capitalismo tedesco.

Rispetto alla Germania, oltre agli inestimabili vantaggi di carattere storico, lo sviluppo degli Stati Uniti ha goduto di un territorio ricco di ogni risorsa. Surclassata da Gran Bretagna, la repubblica nordamericana divenne a inizio secolo la nuova capitale della borghesia mondiale. Lì, tutte le potenzialità del capitalismo hanno trovato massima attuazione. In nessun altro luogo del nostro pianeta la borghesia può superare le conquiste che ha ottenuto nella repubblica del dollaro, che è diventata per il ventesimo secolo lo specchio più perfetto del capitalismo.

Per le stesse ragioni per cui Marx preferì basare la sua esposizione sulle statistiche inglesi, sui rapporti parlamentari inglesi, sui Blue Books inglesi e simili, in questa introduzione io ho fatto ricorso a dati provenienti dall'esperienza economica e politica statunitensi. Si sarebbero potute prendere cifre da qualsiasi altro Paese capitalista. Ma non aggiungerebbe nulla di essenziale. Le conclusioni sarebbero le stesse, con esempi minori.

La politica economica del Fronte Popolare in Francia è stata un adattamento del New Deal “per i lillipuziani”, come l'ha ben definita uno dei suoi finanzieri. È ovvio che in un'analisi teorica è più comodo trattare dimensioni ciclopiche anziché lillipuziane. È proprio l'immensità dell'esperimento di Roosevelt a provare che solo un miracolo può salvare il sistema capitalistico mondiale. Ma si dà il caso che lo sviluppo della produzione capitalistica abbia messo fine alla produzione di miracoli. Gli incantesimi e le preghiere abbondano, ma i miracoli non avvengono. Se da qualche potesse capitare la miracolosa venuta di un nuovo giovane capitalismo, in nessun caso accadrebbe negli Stati Uniti. Per ora, ringiovanire non è dato ai ciclopi né ancora meno ai lillipuziani. A questa semplice conclusione è valsa tutta la mia esplorazione dell'economia americana.

Madrepatrie e colonie

Marx scriveva:

«Il Paese industrialmente più sviluppato mostra ai meno sviluppati l'immagine del proprio futuro» [Capitale, I, Prefazione].

Giammai ciò va inteso alla lettera. La crescita delle forze produttive e l'approfondirsi delle contraddizioni sociali è sì la sorte di ogni Paese avviatosi sulla strada dello sviluppo borghese. Ma, la sproporzione dei ritmi e dei tempi (per ragioni geografiche e storiche), comune allo sviluppo dell'umanità, non solo fa la differenza sotto il capitalismo, ma origina una complessa interdipendenza di subordinazione, sfruttamento e oppressione fra Paesi di diverso tipo economico.

Solo una minoranza di Paesi ha percorso la sequenza di sviluppo (artigianato-manifattura-industria) nel modo sistematico e logico esposto dalla nitida analisi di Marx. Il capitale commerciale, industriale e finanziario invase i Paesi arretrati dall'esterno, distruggendo parte delle forme primitive di economia locale e assoggettando l'altra parte al sistema industriale e bancario mondiale dell'Occidente. Sotto la frusta dell'imperialismo, le colonie e le semicolonie furono costrette a saltare fasi intermedie e, al contempo, a restare artificialmente dipendenti a un livello o ad un altro. Lo sviluppo dell'India non replicò quello dell'Inghilterra, ma ne costituì un supplemento. Eppure, anche per comprendere questo tipo di sviluppo combinato di Paesi arretrati e dipendenti come l'India, giova lo schema classico Marx derivato dallo sviluppo dell'Inghilterra. La legge del valore del lavoro guida ugualmente i calcoli degli speculatori londinesi e le transazioni monetarie negli angoli più remoti di Hyderabad, solo che quest'ultimo caso assume forme più semplici e meno astute.

Lo sviluppo disomogeneo giovò tantissimo ai Paesi avanzati, che continuarono a svilupparsi a spese di quelli arretrati, sfruttandoli, trasformandoli in colonie o, almeno, negandogli l'ingresso nell'aristocrazia capitalista. Le fortune della Spagna, dell'Olanda, dell'Inghilterra, della Francia sono state ottenute non solo col lavoro del loro proletariato, non solo dissolvendo la loro piccola borghesia, ma anche con saccheggi transoceanici. Lo sfruttamento delle classi in patria fu potenziato con lo sfruttamento delle nazioni. La borghesia delle patrie migliorò la condizione degli strati superiori del suo proletariato, grazie ai superprofitti raccolti nelle colonie, senza cui nessuna democrazia sarebbe stata stabile. La democrazia borghese continua ad essere una forma di governo accessibile solo alle privilegiate nazioni sfruttatrici. L'antica democrazia era privilegio di uomini liberi basato sulla schiavitù, la democrazia imperialista è privilegio basato sulla spoliazione delle colonie.

Gli Stati Uniti formalmente non hanno colonie, eppure sono la nazione più privilegiata della storia: i primi immigrati europei conquistarono un continente ricco di tutto sterminando la popolazione indigena. Poi fecero guerra al Messico per annetterne i territori migliori. E ora detengono la maggioranza della ricchezza mondiale. Le scorte di grasso accumulate in passato giovano oggi a ungere gli ingranaggi della democrazia.

La recente esperienza storica, così come l'analisi teorica, provano che il ritmo evolutivo di una democrazia e la sua stabilità sono inversamente proporzionali alle tensioni di classe. I paesi capitalisti meno privilegiati (la Russia da un lato; la Germania, l'Italia e simili, dall'altro), che sono stati incapaci di generare una numerosa e stabile aristocrazia del lavoro, non hanno sviluppato autentica democrazia, da cedere alla dittatura facilmente. Tuttavia, la paralisi del capitalismo (progressiva e persistente) sta preparando lo stesso destino per le democrazie delle nazioni più privilegiate; l'unica differenza è nei tempi. Il peggioramento inarrestabile delle condizioni di vita dei lavoratori impedisce sempre più alla borghesia di concedere alle masse il diritto di voto, anche per eleggere solo un parlamento con scarsi poteri. Spiegare altrimenti il fascismo che distrugge la democrazia è una falsificazione idealistica delle cose così come sono (per inganno o per autoinganno).

Mentre distrugge la democrazia nelle vecchie madrepatrie del capitale, l'imperialismo al contempo ostacola l'ascesa della democrazia nei Paesi arretrati. Il fatto che nella nuova epoca non una sola colonia o semicolonia abbia fatto la sua rivoluzione democratica – soprattutto nel campo dei rapporti agrari – è interamente dovuto all'imperialismo, che è diventato il principale freno al progresso economico e politico. Saccheggiando le ricchezze naturali dei Paesi arretrati e reprimendo di proposito il loro sviluppo industriale indipendente, i magnati monopolisti e i loro governi concedono contemporaneamente sostegno finanziario, politico e militare ai gruppi di sfruttatori indigeni più reazionari, parassitari e semi-feudali. La barbarie agraria artificialmente preservata è oggi la più peggiore piaga dell'economia mondiale contemporanea. La lotta dei popoli coloniali per la loro liberazione, saltando le tappe intermedie, si trasforma per necessità in una lotta contro l'imperialismo, allineandosi così alla lotta del proletariato nelle madrepatrie. Le rivolte e le guerre coloniali a loro volta scuotono più che mai le fondamenta del mondo capitalistico e rendono ancora meno possibile il miracolo del suo ringiovanimento.

Economia mondiale pianificata

Il capitalismo ha avuto il duplice merito storico di aver permesso la tecnica di alto livello e di aver allacciato il mondo intero con legami economici. Sono i presupposti materiali per l'uso sistematico di tutte le risorse del nostro pianeta; ma il capitalismo non sa svolgere tale compito. La sua espansione è ancora trattenuta da stati nazionali, con le loro dogane e i loro eserciti. Ma da tempo i confini nazionali stritolano le forze produttive, trasformandosi da una provvisoria impalcatura progressista a un'insopportabile gabbia. Le guerre imperialiste sono solo fuoriuscite delle forze produttive dai confini dello Stato, divenuti troppo angusti per loro. Il programma della cosiddetta autarchia non è affatto il ritorno a un'economia autosufficiente e chiusa. È solo la base nazionale per una nuova guerra.

Il Trattato di Versailles fu giudicato una buona spartizione del globo terrestre. Ma i fatti più recenti ci hanno ricordato che sul nostro pianeta ci sono ancora terre non ancora saccheggiate a sufficienza. L'Italia ha schiavizzato l'Abissinia. Il Giappone sta cercando di conquistare la Cina. Rinunciato per sempre alle sue ex colonie, la Germania ha trasformato la Cecoslovacchia in una colonia. L'Italia ha invaso l'Albania. Il destino della penisola balcanica è incerto. Gli Stati Uniti sono allarmati da penetrazioni straniere in America Latina. Il colonialismo tiene ancora banco nella politica del capitalismo imperialista. Non importa quanto sia capillare la spartizione del mondo, il processo non finisce mai; all'ordine del giorno si pone sempre la questione di una nuova suddivisione del mondo in linea con i mutati rapporti di forza imperialisti. Questo è oggi il vero motivo dei riarmi, delle convulsioni diplomatiche e degli allestimenti bellici.

Ogni tentativo di rappresentare la guerra incombente come uno scontro fra democrazia e fascismo appartiene al regno della stupidità. Le forme politiche cambiano, gli appetiti capitalistici restano. Se domani si instaurasse un regime fascista in Francia ed in Inghilterra (e perché no?), i dittatori di Parigi e di Londra sarebbero disposti a rinunciare ai loro possedimenti coloniali tanto quanto Mussolini e Hitler a rinunciare alle loro rivendicazioni territoriali. La lotta furiosa e senza speranza per una nuova divisione del mondo deriva irresistibilmente dalla crisi mortale del sistema capitalistico.

Riforme parziali e toppe non serviranno a nulla. Lo sviluppo storico è giunto a una di quelle fasi decisive in cui solo l'intervento diretto delle masse è in grado di spazzare via gli ostacoli reazionari e di gettare le basi di un nuovo regime. L'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione è il primo presupposto dell'economia pianificata (cioè dell'introduzione della ragione nella sfera dei rapporti umani), prima su scala nazionale e poi mondiale. Una volta iniziata, la rivoluzione socialista si diffonderà di Paese in Paese, più veloce della diffusione oggi del fascismo. Con l'esempio e con l'aiuto delle nazioni avanzate, pure le nazioni arretrate saranno trascinate nel grande flusso del socialismo. I caselli doganali completamente marci cadranno. I contrasti che dilaniano l'Europa e il mondo intero avranno la loro pacifica soluzione nell'ambito di un'unione socialista degli Stati del mondo. L'umanità liberata potrà realizzare tutte le sue potenzialità.


Coyoacan, D.F., Messico.

18 aprile 1939



Ultima modifica 2021.11.11