Il cinema

Virginia Woolf (1926)


Traduzione di: Leonardo Maria Battisti, febbraio 2020.


Si dice: il selvaggio in noi non esiste più; siamo giunti alla fine della civiltà; tutto è stato detto; è troppo tardi per essere ambiziosi. Ma è una filosofia ignara del cinema, per chi non abbia visto i selvaggi del XX sec. guardare un film, e mai si sia seduto ante uno schermo a pensare quanto (malgrado cosa indossi e i tappeti su cui posi i piedi) non sia diverso da quegli uomini nudi dagli occhi scintillanti che (picchiettando due sbarre di ferro fra loro) sentivano in quel clangore un'anticipazione della musica di Mozart.

Beninteso: le sbarre sono così decorate e ricoperte di sostanze aliene che è difficile udire qualcosa di distinto: tutto è chiasso, rumore, caos. Sbirciamo oltre un calderone in cui paiono bollire frammenti di ogni forma e sapore; ogni tanto un pezzo più grande emerge e pare stia per sfuggir al caos. Eppure d'emblée l'arte cinematografica pare semplice, nonché banale. Ecco un re che stringe la mano a una squadra di calcio, ecco lo yacht di Sir Thomas Lypton, ecco Jack Horner che vince il Grand National. Tosto l'occhio riceve tutto, e il cervello, piacevolmente stimolato, segue ciò senza attivare il pensiero. Per l'occhio comune (l'occhio inglese privo di senso estetico) è un meccanismo di preservazione del corpo per non farlo cadere in un pozzo, rifornendo il cervello di giochi e di dolci per tenerlo buono, continuando a fare da balia finché il cervello non decida di destarsi. Quale richiesta di soccorso lo ridesta da tale piacevole stato di torpore? L'occhio è in difficoltà, l'occhio vuole aiuto; dice al cervello: «Sta succedendo qualcosa che non capisco affatto. Ho bisogno di te». Insieme guardano il re, l'imbarcazione, il cavallo e il cervello nota che essi hanno una qualità estranea alla mera riproduzione della vita reale. Non sono divenuti più belli nel senso di immagini belle, bensì potremmo dire (il nostro vocabolario è misero e parco) che sono più reali o reali in guisa diversa da quelle che percepiamo nella vita quotidiana? Vediamo come sono senza di noi. Vediamo che la vita scorre pur senza di noi. E fissandoli ci sentiamo distanti dalla meschinità della vita reale: il cavallo non ci schiaccerà, il re non ci stringerà la mano, le onde non ci bagneranno. A guardare i vizi della specie umana da tale posizione privilegiata si può provarne pietà e diletto, generalizzare, attribuire a un solo uomo i tratti dell'intera specie. A guardar veleggiare la barca e l'onda infrangersi si può aprire la mente alla bellezza nonché provare una strana sensazione: tale bellezza si perpetuerà, tale bellezza si diffonderà, che la si osservi o no. E ci dicono che ciò risale a dieci anni fa. Stiamo vedendo il passato: le spose che escono dall'abbazia sono ora madri, gli officianti al lavoro ora sono a riposo, le madri piangono, gli ospiti sono allegri; c'è chi vince e c'è chi perde, ma ora tutto è morto e sepolto. La Grande guerra ha scavato un abisso ai piedi di tale innocenza e inconsapevolezza, eppure è così che danzavamo e piroettavamo, sgobbavamo e sognavamo, onde il sole potesse brillare e le nuvole scomparire.

Ma i cineasti paiono insoddisfatti da fonti di interesse ovvie come il passare del tempo o il fascino del reale. Disprezzano il volo dei gabbiani, le navi sul Tamigi, il principe di Galles, la Mile End Road e Piccadilly Circus. Vogliono accrescere, mutare, creare un'arte autonoma – e ciò pare fattibile. Tante arti parevano pronte ad aiutare. Es. La letteratura: tutti i celebri romanzi del mondo, coi loro celebri personaggi e le scene famose chiedevano solo di finire trasformati in film. Cosa c'era di più semplice e agevole? Il cinema piombò sulla preda con gran voracità e ha già mangiato gran parte della sua misera vittima. Ma il risultato scontenta entrambi. L'unione è artata: l'occhio e il cervello si scollegano anziché cooperar. L'occhio dice: «C'è Anna Karenina» ed appare una sensuale signora in velluto nero con una collana di perle. Ma il cervello dice: «Non è Anna Karenina più di quanto non sia la regina Vittoria». Perché il cervello conosce Anna dal suo animo (il suo fascino, la sua passione, la sua disperazione). Invece il cinema mostra i suoi denti, le sue perle, i suoi velluti. Poi «Anna si innamora di Vronskij», cioè la signora in velluto nero cade nelle braccia di un gentiluomo in uniforme e i due si baciano con passione, prudenza e infiniti gesticolamenti sul sofà di una biblioteca molto ben arredata, mentre per caso il giardiniere tosa l'erba. Così zoppichiamo fra più noti romanzi mondiali. Così li compitiamo in monosillabi scritti pure con un'orrida calligrafia. Un bacio significa amore; una tazza rotta gelosia, un sorriso felicità, un carro funebre morte. Niuna di tali cose ha il minimo nesso col romanzo scritto da Tolstoj. Solo rinunciando a collegare le immagini col libro che intravediamo in qualche scena casuale (il giardiniere che tosa il prato) cosa il cinema potrebbe fare se lasciato a sé stesso.

Ma quali strumenti ha? Se smettesse di fare il parassita, come camminerebbe? Per ora solo da pochi indizi si possono fare ipotesi. Es. L'altro giorno, a una proiezione del Gabinetto del dottor Caligari un'ombra dalla forma di girino è apparsa in un angolo dello schermo per poi riempirlo, vibrando e gonfiandosi, e sparire di nuovo nel nulla. Per un attimo pareva incarnare la fantasia malata e mostruosa della mente di un folle. Per un attimo pareva che il pensiero potesse essere meglio veicolato dall'immagini che dalla parola. Il mostruoso girino fremente pareva essere la paura in sé anziché l'affermazione «ho paura». In realtà l'ombra era casuale e l'effetto involontario. Ma se un'ombra a un certo punto può evocare più di gesti e parole reali di uomini e donne impauriti, allora è evidente che il cinema disponga di innumerevoli simboli per emozioni che finora non hanno trovato parola. Il terrore, oltre alle sue forme comuni, assume le sembianze di un girino: si sviluppa, si gonfia, vibra, sparisce. L'ira non è solo ingiuria e retorica, volti accesi e pugni serrati; potrebbe essere una riga nera scarabocchiata su un foglio bianco; Anna e Vronskij non devono più acidi arsi e fare smorfie: dispongono... di cosa? Mi chiedo: esiste una lingua segreta che sentiamo e vediamo ma che non possiamo parlare ma si potrebbe rappresentare all'occhio? Esiste una qualità del pensiero che si può render visibile senza usare parole? Dev'esser lesta e lenta, fulminea come una freccia e generica come una perifrasi; ma, nei momenti di emozione, deve crear immagini, trasferir il suo fardello a un altro portatore, farsi accompagnar da un'idea. L'immagine del pensiero è per qualche ragione più armonioso, più intelligibile, più accessibile del pensiero stesso. È noto che in Shakespeare le idee più complesse formano catene di immagini su cui arrampicarsi (fra curve e deviazioni) per sbucare alla luce del sole. Beninteso: le immagini poetiche non sono incastonate nel bronzo o tracciate a matita: sono concrezione di migliaia di sensazioni di cui la visibilità è solo predominante. Pure l'immagine più semplice «il mio amore è come una rosa rosso vivo in giugno appena sbocciata» ci trasmette impressioni di umidità e calore, il nitore del cremisi, la morbidezza dei petali, fuse inestricabilmente e connesse dall'innalzarsi di un ritmo che è esso stesso la voce della passione e l'esitazione dell'amante. Il cinema deve fuggire tutto quanto sia accessibile alla parola, e solo alla parola.

Ma, se alla vista è legata tanta parte del nostro pensiero e del nostro sentire, al cinema può ancora spettare qualche residuo dell'emozione visiva inutile sia al pittore sia al poeta. Che tali simboli differiscano dagli oggetti reali che vediamo dal vivo pare probabile. Qualcosa di astratto, fatto con arte controllata e consapevole, che chieda un minimo aiuto alle parole o alla musica per farsi capire purché in guisa servile: di tali movimenti e astrazioni i film potranno a tempo debito essere fatti. Nel trovare un simbolo nuovo per esprimere il pensiero, il cineasta avrà a disposizione enormi ricchezze. L'esattezza della realtà e il suo sorprendente potere suggestivo stanno per essere carpite. Le Anne e i Vronskij – eccoli lì in carne e ossa. Se in questa realtà il cineasta può infonder emozione, se può col pensiero animare la forma perfetta, accumulerà pezzo dopo pezzo un tesoro. E noi, come il fumo che esce dal Vesuvio, dovremmo poter vedere il pensiero allo stato brado, nella sua bellezza, nella sua singolarità, affiorare da uomini coi gomiti sul tavolo, da donne le cui borsette sfiorano terra. Dovremmo scorgere tali emozioni mescolarsi e influenzarsi a vicenda. Dovremmo distinguere violenti mutamenti d'emozione generati dal loro collidere.

I contrasti più fantastici possono esserci fatti balenare dinanzi così celeri che invano uno scrittore proverebbe a cogliere; l'architettura onirica di archi e merlature, di cascate all'ingiù e fontane all'insù, che talvolta ci fa visita in sogno o piglia forma negli spazi semibui, potrebbe esser costruita finalmente in stato di veglia. Non c'è fantasia troppo inverosimile o irreale: il passato si può srotolare, le distanze annientare, e le crepe che intralciano i libri (es., quando Tolstoj deve passar da Levin ad Anna ed intralcia la storia, rompe e arresta le nostre simpatie) possono (con la ripetitività di sfondo, con la ripetizione della scena) esser riempite.

Niuno sa ora dirci come si possa tentare e ancor meno raggiungere tutto ciò. Forse ne abbiamo sentore solo nel caos della strada, quando il momentaneo incontro di colori, suoni, movimenti ci suggerisce l'esistenza di una scena in attesa di un'arte nuova che la catturi. E a volte al cinema, fra ha l'immensa abilità e l'enorme perizia tecnica, il sipario si alza e vediamo, in lontananza, qualche bellezza sconosciuta e inattesa. Ma dura solo un istante. Perché è successo un fatto strano: mentre tutte le altre arti nacquero nude, questa, la più giovane, è nata completamente vestita. Può dire tutto prima che abbia un che da dire. È come se una tribù selvaggia, anziché procurarsi solo due barre di ferro per suonare, avesse trovato sfusi sulla riva violini, flauti, sassofoni, trombe, pianoforti di Erard e Bechstein e avesse iniziato con vigorosa energia a battere e martellare tutti insieme gli strumenti ma senza conoscere una sola nota musicale.



Ultima modifica 2020.02.12