Per la Critica dell'Economia Politica

Capitolo secondo

 

 

Il denaro ossia la circolazione semplice

 

In un dibattito parlamentare sulle leggi bancarie di Sir Robert Peel del 1844 e del 1845, Gladstone osservava che nemmeno l'amore aveva fatto impazzire tanti uomini quanti ne erano impazziti scervellandosi sulla natura del denaro. Parlava di inglesi a inglesi. Gli olandesi, invece, gente che, malgrado i dubbi del Petty, avevano da sempre posseduto uno "spirito celeste" per la speculazione monetaria, non hanno mai perso il loro spirito nella speculazione teorica sulla moneta.

La difficoltà principale dell'analisi del denaro è superata non appena la sua origine è concepita partendo dalla merce stessa. Con questo presupposto si tratterà semplicemente di afferrare nettamente le sue peculiari proprietà formali, cosa che in un certo modo viene resa più difficile perchè tutti i rapporti borghesi appaiono dorati o argentati, appaiono come rapporti di denaro, e perchè la forma di denaro sembra quindi avere un contenuto infinitamente vario che è estraneo ad essa stessa.

Nell'indagine che segue è da ricordare che si tratta solo di quelle forme del denaro che emergono direttamente dallo scambio delle merci, non però di quelle sue forme legate a uno stadio più elevato del processo di produzione, come ad esempio la moneta di credito. Per semplicità l'oro è sempre presupposto come la merce-denaro.

 

Indice

I. Misura dei valori

B. Teorie sull'unità di misura del denaro

 


 

I. Misura dei valori

 

 

Il primo processo della circolazione è per così dire un processo teorico che prepara la reale circolazione. Le merci, esistenti come valori d'uso, si creano in un primo momento la forma nella quale appaiono l'una all'altra idealmente come valori di scambio, come determinati quantitativi di tempo di lavoro generale oggettivato. Il primo atto necessario di questo processo è, come vediamo, questo: le merci escludono una merce specifica, diciamo l'oro, quale materializzazione immediata del tempo di lavoro generale ossia quale equivalente generale. Ritorniamo per un momento alla forma nella quale le merci trasformano l'oro in denaro.

1 tonnellata di ferro = 2 once d'oro,
1 quarter di grano = 1 oncia d'oro,
1 quintale di caffè = 1/4 oncia d'oro,
1 quintale di soda = 1/2 oncia d'oro,
1 tonnellata di legno brasiliano = 1 1/2 once d'oro,
Y merce = X once d'oro.

In questa serie di equazioni, il ferro, il grano, il caffè, la soda, ecc. appaiono l'uno all'altro come materializzazione di lavoro uniforme, cioè di lavoro materializzato in oro, lavoro in cui siano cancellate in pieno tutte le particolarità dei reali lavori, rappresentati nei loro differenti valori d'uso. Come valore sono identiche, sono materializzazione del medesimo lavoro, ossia sono la medesima materializzazione del lavoro, oro. Come materializzazione uniforme dello stesso lavoro manifestano una sola differenza, di carattere quantitativo, ossia appaiono come grandezze di valore differenti, poichè nei loro valori d'uso è contenuto un tempo di lavoro disuguale. Come tali singole merci, esse sono in rapporto fra di loro anche come oggettivazione del tempo di lavoro generale, riferendosi al tempo di lavoro generale come a una merce esclusa, all'oro. Quella stessa relazione progressiva per la quale si presentano come valori di scambio l'uno per l'altro, esprime il tempo di lavoro contenuto nell'oro come tempo di lavoro generale, di cui un dato quantitativo si esprime in quantità differenti di ferro, grano, caffè, ecc., in breve, nei valori d'uso di tutte le merci, ossia si svolge direttamente nella serie infinita degli equivalenti-merci. Le merci esprimendo generalmente i propri valori di scambio in oro, l'oro esprime il proprio valore di scambio direttamente in tutte le merci. Le merci, dandosi reciprocamente la forma del valore di scambio, dànno all'oro la forma dell'equivalente generale ossia del denaro.

Poichè tutte le merci misurano in oro i propri valori di scambio nella proporzione in cui una determinata quantità d'oro e una determinata quantità di merce contengono la medesima quantità di tempo di lavoro, l'oro diventa la misura dei valori; e in un primo momento è soltanto per questa sua definizione di misura dei valori per la quale il suo valore si misura direttamente nella cerchia complessiva degli equivalenti-merci, che l'oro diventa equivalente generale ossia denaro. D'altra parte, il valore di scambio di tutte le merci si esprime ora in oro. E in questa espressione occorre distinguere un elemento qualitativo e un elemento quantitativo. Il valore di scambio delle merci esiste come materializzazione di un medesimo e uniforme tempo di lavoro; la grandezza di valore della merce è rappresentata in modo esauriente poichè le merci sono equiparate l'una all'altra nella proporzione in cui si sono equiparate all'oro. Da un lato appare il carattere generale del tempo di lavoro contenuto in esse, dall'altro appare la quantità di questo nel suo equivalente aureo. Il valore di scambio delle merci, espresso in tal modo come equivalenza generale e allo stesso tempo come grado di questa equivalenza in una merce specifica, oppure in un'unica equazione fra le merci e una merce specifica, è il prezzo. Il prezzo è la forma mutata nella quale appare il valore di scambio delle merci in seno al processo di circolazione.

Quindi, mediante il medesimo processo con cui esprimono i propri valori come prezzi in oro, le merci esprimono l'oro come misura dei valori e perciò come denaro. Se misurassero generalmente i propri valori in argento o grano o rame, e quindi li esprimessero come prezzi in argento, grano o rame, l'argento, il grano, il rame diventerebbero misura dei valori e con ciò diventerebbero equivalente generale. Per apparire come prezzi nella circolazione, le merci, rispetto alla circolazione, sono presupposte come valori di scambio. L'oro diventa misura dei valori soltanto perchè tutte le merci stimano il proprio valore di scambio in esso oro. La generalità di questo riferimento progressivo, dalla quale soltanto nasce il suo carattere di misura, presuppone però che ogni singola merce si misuri in oro in proporzione del tempo di lavoro contenuto in entrambi, che quindi misura reale fra merce e oro sia il lavoro stesso, ossia che merce e oro siano equiparati l'una all'altro come valori di scambio attraverso il diretto commercio di scambio. Come avvenga praticamente questa equiparazione non potrà essere discusso nella sfera della circolazione semplice. Ma è chiaro per lo meno che, in paesi produttori di oro e argento, un determinato tempo di lavoro si incorpora direttamente in una determinata quantità di oro e di argento, mentre in paesi che non siano produttori di oro e argento, questo stesso risultato viene raggiunto per via traversa, mediante lo scambio diretto o indiretto delle merci del paese, ossia di una determinata porzione del lavoro medio nazionale, con una determinata quantità del tempo di lavoro materializzato in oro e argento dei paesi possessori di miniere. Per poter servire da misura dei valori, l'oro deve essere virtualmente un valore variabile perchè soltanto come materializzazione del tempo di lavoro può diventare l'equivalente di altre merci, e perchè uno stesso tempo di lavoro si realizza però, variando le forze produttive del lavoro reale, in volumi ineguali dei medesimi valori d'uso. Come per l'espressione del valore di scambio di ogni merce nel valore d'uso di altra merce, così, nella valutazione di tutte le merci in oro, è semplicemente presupposto che l'oro in un dato momento esprima una data quantità di tempo di lavoro. Rispetto alla variazione del suo valore vale la legge dei valori di scambio che abbiamo svolta sopra. Se il valore di scambio delle merci rimane invariato, un aumento generale dei loro prezzi in oro sarà possibile soltanto se diminuirà il valore di scambio dell'oro. Se il valore di scambio dell'oro rimane invariato, un aumento generale dei prezzi in oro sarà possibile soltanto se aumenteranno i valori di scambio di tutte le merci. Il contrario accade nel caso di una diminuzione generale dei prezzi delle merci. Se il valore di un'oncia d'oro diminuisce o aumenta a causa di una variazione del tempo di lavoro richiesto per la sua produzione, il suo valore diminuirà o aumenterà uniformemente per tutte le altre merci, rappresenterà perciò ora come prima per tutte le merci un tempo di lavoro di grandezza data. Valori di scambio uguali si stimano ora in quantità d'oro maggiori o minori di prima, ma si stimano in proporzione delle loro grandezze di valore, essi conservano quindi l'uno rispetto all'altro la stessa proporzione di valore. La proporzione 2:4:8 rimane uguale a quella di 1:2:4 o 4:8:16. La mutata quantità d'oro in cui i valori di scambio si stimano con un valore-oro mutante, non impedisce la funzione dell'oro come misura dei valori, come il valore dell'argento, quindici volte minore di quello dell'oro, non impedisce all'argento di soppiantare l'oro in questa sua funzione. Siccome il tempo di lavoro è la misura fra oro e merce, e siccome l'oro diventa misura dei valori soltanto in quanto tutte le merci si misurano in esso, si tratta di semplice apparenza del processo di circolazione, se il denaro sembra rendere commensurabili le merci [38]. E' invece semplicemente la commensurabilità delle merci quale tempo di lavoro oggettivato che rende l'oro denaro.

La figura reale con cui le merci entrano nel processo di scambio è quella dei loro valori d'uso. Reale equivalente generale esse diventeranno soltanto mediante la loro alienazione. La determinazione del loro prezzo è la loro trasformazione meramente ideale nell'equivalente generale, equazione con l'oro che è ancora da realizzarsi. Ma siccome le merci, nei loro prezzi, sono trasformate in oro solo idealmente ossia in oro puramente immaginario, e siccome il loro essere denaro non è ancora realmente separato dal loro essere reale, l'oro ancora non è trasformato che in denaro ideale, è ancora semplice misura dei valori, e determinate quantità d'oro funzionano ancora, in realtà, semplicemente come denominazioni per determinate quantità di tempo di lavoro. Dal modo determinato in cui le merci esprimono l'una per l'altra il proprio valore di scambio, dipenderà ogni volta la determinatezza formale in cui l'oro si cristallizza come denaro.

Le merci si contrappongono ora come duplici esistenze, realmente come valori d'uso, idealmente come valori di scambio. La duplice forma del lavoro contenuto in esse, la esprimono ora l'una per l'altra mediante la reale presenza del lavoro particolarmente reale quale loro valore d'uso, mentre il tempo di lavoro astratto generale acquisisce nel loro prezzo una presenza immaginaria, nella quale le merci sono materializzazioni uniformi e solo quantitativamente differenti di una medesima sostanza di valore.

La differenza fra valore di scambio e prezzo appare da un lato come differenza soltanto nominale, così come Adam Smith dice che il lavoro è il prezzo reale delle merci e il denaro ne è il prezzo nominale. Invece di stimare un quarter di grano trenta giornate lavorative, ora lo si stima un'oncia di oro, qualora un'oncia d'oro sia il prodotto di trenta giornate lavorative. D'altra parte, la differenza è tanto poco una semplice differenza nominale che in essa sono concentrate invece tutte le intemperie che minacciano la merce nel reale processo di circolazione. Trenta giornate lavorative sono contenute nel quarter di grano ed esso non dovrà quindi essere espresso prima in tempo di lavoro. Ma l'oro è una merce diversa dal grano, e nella circolazione soltanto potrà effettivamente risultate se il quarter di grano diventa realmente un'oncia d'oro, come è stato anticipato nel suo prezzo. Questo dipenderà dal fatto che il quarter di grano si affermi o meno come valore d'uso, che la quantità di tempo di lavoro in esso contenuta si affermi o meno come la quantità di tempo di lavoro richiesta dalla società come necessaria per la produzione di un quarter di grano. La merce come tale è valore di scambio, ha un prezzo. In questa differenza fra valore di scambio e prezzo si vede che il lavoro individuale particolare, contenuto nella merce, deve essere espresso soltanto mediante il processo dell'alienazione come il proprio opposto, come lavoro privo di individualità, astrattamente generale, e sociale solo in questa forma, ossia come denaro. Sembra dipendere dal caso che il lavoro sia suscettibile di tale espressione o no. Quindi, sebbene il valore di scambio della merce acquisisca nel prezzo solo idealmente un'esistenza distinta dalla merce, e sebbene la duplice esistenza del lavoro in essa contenuto esista ormai soltanto come diverso modo di espressione, e d'altra parte la materializzazione del tempo di lavoro generale, l'oro, si contrapponga ormai alla merce reale solo come misura di valore immaginaria, nell'esistenza del valore di scambio come prezzo, o dell'oro come misura di valore, è contenuta in via latente la necessità dell'alienazione della merce in cambio di oro sonante, la possibilità della sua non-alienazione, in breve è contenuta in modo latente l'intera contraddizione; questa deriva dal fatto che il prodotto è merce, ossia che il lavoro particolare del singolo individuo, per avere effetto sociale deve esprimersi come il proprio immediato opposto, come lavoro astrattamente generale. Gli utopisti che vogliono la merce, ma non il denaro, che vogliono la produzione basata sullo scambio privato senza le condizioni necessarie di questa produzione, sono perciò coerenti quando "distruggono" il denaro, non soltanto nella sua forma tangibile, bensì già nella sua forma aerea ed arzigogolata di misura dei valori. Nella misura indivisibile dei valori sta in agguato la dura moneta.

Presupposto il processo pel quale l'oro è diventato la misura dei valori, e il valore di scambio è diventato prezzo, tutte le merci nei loro prezzi ormai non sono che immaginarie quantità d'oro di grandezza diversa. In quanto tali quantità diverse di una medesima cosa, dell'oro, le merci si assomigliano, si raffrontano e si misurano l'una con l'altra, e in tal modo si sviluppa tecnicamente la necessità di riferirle a una determinata quantità d'oro come unità di misura, la quale è bene sviluppata ulteriormente fino a diventare una scala di misura mediante la sua suddivisione in parti aliquote e la suddivisione di queste, a loro volta, in altre parti aliquote [39]. Ma le quantità d'oro come tali si misurano mediante il peso. La scala delle misure si trova quindi già presente nelle misure generali dei pesi dei metalli che in ogni circolazione metallica servono quindi realmente in origine da misure dei prezzi. Le merci non riferendosi più l'una all'altra come valori di scambio da misurarsi mediante il tempo di lavoro, bensì come grandezze di uguale denominazione, misurate in oro, l'oro da misura dei valori si trasforma in scala dei prezzi. Il confronto dei prezzi delle merci fra di loro come quantità diverse d'oro si cristallizza in tal modo nelle figurazioni che sono iscritte in una quantità immaginaria di oro e esprimono questa come scala di parti aliquote. L'oro, come misura dei valori e come scala di misura dei prezzi, ha una determinatezza formale del tutto distinta, e lo scambiare l'una con l'altra ha provocato il sorgere delle teorie più pazzesche. Misura dei valori l'oro è in quanto tempo di lavoro oggettivato, scala di misura dei prezzi l'oro è in quanto sia un determinato peso metallico. Misura dei valori l'oro diventa quando, come valore di scambio, è riferito alle merci come valori di scambio; nella scala di misura dei prezzi una determinata quantità di oro serve come unità per altre quantità d'oro. L'oro è misura di valore perchè il suo valore è variabile; è scala di misura dei prezzi perchè è fissato come unità di peso invariabile. Qui, come in tutte le determinazioni di misura di grandezze di uguale denominazione, la fissità e la determinatezza delle proporzioni di misura diventano decisive. La necessità di fissare una quantità d'oro come unità di misura e di fissare parti aliquote come suddivisioni di quest'unità, ha fatto nascere l'idea che una determinata quantità d'oro, che naturalmente ha valore variabile, sarebbe messa in un rapporto fisso di valore nei confronti dei valori di scambio delle merci; dicendo questo ci si dimentica però che i valori di scambio delle merci sono trasformati in prezzi, in quantità d'oro, prima che l'oro si sviluppi come scala di misura dei prezzi. Comunque varii il valore dell'oro, quantità diverse d'oro rappresentano l'una nei confronti dell'altra sempre lo stesso rapporto di valore. Se il valore dell'oro diminuisse del mille per cento, dodici once d'oro avrebbero pur sempre un valore dodici volte maggiore di quello di un'oncia d'oro, e nei prezzi si tratta soltanto del rapporto reciproco fra quantità di oro diverse. D'altra parte, siccome un'oncia d'oro non cambia affatto il proprio peso con la diminuzione o con l'aumento del proprio valore, non cambia nemmeno il peso delle sue parti aliquote, e in tal modo l'oro come scala fissa di misura dei prezzi compie sempre lo stesso servizio per quanto varii il suo valore [40].

A un processo storico che spiegheremo più avanti risalendo alla natura della circolazione metallica, dobbiamo il fatto che per un peso costantemente variante e discendente di metalli nobili, nella loro funzione di scala di misura dei prezzi, venisse conservata la stessa denominazione di peso. Così la lira sterlina inglese esprime meno di un terzo del suo peso originario, la lira sterlina scozzese anteriore a l'Unione designa ora soltanto 1/36, la livre francese 1/74, il maravedi spagnuolo meno di 1/1000, il re portoghese designa una proporzione di gran lunga minore di quest'ultima. Così le denominazioni monetarie dei pesi metallici si sono scisse storicamente dalle loro denominazioni generali di peso [41]. Siccome da una parte la determinazione dell'unità di misura, delle sue parti aliquote e delle loro denominazioni, è puramente convenzionale, e d'altra parte essa deve avere entro la circolazione il carattere della generalità e della necessità, essa dovette diventare determinazione legale. L'operazione puramente formale toccò quindi ai governi [42].

Il metallo determinato che serviva da materiale del denaro era dato socialmente. In paesi diversi la scala di misura legale dei prezzi è naturalmente diversa. In Inghilterra p. es. l'oncia come peso metallico è suddivisa in pennyweights, grains e carats troy, ma l'oncia d'oro come unità di misura del denaro è suddivisa in 3 7/8 di sovereigns, il sovereign in venti scellini, lo scellino in dodici pence, così che cento sterline in oro a ventidue carati (1.200 once) sono pari a 4.672 sovereigns e dieci scellini. Sul mercato mondiale, tuttavia, dove scompaiono i confini nazionali questi caratteri nazionali delle misure del denaro scompaiono nuovamente e cedono il posto alle misure di peso generali dei metalli.

Il prezzo di una merce, ossia la quantità d'oro in cui è idealmente trasformata, si esprime quindi ora nelle denominazioni monetarie della scala di misura dell'oro. Perciò, invece di dire che il quarter di grano è pari a un'oncia d'oro, in Inghilterra si direbbe che è pari a 3 lire sterline 17 scellini 10 1/2 pence. Tutti i prezzi si esprimono in tal modo nella stessa denominazione. La forma peculiare che le merci conferiscono al proprio valore di scambio è mutata in denominazioni monetarie con cui si dicono l'una all'altra quanto valgono. Il denaro a sua volta diventa moneta di conto [43].

La trasformazione della merce in moneta di conto, fatta mentalmente, sulla carta, a voce, avviene tutte le volte che una qualsiasi specie di ricchezza viene fissata dal punto di vista del valore di scambio [44]. Per questa trasformazione occorre il materiale dell'oro, ma soltanto come materiale immaginario. Per stimare il valore di mille balle di cotone in un determinato numero di once d'oro e per esprimere questo numero d'once a sua volta nelle denominazioni di conto dell'oncia, in lire sterline, scellini, pence, non occorre neanche un atomo di oro reale. Così, in Scozia prima delle leggi bancarie emanate da Sir Robert Peel nel 1845, non circolava alcuna oncia d'oro, benchè l'oncia d'oro, espressa come misura di conto inglese in 3 lire sterline 17 scellini 10 1/2 pence, servisse da misura legale dei prezzi. Così, l'argento serve da misura dei prezzi nello scambio delle merci fra Siberia e Cina, benchè il commercio sia in realtà commercio di scambio e nient'altro. E' quindi indifferente per il denaro come moneta di conto che la sua stessa unità di misura o le suddivisioni di questa siano realmente coniate. In Inghilterra, all'epoca di Guglielmo il Conquistatore, esistevano 1 lira sterlina, allora 1 libbra di argento puro, e lo scellino, 1/20 di una libbra, soltanto come moneta di conto, mentre il penny, 1/240 di libbra d'argento, era la moneta d'argento più grande che esistesse. Viceversa, nell'Inghilterra d'oggi, non esistono scellini e pence benchè siano denominazioni di conto legali per parti determinate di un'oncia d'oro. Il denaro come moneta di conto può in genere esistere solo idealmente, mentre il denaro esistente realmente è coniato secondo tutt'altra scala di misura. Così, in molte colonie inglesi dell'America del Nord fino al secolo XVIII inoltrato il denaro circolante consisteva di monete spagnuole e portoghesi, mentre la moneta di conto era dappettutto la stessa che si aveva in Inghilterra [45].

Siccome l'oro, come scala di misura dei prezzi, si presenta nelle stesse denominazioni di conto dei prezzi delle merci, e dunque un'oncia d'oro è espressa in 3 lire sterline 17 scellini 10 1/2 pence, proprio come lo è una tonnellata di ferro, queste sue denominazioni di conto si sono chiamate il suo prezzo monetario. Perciò è nata la strana idea che l'oro sia stimato nel suo proprio materiale, e che riceva un prezzo fisso, a differenza di tutte le altre merci, per ragioni di Stato. La fissazione di denominazioni di conto per determinati pesi d'oro si riteneva erroneamente fosse la fissazione del valore di questi pesi [46]. L'oro, là dove serve da elemento della determinazione del prezzo e quindi da moneta di conto, non soltanto non ha un prezzo fisso, ma in generale non ha prezzo alcuno. Per avere un prezzo, cioè per esprimersi come equivalente generale in una merce specifica, quest'altra merce dovrebbe avere nel processo di circolazione quella stessa funzione esclusiva che vi ha l'oro. Ma due merci che escludano tutte le altre merci si escludono a vicenda. Perciò, là dove l'oro e l'argento esistono l'uno accanto all'altro, legalmente, come denaro, cioè come misura del valore, si è sempre compiuto il vano tentativo di trattarli come una sola e medesima materia. Presupposto che il medesimo tempo di lavoro si oggettivi immutabilmente nella medesima proporzione di argento e oro, in realtà è presupposto che l'argento e l'oro siano la medesima materia, e che l'argento, metallo meno pregiato, sia una frazione invariabile di oro. Dal regno di Edoardo III all'epoca di Giorgio II, la storia delle finanze inglesi si smarrisce in una continua serie di perturbazioni derivanti dalla collisione fra la fissazione legale del rapporto di valore fra l'oro e l'argento e le reali oscillazioni del loro valore.Ora si stimava troppo alto l'oro, ora l'argento. Il metallo stimato troppo poco veniva sottratto alla circolazione, fuso ed esportato. Il rapporto di valore fra i due metalli veniva poi modificato di nuovo legalmente, ma il nuovo valore nominale ben presto entrava in conflitto con il rapporto reale del valore, come era accaduto per quello vecchio. Nell'epoca nostra, la lievissima e passeggera caduta del valore dell'oro in confronto a quello dell'argento, dovuto alla domanda d'argento da parte dell'India e della Cina, ha prodotto su scala massima quello stesso fenomeno in Francia, esportazione dell'argento e sua cacciata dalla circolazione da parte dell'oro. Durante gli anni, 1855, 1856, 1857 l'eccedenza dell'importazione di oro nei confronti dell'esportazione ammontava in Francia a 41.580.000 lire sterline, mentre l'eccedenza dell'esportazione d'argento nei confronti dell'importazione era di lire sterline 14.704.000. Infatti, in paesi come la Francia, nei quali tutte e due i metalli sono per legge misura di valore e devono essere accettati in pagamento entrambi, ma ognuno può a suo piacere pagare nell'uno o nell'altro dei due metalli, il metallo che aumenta di valore gode di un aggio e misura, come ogni altra merce, il proprio valore nel metallo sopravvalutato, mentre quest'ultimo soltanto serve da misura di valore. Tutte le esperienze storiche si riducono in questo campo al semplice fatto che là dove per legge due merci hanno la funzione di misura di valore, di fatto è sempre una sola che riesce a mantenersi [47].

 


 

B. Teorie sull'unità di misura del denaro

 

 

Il fatto che le merci come prezzi sono trasformate in oro solo idealmente e quindi l'oro è trasformato solo idealmente in denaro, ha dato origine alla teoria della unità di misura ideale del denaro. Siccome nella determinazione del prezzo funzionano solo oro o argento immaginari, e l'oro e l'argento funzionano solo come moneta di conto, è stato affermato che le denominazioni di sterlina, scellino, pence, tallero, franco, ecc., invece di disegnare parti di peso d'oro o d'argento o un lavoro oggettivato comunque sia, designano piuttosto atomi ideali di valore. Perciò, se p. es. il valore di un'oncia d'argento aumentasse, essa conterrebbe un maggior numero di questi atomi e dovrebbe quindi essere calcolata e coniata in un maggior numero di scellini. Questa dottrina, riaffermata durante l'ultima crisi commerciale inglese e perfino presentata in parlamento da due rapporti particolari acclusi al rapporto del comitato bancario riunito nel 1858, risale alla fine del secolo XVII. All'epoca dell'avvento al trono di Guglielmo III il prezzo della moneta inglese corrispondente a un'oncia d'argento ammontava a 5 scellini 2 pence, ossia 1/62 di un'oncia di argento era chiamato penny e 12 di questi pence erano chiamati scellino. Secondo questa scala di misura un peso d'argento di 6 once, p. es., veniva monetato in 31 pezzi dal nome di scellino. Il prezzo di mercato dell'oncia d'argento saliva però al di sopra del suo prezzo monetario, da 5 scellini e 2 pence a 6 scellini 3 pence, ossia per comprare un'oncia di argento grezzo bisognava dare 6 scellini e 3 pence. Com'era possibile che il prezzo di mercato di un'oncia d'argento salisse al di sopra del suo prezzo monetario se quest'ultimo era semplicemente la denominazione di conto per parti aliquote di un'oncia d'argento? Ma l'enigma si risolse con semplicità. Delle 5.600.000 lire sterline di moneta argentea allora in circolazione, quattro milioni erano logori e limati. Risultò a una prova che 57.200 lire sterline in argento, che avrebbero dovuto pesare 220.000 once, ne pesavano soltanto 141 mila. La zecca coniava sempre secondo la stessa misura, ma gli scellini leggeri, realmente circolanti, rappresentavano parti aliquote dell'oncia minori di quel che pretendesse la loro denominazione. Un quantitativo piuttosto notevole di questi scellini rimpiccioliti dovette quindi essere pagato sul mercato per un'oncia di argento grezzo. Quando, in seguito alla perturbazione così sorta, fu decisa una monetazione generale nuova, Lowndes, il secretary to the treasury, sostenne che il valore dell'oncia d'argento era aumentato e che quindi in avvenire l'oncia d'argento doveva essere monetata in 6 scellini 3 pence invece che in 5 scellini 2 pence, come si faceva prima. Di fatto sosteneva dunque che, essendo aumentato il valore dell'oncia, era diminuito il valore delle sue parti aliquote. Ma la sua falsa teoria era un semplice coonestamento di un giusto scopo pratico. I debiti dello Stato erano contratti in scellini leggeri, dovevano forse essere ripagati in scellini pesanti? Invece di dire, ripagate 4 once d'argento là dove avete ricevuto 5 once nominalmente ma in realtà soltanto 4, egli diceva viceversa: ripagate nominalmente 5 once, ma riducetele a 4 once, secondo il contenuto metallico, e chiamate scellino quello che prima chiamavate 4/5 di scellino. Lowndes teneva dunque in realtà fermo al contenuto metallico, mentre in teoria teneva fermo alla denominazione di conto. I suoi avversari, che tenevano fermo alla semplice denominazione di conto e quindi dichiaravano che uno scellino con un difetto di peso del 25-30 per cento era identico a uno scellino dal peso esatto, sostenevano viceversa di tener fermo al solo contenuto metallico. John Locke, il quale sosteneva la nuova borghesia in tutte le sue forme, gli industriali contro le classi lavoratrici e gli impoveriti, gli imprenditori commerciali contro gli usurai all'antica, l'aristocrazia della Finanza contro i debitori dello Stato, Locke, il quale in una sua opera dimostrò perfino che l'intelletto borghese è l'intelletto umano normale, raccolse anche il guanto di sfida lanciato da Lowndes. La vittoria toccò a John Locke, e il denaro, preso a prestito a 10 o 14 scellini la ghinea, veniva restituito in ghinee da 20 scellini [48]. Sir James Steuart riassume ironicamente tutta la transazione con queste parole: "Il governo realizzò un notevole guadagno sulle imposte, i creditori sul capitale e sugli interessi, e la nazione, unica vittima della truffa, era allegra come una pasqua perchè il suo standard (la scala di misura del proprio valore) non era stato abbassato" [49]. Lo Steuart era dell'opinione che in una fase ulteriore di sviluppo commerciale la nazione si sarebbe mostrata più astuta. Sbagliava. Circa 120 anni dopo si ripetè lo stesso quid pro quo.

Era una cosa del tutto naturale che il vescovo Berkeley, rappresentante di un mistico idealismo nella Filosofia inglese, desse al principio dell'unità di misura ideale del denaro un indirizzo teorico, cosa che il pratico "secretary to the treasury" aveva trascurato di fare. Egli domanda: "Non sono i nomi di livre, lira sterlina, corona, ecc. da considerarsi semplici nomi di proporzione?" (cioè proporzioni del valore astratto come tale). "L'oro, l'argento o la carta sono forse più che semplici biglietti o marche

per il suo computo, la sua registrazione e il suo controllo" (della proporzione del valore). "Il potere di comandare l'industriosità altrui" (il lavoro sociale) "non è forse ricchezza? Ed è il denaro realmente altro che una marca o un simbolo del trasferimento o della registrazione di tale potere, ed è forse di grande importanza in che cosa consista il materiale di queste marche?" [50]. Qui vediamo che da un lato la misura dei valori è scambiata per la scala di misura dei prezzi, dall'altro oro o argento come misura sono scambiati per oro e argento come mezzo di circolazione. Siccome tutti i metalli nobili, all'atto della circolazione, possono essere sostituiti con marche, il Berkeley ne deduce che queste marche non rappresentano nulla, ossia rappresentano il concetto del valore astratto.

La teoria dell'unità di misura ideale del denaro è svolta così a fondo in Sir James Steuart che i suoi successori - successori inconsapevoli in quanto non lo conoscono - non trovano una nuova espressione di linguaggio e nemmeno un nuovo esempio. "La moneta di conto - egli dice - non è altro che una scala di misura arbitraria di parti uguali, inventata per misurare il valore relativo di cose vendibili. La moneta di conto è del tutto diversa dal denaro-moneta che è prezzo [51], e potrebbe esistere benchè non ci fosse una sostanza al mondo capace di restituire l'equivalente proporzionale di tutte le merci. La moneta di conto compie per il valore delle cose lo stesso servizio che compiono gradi, minuti, minuti secondi, ecc. per gli angoli o compiono scale di misura per le carte geografiche, ecc. In tutte queste invenzioni è sempre presupposta come unità la stessa denominazione. Come l'utilità di tutte queste funzioni è semplicemente limitata all'indicazione della proporzione così avviene per l'unità di denaro. Questa non può quindi avere una proporzione determinata invariabilmente nei confronti di una parte qualsiasi del valore, ossia non può essere fissata in un qualsiasi quantitativo determinato d'oro, argento o di un'altra qualsiasi merce. Una volta data l'unità, si potrà salire al valore massimo soltanto mediante la moltiplicazione. Siccome il valore delle merci dipende da una generale confluenza di circostanze, che agiscono su di esse, e di capricci degli uomini, il valore delle merci dovrebbe essere considerato mutevole soltanto nelle loro reciproche relazioni. Qualsiasi cosa che turbi o confonda l'accertamento della variazione nelle proporzioni mediante una scala di misura generale determinata e immutabile, non potrà che agire in modo dannoso sul commercio. Il denaro è una scala di misura puramente ideale di parti uguali. Se taluno domanda che cosa debba essere l'unità di misura del valore di una parte, io rispondo con quest'altra domanda: che cos'è la grandezza normale di un grado, di un minuto, di un minuto secondo? Essi non ne hanno, ma non appena è determinata una parte, la natura di una scala vuole che segua in maniera proporzionata tutto il resto. Esempi di questo denaro ideale sono la moneta bancaria di Amsterdam o la moneta dell'Angola per la costa sudafricana." [52]

Lo Steuart si limita semplicemente all'apparizione del denaro nella circolazione come scala di misura dei prezzi e come moneta di conio. Se merci diverse sono elencate nel listino prezzi a 15 scellini, 20 scellini, 36 scellini, in realtà, per il raffronto delle loro grandezze di valore non mi interessa né il contenuto argenteo né la denominazione dello scellino. Le proporzioni numeriche di 15, 20, 36, ora dicono tutto, e il numero 1 è diventato l'unica unità di misura. Espressione puramente astratta di una proporzione è in genere soltanto la stessa proporzione numerica astratta. Per essere conseguente, lo Steuart doveva quindi lasciar andare non soltanto l'oro e l'argento, bensì anche i loro nomi di battesimo legali. Siccome egli non capisce la trasformazione della misura dei valori in scala di misura dei prezzi, egli crede naturalmente che la determinata quantità d'oro che serve da unità di misura, sia riferita come misura non ad altre quantità d'oro, bensì a valori come tali, poichè le merci, mediante la trasformazione dei loro valori di scambio in prezzi, appaiono come grandezze di una stessa denominazione, egli nega la qualità della misura che le rende uguali di denominazione, e siccome, in questo raffronto di quantità d'oro diverse, la grandezza della quantità d'oro adibita a unità di misura è convenzionale, egli nega che essa debba in genere essere fissata. Invece di chiamare grado la 360ª parte di un circolo, egli potrebbe chiamare grado la 180ª parte; in tal caso l'angolo retto verrebbe misurato da 45 gradi invece che da 90, e gli angoli acuti e ottusi in misura corrispondente. Ciò nondimeno la misura dell'angolo rimarrebbe sempre in primo luogo una figura matematica qualitativamente determinata, il circolo, e in secondo luogo una sezione del circolo quantitativamente determinata. Quanto agli esempi economici dello Steuart, questi si batte da sé con l'uno e non dimostra nulla con l'altro. Il denaro bancario di Amsterdam in realtà non era che una denominazione di conto per i doppioni spagnuoli i quali conservavano il loro pieno peso di grasso stando pigramente immagazzinati nelle volte della banca, mentre la laboriosa moneta corrente era dimagrita nel duro attrito con il mondo esterno. Ma quanto agli idealisti africani, dovremo abbandonarli al loro destino fino a che descrittori critici di viaggi non ci avranno dato dei particolari sul loro conto [53]. Denaro quasi-ideale, nel senso dello Steuart, potrebbe essere definito l'assegnato francese: "Proprietà nazionale, Assegnato di franchi 100". In questo caso, è vero, era specificato il valore d'uso che l'assegnato doveva rappresentare, cioè la proprietà fondiaria confiscata, ma la determinazione quantitativa dell'unità di misura era dimenticata, e il "franco" era quindi un termine senza senso. Infatti la quantità grande o piccola di terra che un franco d'assegnato rappresentava, dipendeva dal risultato dell'asta pubblica. In pratica però il franco-assegnato circolava come simbolo di valore pel denaro argenteo, e con questa scala di misura dell'argento si misurava quindi il suo deprezzamento.

L'epoca della sospensione dei pagamenti in contanti da parte della Banca d'Inghilterra fu appena appena più fertile di bollettini di guerra che di teorie sul denaro. Il deprezzamento delle banconote e l'aumento del prezzo di mercato dell'oro al di sopra del suo prezzo monetario ridestarono per alcuni difensori della Banca la dottrina della misura ideale del denaro. L'espressione classicamente confusa di questa opinione confusa la trovò Lord Castlereagh designando l'unità di misura del denaro come "a sense of value in reference to currency as compared with commodities" [*13]. Allorchè le circostanze, alcuni anni dopo la pace di Parigi, consentirono la ripresa dei pagamenti in contanti, si fece sentire in forma quasi identica quello stesso problema che Lowndes aveva sollevato sotto Guglielmo III. Un enorme debito dello Stato e una massa di debiti privati, di obbligazioni fisse, ecc. accumulati durante più di vent'anni, erano contratti in banconote deprezzate. Dovevano essere ripagati in banconote delle quali 4.672 sterline 10 scellini rappresentavano, non nominalmente, ma obiettivamente, 100 sterline di oro a 22 carati? Thomas Attwood, banchiere di Birmingham, entrò in scena come un Lowndes redivivo. Nominalmente i creditori dovevano riavere lo stesso numero di scellini di quelli nominalmente dati, ma se in base al vecchio conio si chiamava scellino all'incirca 1/78 d'oncia d'oro, ora doveva essere battezzato scellino, diciamo, l/90. I seguaci dell'Attwood sono noti come scuola di Birmingham dei "little shilling-men" [*14]. Il litigio sulla misura ideale del denaro, cominciato nel 1819, perdurava sempre ancora nel 1845 fra Sir Robert Peel e l'Attwood; la sapienza di quest'ultimo, in quanto si riferisce alla funzione del denaro come misura, è riassunta in modo esauriente nella seguente citazione: "Sir Robert Peel domanda nella sua polemica con la camera di commercio di Birmingham: che cosa rappresenterà il vostro biglietto da una sterlina? Che cosa è una sterlina?... Viceversa, che cosa si deve intendere allora per l'attuale unità di misura del valore?... 3 sterline 17 scellini 10 1/2 pence, significano un'oncia d'oro o il valore di questa? Se significano l'oncia stessa, perchè non chiamare le cose con il loro nome e non dire, invece di lira sterlina, scellino, penny, piuttosto oncia, penny-weight e gran? In tal caso torneremo al sistema del commercio di scambio diretto... Oppure significano il valore? Se un'oncia = 3 lire sterline 17 scellini 10 1/2 pence, perchè in epoche diverse valeva ora 5 lire sterline 4 scellini, ora 3 lire sterline 17 scellini 9 pence?... L'espressione lira sterlina (Lst.) si riferisce al valore, ma non al valore fissato in una invariabile frazione di peso d'oro. La lira sterlina è un'unità ideale... Il lavoro è la sostanza alla quale si riducono i costi di produzione, e il lavoro conferisce all'oro il suo valore relativo, come lo conferisce al ferro. Qualsiasi denominazione di conto si usi quindi per designare il lavoro giornaliero o settimanale di un uomo, questa denominazione esprimerà il valore della merce prodotta" [54].

Nelle ultime parole l'idea nebulosa della misura ideale del denaro si dilegua ed erompe il suo vero e proprio contenuto di pensiero. Le denominazioni di conto dell'oro, sterlina, scellino, ecc. devono essere denominazioni per determinate quantità di tempo di lavoro, poichè il tempo di lavoro è sostanza e misura immanente dei valori, quelle denominazioni raffigurerebbero reali proporzioni di valore. In altre parole, il tempo di lavoro è dichiarato vera unità di misura del denaro. Con questo abbandoniamo la scuola di Birmingham, ma osserveremo così di passaggio che la dottrina della misura ideale del denaro ebbe una nuova importanza nella polemica sulla convertibilità o inconvertibilità dei biglietti di banca. Se la carta ha la sua denominazione dall'oro o dall'argento, la convertibilità del biglietto di banca, ossia la possibilità di scambiarla con oro o argento, rimane legge economica, quale sia la legge giuridica. In tal modo un tallero-carta prussiano, benchè legalmente inconvertibile, sarebbe subito deprezzato qualora nei rapporti d'uso valesse meno di un tallero-argento e quindi fosse inconvertibile praticamente. I sostenitori coerenti della carta moneta inconvertibile si rifugiarono quindi in Inghilterra nella misura ideale del denaro. Se le denominazioni di conto del denaro, lira sterlina, scellino ecc., sono denominazioni di una determinata somma, sono atomi di valore dei quali una merce assorbe o cede nello scambio con altre merci ora una maggiore quantità ora una minore, un biglietto inglese da 5 sterline p. es. sarà indipendente dal suo rapporto con l'oro proprio come lo è dal rapporto con il ferro o il cotone. Siccome il suo titolo avrebbe cessato di equipararlo in teoria a una determinata quantità d'oro o di qualsiasi altra merce, l'esigenza della sua convertibilità, ossia della sua pratica equiparazione a una determinata quantità di una cosa specificata, sarebbe esclusa dal suo stesso concetto.

La dottrina del tempo di lavoro quale unità di misura diretta del denaro è stata svolta sistematicamente per la prima volta da John Gray [55]. Questi fa accertare da una banca centrale nazionale, per mezzo delle sue banche filiali, il tempo di lavoro consumato nella produzione delle diverse merci. In cambio della merce il produttore riceve un certificato ufficiale del valore, ossia una quietanza per la quantità di tempo di lavoro che è contenuta nella sua merce [56], e questi biglietti di banca da 1 settimana lavorativa, da 1 giornata lavorativa, da 1 ora lavorativa, ecc. servono allo stesso tempo come biglietto di credito per un equivalente in tutte le altre merci immagazzinate nei recinti della banca [57]. Questo è il principio fondamentale, elaborato accuratamente nei particolari e sempre appoggiato a istituzioni inglesi esistenti. Con questo sistema, dice il Gray, "sarebbe in tutti i tempi reso facile vendere per denaro come è facile ora comprare con denaro; la produzione sarebbe la fonte uniforme, mai esaurentesi, della domanda" [58]. I metalli nobili perderebbero il loro "privilegio" nei confronti di altre merci e "verrebbero a occupare il posto spettante loro sul mercato accanto al burro, alle uova, al panno e al cotone, e il loro valore non ci interesserebbe più di quello dei diamanti" [59]. "Dovremmo immaginare la nostra misura immaginaria dei valori, l'oro, e incatenare in tal modo le forze produttive del paese, oppure dovremmo avvicinarci alla misura naturale dei valori, al lavoro, e lasciare libero giuoco alle forze produttive del paese?" [60]

Siccome il tempo di lavoro è la misura immanente dei valori, perchè avere accanto ad esso un'altra misura esterna? Perchè il valore di scambio diviene prezzo? Perchè tutte le merci stimano il proprio valore in una merce esclusiva, che in tal modo viene trasformata nell'esistenza adeguata del valore di scambio, in denaro? Questo era il problema che il Gray doveva risolvere. Invece di risolverlo, egli si immaginava che le merci potessero riferirsi l'una all'altra direttamente in quanto prodotti del lavoro sociale. Ma le merci si possono riferire l'una all'altra solo in quanto sono quello che sono. Le merci sono in modo immediato prodotti di singoli lavori privati indipendenti, i quali mediante la propria alienazione nel processo dello scambio privato, devono confermarsi come lavoro sociale generale, ovvero il lavoro sulla base della produzione mercantile diventa lavoro sociale soltanto attraverso la generale alienazione dei lavori individuali. Ma se il Gray presuppone il tempo di lavoro contenuto nelle merci come tempo di lavoro immediatamente sociale, egli lo presuppone come tempo di lavoro comune ossia come tempo di lavoro di individui direttamente associati. Così, infatti, una merce specifica come l'oro e l'argento, non potrebbe contrapporsi alle altre merci come incarnazione del lavoro generale, il valore di scambio non diventerebbe prezzo, ma non diventerebbe neanche valore di scambio il valore d'uso, il prodotto non diventerebbe merce, e in tal modo sarebbe eliminata la base della produzione borghese. Ma non è affatto questa l'opinione del Gray. I prodotti dovrebbero essere prodotti come merci, ma non scambiati come merci. Il Gray incarica dell'esecuzione di questo pio desiderio una banca nazionale. Da un lato la società, nella forma di banca, rende i singoli individui indipendenti dalle condizioni dello scambio privato, e dall'altro fa che essi continuino a produrre sulla base dello scambio privato. La coerenza interna spinge tuttavia il Gray a negare una dopo l'altra le condizioni della produzione borghese, sebbene egli intenda "riformare" solo il denaro derivante dallo scambio delle merci. Così egli trasforma il capitale in capitale nazionale [61], la proprietà fondiaria in proprietà nazionale [62], e guardando la sua banca un po' più, da vicino, si trova non soltanto che con una mano riceve merci e con l'altra distribuisce i certificati del lavoro consegnato, bensì che essa regola la produzione stessa. Nel suo ultimo scritto Lectures on Money nel quale cerca timorosamente di presentare il suo denaro-lavoro come riforma puramente borghese, il Gray si confonde in assurdità ancora più stridenti.

Ogni merce è direttamente denaro. Questa era la teoria del Gray, derivata dalla sua analisi della merce incompleta e quindi errata. La costruzione "organica" del "denaro-lavoro" e della "banca nazionale" e dei "magazzini di merci" è solo una chimera in cui il dogma è fatto apparire come legge dominante il mondo. Il dogma che la merce è direttamente denaro e che il lavoro particolare dell'individuo privato in essa contenuto è direttamente lavoro sociale, non diventa vero naturalmente pel fatto che una banca vi creda e operi in base ad esso. Il fallimento si assumerebbe in tal caso piuttosto la parte della critica pratica. Quello che nel Gray rimane celato e rimane in particolare un segreto per lo stesso Gray, ossia che il denaro-lavoro è una frase dal suono economico per il pio desiderio di liberarsi del denaro, insieme con il denaro del valore di scambio, insieme con il valore di scambio della merce, e insieme con la merce della forma borghese della produzione, è detto a chiare parole da alcuni socialisti inglesi i quali hanno scritto in parte prima del Gray in parte dopo [63]. Ma rimase privilegio del signor Proudhon e della sua scuola di predicare seriamente come nocciolo del socialismo la degradazione del denaro e l'ascensione in cielo della merce e di ridurre in tal modo il socialismo a un elementare malinteso circa il necessario nesso fra merce e denaro [64].

 

Note

38. Aristotele vede, è vero, che il valore di scambio delle merci è presupposto ai prezzi delle merci: "Che... vi fosse lo scambio prima che esistesse il denaro, è cosa evidente; infatti non fa alcuna differenza che cinque giacigli valgano una casa o tanto denaro quanto ne valgano cinque giacigli". D'altra parte, siccome le merci posseggono l'una per l'altra la forma del valore di scambio soltanto nel prezzo, egli le fa diventare commensurabili mediante il denaro. "Tutto deve avere un prezzo; poichè in tal modo vi saranno sempre scambi e di conseguenza vi sarà sempre una società. Il denaro, pari ad una misura, rende di fatto commensurabili (suametra) le cose per equipararle poi reciprocamente, poichè non vi è società senza scambio, ma lo scambio non può esservi senza parità e la parità non può esservi senza commensurabilità." Egli non si nasconde che queste cose differenti misurate dal denaro siano grandezze assolutamente incommensurabili. Quello che egli cerca è l'unità delle merci in quanto valori di scambio, la quale egli da greco antico non poteva trovare. Si toglie dall'imbarazzo facendo diventar commensurabile mediante il denaro quello che di per sé è incommensurabile, nella misura necessaria per i bisogni pratici. "E' bensì impossibile in verità che cose così differenti siano commensurabili, ma per il bisogno pratico questo avviene" (Aristotele, Ethica Nicomachea, libro V, cap. 8, ed. Bekkeri, Oxonii, 1837. [Opera, vol. IX, p. 99 sgg.]).

39. Lo strano fatto che l'oncia d'oro, in Inghilterra, come unità di misura del denaro non sia suddivisa in parti aliquote, si spiega nel modo seguente: "La nostra monetazione in origine era adattata solo all'uso dell'argento, perciò un'oncia d'argento può sempre essere suddivisa in un numero corrispondente di monete; ma siccome l'oro fu introdotto solo più tardi nel sistema monetario adattato al solo argento, un'oncia d'oro non può essere coniata in un numeno corrispondente di monete" (Maclaren, History of the Currency, Londra, 1858, p. 16).

40. "Il denaro può oscillare costantemente nel valore eppure essere una misura del valore altrettanto bene che se rimanesse invariato in pieno. Poniamo p. es. sia diminuito di valore. Prima della diminuzione una ghinea avrebbe comprato tre bushels di grano ossia il lavoro di 6 giorni; in seguito comprerebbe soltanto due bushels di grano ossia il lavoro di 4 giorni. In entrambi i casi, date le proporzioni fra grano e lavoro, e denaro dall'altra parte, potrà essere dedotta la loro proporzione reciproca; in altri termini, potremo venir a sapere che un bushel di grano vale due giornate lavorative. Questo è tutto quello che è implicito nella misurazione dei valori e sarà fatto, dopo una diminuzione, in modo liscio come prima. La distinzione di una cosa come misura di valore è del tutto indipendente dalla variabilità del suo valore" (Bailey, Money and its Vicissitudes, Londra, 1837, pp. 9, 10).

41. "Le monete le quali oggi sono ideali sono le più antiche d'ogni nazione, e tutte furono un tempo reali" (quest'ultima cosa è inesatta in questa estensione), "e perchè erano reali con esse si contava" (Galiani, Della Moneta, cit., p. 153).

42. Il romantico A. Müller dice: "Secondo le nostre idee ogni sovrano indipendente ha il diritto di denominare il denaro metallico, di attribuirgli un valore nominale, rango, categoria e titolo sociali" (A. Müller, Die Elemente der Staatskunst, Berlino, 1809, vol. II, p. 288). Quanto al titolo, il signor consigliere aulico ha ragione; egli si dimentica però del contenuto. Quanto fossero confuse le sue "idee", risulta p. es. dal seguente passo: "Ognuno capisce quanto sia importante la vera determinazione del monetaggio, specialmente in un paese come l'Inghilterra dove il governo con grandiosa liberalità conia gratuitamente (il signor Müller sembra credere che il personale di governo inglese provveda di tasca propria privata alle spese di monetazione), dove non riscuote alcun monetaggio, ecc., e quindi se il governo fissasse il prezzo monetario dell'oro sensibilmente più alto del prezzo di mercato, se invece di pagare ora un'oncia d'oro con 3 lire sterline 17 scellini 10 1/2 pence, fissasse come prezzo monetario di un'oncia d'oro 3 sterline 19 scellini, tutto il denaro affluirebbe alla zecca, l'argento ricevutovi verrebbe cambiato sul mercato con l'oro che vi si trova a minor prezzo, e in tal modo di nuovo portato alla zecca, e tutto il sistema monetario verrebbe gettato nel disordine" (pp. 280, 281, ivi). Per mantenere l'ordine alla zecca inglese, il Müller si getta nel "disordine". Mentre lo scellino e i pence sono semplicemente dei nomi, denominazioni di determinate parti di un'oncia d'oro, rappresentate da marche di argento e di rame, egli si immagina che l'oncia d'oro sia stimata in oro, argento e rame, facendo agli inglesi omaggio di un triplice standard of value [trimetallismo]. Certo l'argento come misura di denaro accanto all'oro fu abolito formalmente soltanto nell'anno 1816 da 56 Giorgio III, c. 68 [la 68ª legge del 56º anno di regno di Giorgio III]. Legalmente era di fatto già abolito. Due furono le circostanze che in modo particolare resero A. Müller capace di una cosiddetta concezione superiore dell'economia politica. Da un lato la sua diffusa ignoranza dei fatti economici, dall'altro il suo rapporto esaltato, puramente dilettantesco, con la filosofia.

43. "Quando chiesero ad Anacarsi a che scopo gli elleni avessero bisogno del denaro, egli rispose: "per contare"" (Athenaeus, Deipnosophistai, libro IV, 49, vol. II, p. 120, ed. Schweighäuser, 1802).

44. G. Garnier, uno dei vecchi traduttori francesi di Adam Smith, ebbe la curiosa trovata di fissare una proporzione fra l'uso di denaro di conto e l'uso di denaro reale. La proporzione è di 10 a l (Garnier G., Histoire de la monnaie depuis les temps de la plus haute antiquité ecc., vol. I, p. 78).

45. L'Atto del Maryland del 1723, in virtù del quale il tabacco fu fatto moneta legale, ma il suo valore fu ridotto al denaro-oro inglese, ossia un penny per libbra di tabacco, ricorda le leges barbarorum nelle quali, viceversa, determinate somme di denaro sono equiparate a buoi, vacche, ecc. In questo caso il materiale reale del denaro di conto non erano né oro né argento, bensì il bue e la vacca.

46. Così leggiamo per esempio nei Familiar words del signor David Urquhart: "Il valore dell'oro deve essere misurato in se stesso; come può una materia qualsiasi essere la misura del proprio valore in altre cose? Il valore dell'oro deve essere constatato mediante il suo peso, con una denominazione falsa di questo peso, e un'oncia dovrà valere tante sterline e frazioni di sterline. Questa è falsificazione di una misura e non è stabilire un livello di misura" [Londra, 1856, pp. 104-105 sgg.].

47. "Il denaro, come misura del commercio, dovrebbe essere mantenuto il più possibile costante. Questo è impossibile se il vostro denaro consiste di due metalli, il cui rapporto di valore varia costantemente" (John Locke, Some Considerations on the Lowering of Interest ecc., 1691, p. 65 nei suoi Works, 7ª ed., Londra 1768, vol. II).

48. Locke dice fra l'altro: "Chiamate corona quello che prima si chiamava mezza corona, il valore rimane determinato dal contenuto metallico. Se voi potete tosare una moneta di 1/20 del peso d'argento, senza diminuirne il valore, potrete altrettanto bene tosarla di 19/20 del suo peso d'argento. In base a questa teoria un farthing, se chiamato corona. dovrebbe comprare la stessa quantità di spezie, sete o altre merci che compera una moneta da una corona la quale contiene una quantità d'argento 60 volte maggiore. Tutto quello che potete fare è di dare a una quantità inferiore d'argento l'impronta e la denominazione di una quantità superiore. Ma è l'argento che paga i debiti e compera le merci, non sono le denominazioni. Se un rialzo del valore monetario non significa altro che denominare a piacere le parti aliquote di una moneta d'argento, p. es. denominare penny l'ottava parte di un'oncia di argento, voi potrete di fatto fissare il denaro all'altezza che vorrete". Locke risponde al contempo al Lowndes che l'aumento del prezzo di mercato al di sopra del prezzo monetario non proviene dall'"aumento del valore dell'argento, bensì dalla perdita di peso della moneta d'argento". 77 scellini ben tosati non peserebbero più di 62 scellini a peso pieno. Infine mise in rilievo a ragione che, astraendo dalla perdita d'argento subita dalla moneta circolante, il prezzo di mercato dell'argento grezzo in Inghilterra può salire in una certa misura al di sopra del prezzo monetario perchè l'esportazione dell'argento grezzo è permessa e quella della moneta d'argento è vietata. Vedi Some Considerations, cit., pp. 54-116 passim). Locke si guardò molto bene dal toccare la bruciante questione dei debiti di Stato, come evitò con ogni cautela di entrare nel delicato problema economico. Quest'ultimo era il seguente: il corso dei cambi, come anche il rapporto fra argento grezzo e moneta d'argento, dimostrarono che il denaro circolante non era affatto deprezzato in proporzione della sua reale perdita d'argento. Ritorneremo sulla questione in forma generale nel capitolo sul mezzo di circolazione. Nicholas Barbon in A Discourse Concerning Coining the new money ligther, in answer to Mr. Locke's Considerations ecc., Londra, 1696, tentò, invano di attirare Locke su di un terreno difficile.

49. Steuart, An Inquiry into the Principles of Political Economy, cit., vol. II, p. 154.

50. The Querist [Londra, 1750, pp. 3, 4] I Queries on Money [Quesiti riguardanti il denaro] sono del resto spiritosi. Fra l'altro il Berkeley osserva a ragione che proprio lo sviluppo delle colonie dell'America del Nord "rende chiaro come la luce del sole il fatto che oro e argento non sono così necessari per la ricchezza di una nazione come se lo immagina la plebe di tutti i ceti".

51. Prezzo significa qui equivalente reale, come presso gli scrittori di economia inglesi del secolo XVII.

52. Steuart, An Inquiry into the Principles of Political Economy, cit., vol. II, pp. 102-107.

53. In occasione della più recente crisi commerciale fu elogiato enfaticamente in Inghilterra da una certa parte il denaro ideale africano, dopochè la sua sede quella volta dalle coste si fu spostata nel cuore della Berberia. Dalla unità di misura ideale dei loro bar si dedusse il fatto che i berberi fossero esenti da crisi commerciali e industriali. Non sarebbe stato più semplice dire che commercio e industria sono la conditio sine qua non di crisi commerciali e industriali?

*13. Un senso di valore in riferimento al circolante raffrontato alle merci.

*14. Uomini dello scellino piccolo.

54. The Currency Question, the Gemini Letters, Londra, 1844, pp. 266-272. passim.

55. John Gray, The Social System. A Treatise on the Principle of Exchange, Edimburgo, 1831. Cfr. di questo stesso scrittore: Lectures on the Nature and Use of Money, Edimburgo, 1848. Dopo la rivoluzione di febbraio il Gray inviò un memoriale al governo provvisorio francese in cui gli spiegava che la Francia non aveva bisogno di una "organisation of labour", bensì di una "organisation of exchange" il cui piano si trovava elaborato in tutti i particolari nel sistema monetario da lui escogitato. Il bravo John non aveva alcun presentimento che sedici anni dopo la pubblicazione del Social System sarebbe stato richiesto un brevetto per la medesima scoperta dall'ingegno inventivo di Proudhon.

56. John Gray, The Social System, cit., p. 63: "Il denaro dovrebbe essere semplicemente una ricevuta, una prova del fatto che il suo possessore abbia contribuito con un determinato valore alla ricchezza nazionale esistente (to the national stock of wealth). oppure abbia ottenuto dei diritti su detto valore da una qualsiasi persona abbia contribuito con esso".

57. "Si faccia depositare in una banca un prodotto che prima ottenga un valore di stima e lo si faccia ritirare in qualunque momento occorra; basterà semplicemente che per accordo generale venga stabilito che colui il quale deposita nella banca nazionale progettata una qualsiasi specie di proprietà, possa ritirarne un valore eguale in qualunque cosa la banca contenga, invece di essere costretto a toglierne la cosa medesima che vi aveva depositata" (John Gray, The Social System, cit., pp. 67-68).

58. Ivi, p. 16.

59. John Gray, Lectures on Money, cit., p. 182.

60. Ivi, p. 169.

61. "Gli affari di ogni paese dovrebbero essere condotti sulla base di un capitale nazionale" (John Gray, The Social System, cit., p. 171).

62. "La terra deve essere trasformata in proprietà nazionale" (ivi, p. 298).

63. Vedi per esempio, W. Thompson, An Inquiry into the Distribution of Wealth ecc., Londra, 1824. Bray, Labour's Wrongs and Labour's Remedy, Leeds, 1839.

64. Compendio di questa teoria melodrammatica del denaro potrà essere considerato Alfred Darimon, De la réforme des banques, Parigi, 1856.

 


Ultima modifica 30.9.2002