Anti-Dühring

Prima Sezione: Filosofia

 

IX. Morale e diritto. Verità eterne

 

 

Ci asterremo dal dare piccoli saggi del guazzabuglio di insulsaggini e di oracoleggiamenti, in breve delle semplici corbellerie che Dühring per intere cinquanta pagine propina ai suoi lettori, come scienza che va alle radici, sugli elementi della coscienza. Citeremo solo questo: "Chi è capace di pensare solo con l'aiuto del linguaggio, ancora non ha mai appreso cosa significhi un pensiero astratto e puro". Su questa base gli animali sono i pensatori più astratti e puri perché il loro pensiero non è mai turbato dall'intrusione indiscreta del linguaggio. A dire il vero, nei pensieri dühringiani e nel linguaggio che li esprime si può vedere quanto poco questi pensieri siano fatti per una qualsiasi lingua e quanto poco la lingua tedesca sia fatta per questi pensieri.

Alla fine ci salva la quarta sezione che, a prescindere dalla solita molle retorica, almeno qua e là ci offre qualche cosa di comprensibile sulla morale e il diritto. Questa volta, siamo invitati proprio sul principio ad un viaggio sugli altri corpi celesti: gli elementi della morale si debbono

"concordamente (...) ritrovare in tutti gli esseri sovrumani nei quali un intelletto attivo deve occuparsi di ordinare consapevolmente gli elementi istintivi della vita (...) Eppure la nostra partecipazione a tali deduzioni resterà scarsa (...) Ma, a prescindere da ciò, resta sempre un'idea che allarga beneficamente il nostro orizzonte, l'immaginarci che su altri corpi celesti la vita individuale e comune debba partire da uno schema che (...) non può né evitare né sopprimere il fatto fondamentale e generale del costituirsi di un essere che agisce secondo ragione".

Se la validità delle verità duhringiane anche per tutti gli altri mondi possibili, in via eccezionale, è messa qui in cima anziché alla fine del capitolo che ne tratta, questo fatto ha la sua ragione sufficiente. Se si è assodata per la prima volta la validità delle idee dühringiane sulla morale e la giustizia per tutti i mondi, tanto più facilmente la validità di queste idee si potrà estendere beneficamente a tutti i tempi. Ma ancora una volta qui non si tratta di qualcosa meno importante di una verità definitiva di ultima istanza. Il mondo morale ha "come quello del sapere in generale (...) i suoi principi stabili e i suoi elementi semplici", i principi morali stanno

"al di sopra della storia e delle odierne differenze dei caratteri dei popoli (...) Le verità particolari che nel corso dello sviluppo compongono la consapevolezza morale più completa e, per così dire, la coscienza, possono, nella misura in cui le si conoscono fin nei loro ultimi fondamenti, pretendere una validità ed una portata analoga alle conoscenze e alle applicazioni della matematica. Le verità pure in generale sono immutabili (...) cosicché in generale è una sciocchezza supporre che l'esattezza della conoscenza possa essere attaccata dal tempo e dalle alterazioni reali".

Perciò la certezza di un sapere rigoroso e la sufficienza della più comune conoscenza non ci fanno arrivare, se siamo in uno stato di riflessione, a dubitare dell'assoluta validità dei principi scientifici.

"Già lo stesso dubbio permanente è uno stato di debolezza morbosa e non altro che l'espressione di un'assoluta confusione che talvolta cerca, nella consapevolezza sistematica della propria nullità, l'apparenza di un certo carattere. Nelle questioni etiche la negazione dei principi generali si aggrappa alle verità geografiche e storiche dei costumi e dei principi, e si concede al dubbio che ciò che è eticamente malvagio e cattivo è inevitabilmente necessario, più che mai essa crede di essersi sbarazzata del riconoscimento del serio valore e della effettiva efficienza di impulsi morali concordanti. Questa scepsi corrosiva che si svolge non già contro singole dottrine false, ma contro la stessa capacità umana di una moralità cosciente, sbocca finalmente in un vero nulla, anzi propriamente in un qualche cosa che è peggio del puro e semplice nichilismo (...) Essa si illude di dominare a buon mercato nel suo caos confuso di idee morali disarticolate e di poter spalancare tutte le porte al capriccio privo di principi. Ma si inganna fortemente: infatti il semplice richiamo alle inevitabili vicende dell'intelletto nell'errore e nella verità, è sufficiente per far riconoscere già con questa sola analogia che la fallibilità, conforme alle leggi naturali, non esclude di necessità il raggiungimento di ciò che è giusto."

abbiamo sinora tranquillamente accettato tutte queste frasi pompose di Dühring riguardanti verità definitive di ultima istanza, sovranità del pensiero, assoluta certezza del conoscere, ecc., perché la cosa poteva essere decisa solamente al punto a cui ora siamo arrivati. Sinora è stato sufficiente indagare sino a che punto le singole affermazioni della filosofia della realtà avessero "valore sovrano" e "diritto incondizionato alla verità"; qui ci troviamo di fronte alla questione di sapere se e quali prodotti dell'umano conoscere possano avere in generale valore sovrano e diritto incondizionato alla verità. Se dico: dell'umano conoscere, lo dico non con qualche intenzione offensiva verso gli abitanti di altri corpi celesti, che non ho l'onore di conoscere, ma solo perché anche gli animali conoscono, ma in un modo che non è affatto sovrano. Il cane riconosce nel suo padrone il suo dio, per quanto questo signore possa essere il più gran mascalzone.

Il pensiero umano è sovrano? Prima di rispondere con un si o con un no, dobbiamo indagare che cosa è il pensiero umano. È il pensiero di un uomo singolo? No. Ma esiste solo come il pensiero singolo di molti miliardi di uomini passati, presenti e futuri. Se ora dico che questo pensiero di tutti questi uomini, compresi i futuri, sintetizzato nella mia rappresentazione, è sovrano, è in condizione di conoscere il mondo quale è, purché l'umanità continui ad esistere abbastanza a lungo ed in quanto non siano posti limiti a questo conoscere negli organi e negli oggetti della conoscenza, dico qualche cosa che è discretamente banale e molto discretamente inutile. Infatti il risultato più valido dovrebbe essere quello di renderci estremamente diffidenti verso ciò che attualmente conosciamo, perché invero con ogni probabilità noi siamo pressappoco all'inizio della storia dell'umanità, e le generazioni che ci correggeranno saranno probabilmente molto più numerose di quelle la cui conoscenza noi -assai spesso con troppo disprezzo- siamo in condizione di correggere.

Dühring stesso dichiara essere una necessità che la coscienza, e quindi anche il pensare e il conoscere, non si possano manifestare se non in una serie di esseri individuali. Noi possiamo attribuire sovranità al pensiero di ciascuno di questi individui, solo in quanto non conosciamo nessun potere che sia capace di imporgli con la forza un qualunque pensiero quando è sano e sveglio. Per quel che concerne il valore sovrano delle conoscenze di ogni pensiero individuale, noi tutti sappiamo che non se ne può parlare affatto e che, per quanto ne sappiamo sinora, esse, senza eccezioni, recano sempre in sé un numero maggiore di elementi suscettibili di correzione piuttosto che di elementi non suscettibili di correzione o giusti.

In altre parole: la sovranità del pensiero si realizza in una serie di uomini che pensano in un modo assolutamente privo di sovranità; la conoscenza che ha incondizionata pretesa di verità, si realizza in una serie di relativi errori; né l'uno né l'altra possono realizzarsi altrimenti che mediante una durata infinita della vita dell'umanità.

Abbiamo qui la stessa contraddizione che si aveva già sopra, tra il carattere, rappresentato necessariamente come assoluto, del pensiero umano ed il suo realizzarsi in singoli individui il cui pensiero è limitato, contraddizione che può risolversi solo nel progredire infinito, nella successione delle generazioni umane che, almeno per noi, è praticamente infinita. In questo senso il pensiero umano è, nella stessa misura, sovrano e non sovrano e la sua capacità conoscitiva è, nella stessa misura, limitata e illimitata. Sovrano e illimitato per la sua disposizione, la sua vocazione, la sua possibilità, la sua meta finale nella storia; non sovrano e limitato nella sua espressione singola e nella sua realtà di ogni momento.

Lo stesso si ha per le verità eterne. Se mai l'umanità arrivasse al punto di non operare che su verità eterne, su risultati del pensiero che posseggano il valore sovrano e l'incondizionata pretesa di verità, essa sarebbe pervenuta a quel punto in cui l'infinità del mondo intellettivo sarebbe esaurita tanto in atto che in potenza, e sarebbe compiuto il celeberrimo miracolo dell'innumere numerato.

Ma ci sono, ora, verità così saldamente stabilite che ogni dubbio su esse appaia sinonimo di follia? Due volte due fanno quattro, i tre angoli di un triangolo sono equivalenti a due retti, Parigi è in Francia, un uomo senza cibo muore di fame, ecc.? ci sono quindi verità eterne, verità definitive di ultima istanza?

Certamente. Noi possiamo, alla vecchia e nota maniera, dividere tutto il dominio del conoscere in tre grandi sezioni. La prima comprende tutte le scienze che si occupano della natura non vivente e sono più o meno suscettibili di una trattazione matematica: matematica, astronomia, meccanica, fisica, chimica. Se qualcuno trova gusto ad applicare grandi parole a cose molto semplici, si può dire che certi risultati di queste scienze sono verità eterne, verità definitive di ultima istanza; e per tale ragione queste scienze si sono chiamate anche esatte: ma non per questo tutti i risultati. Con l'introduzione delle grandezze variabili e con l'estensione della loro variabilità fino all'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande, la matematica, altre volte tanto austera, ha commesso il suo peccato originale; ha mangiato il pomo della conoscenza che le ha aperto la carriera dei successi più giganteschi, ma anche quella degli errori. Lo stato verginale dell'assoluta validità e dell'irrefutabile dimostrabilità di tutto ciò che è matematico se ne è andato per sempre; ha fatto irruzione il regno delle controversie e siamo arrivati al punto che la maggior parte della gente fa calcoli differenziali e integrali, non perché intenda ciò che fa, ma per pura fede, poiché sinora questo è sempre riuscito bene. Con l'astronomia e la meccanica le cose vanno ancora peggio, nella fisica e nella chimica ci troviamo in mezzo alle ipotesi come in mezzo ad uno sciame di api. E non è possibile che la cosa sia diversa. Nella fisica abbiamo a che fare con il movimento di molecole, nella chimica con la formazione di molecole da atomi, e se l'interferenza delle onde luminose non è una favola, noi non abbiamo nessuna prospettiva di veder mai queste cose interessanti con i nostri occhi. Col tempo le verità definitive di ultima istanza diventano in questo campo stranamente rare.

Ancora peggio siamo nella geologia che, per sua natura, si occupa principalmente di processi ai quali non solo noi, ma in generale nessun uomo ha mai assistito. Il bottino di verità eterne di ultima istanza comporta perciò in questo campo grandissima fatica e per giunta è straordinariamente scarso.

La seconda classe di scienze è quella che abbraccia l'indagine sugli organismi viventi. In questo campo si sviluppa una tale varietà di relazioni reciproche e di causalità che non solo ogni questione risolta suscita un numero infinito di questioni nuove, ma anche ogni nuova questione può essere risolta per lo più solo parzialmente per via di una serie di indagini che spesso esigono secoli; e così il bisogno di una concezione sistematica dei nessi costringe sempre di nuovo a circondare le verità definitive di ultima istanza di una fitta siepe di ipotesi. Che lunga serie di intermediari è stata necessaria da Galeno a Malpighi per dimostrare una cosa così semplice come la circolazione del sangue nei mammiferi, quanto poco sappiamo della genesi dei globuli rossi e quanti anelli intermedi ci mancano oggi per stabilire, per es., un nesso razionale tra i fenomeni di una malattia e le sue cause! Inoltre avvengono abbastanza spesso scoperte, come quella della cellula, che ci costringono a sottoporre ad una revisione totale tutte le verità definitive di ultima istanza sin qui stabilite nel campo della biologia, e ad eliminarne una volta per sempre delle intere cataste. Quindi chi voglia qui stabilire verità realmente pure ed immutabili, dovrà accontentarsi di banalità come: tutti gli uomini devono morire, tutte le femmine di mammiferi hanno mammelle ecc.; costui non potrà dire neppure che gli animali superiori digeriscono con lo stomaco e l'intestino e non con la testa, poiché l'attività nervosa che ha il suo centro nella testa è indispensabile per la digestione.

Ma per le verità eterne va ancora peggio nel terzo gruppo di scienze, le scienze storiche, che indagano le condizioni di vita degli uomini, i rapporti sociali, le forme giuridiche e statali con le loro sovrastrutture ideali di filosofia, religione, arte, ecc., nella loro successione storica e nei loro risultati attuali. Nella natura organica almeno si ha da fare ancora con una serie di fenomeni che, per quanto concerne la nostra osservazione diretta, entro limiti molto vasti, si ripetono con discreta regolarità. Le specie degli organismi dal tempo di Aristotele sono rimaste pressappoco le stesse. Nella storia della società, invece, appena oltrepassiamo lo stato primitivo dell'umanità, l'età della pietra, le ripetizioni delle condizioni sono l'eccezione e non la regola; e laddove tali ripetizioni si presentano, esse non accadono mai precisamente nelle medesime circostanze. Così per es. accade per il fenomeno dell'originaria proprietà comune del suolo presso tutti i popoli civili e per la forma della sua dissoluzione. La nostra scienza è perciò nel campo della storia umana di gran lunga più indietro che nel campo della biologia. Ma c'è di più: se una volta, in via eccezionale, si riconosce il legame intimo tra forme di esistenza sociali e forma di esistenza politiche di un periodo storico, questo di regola succede allorché queste forme hanno già fatto in parte il loro tempo e vanno incontro alla decadenza. La conoscenza, quindi, è qui essenzialmente relativa perché essa si limita a penetrare il nesso e la successione di certe forme di società e di Stato che vigono solo per una dato tempo e per dati popoli e che per loro dunque transuenti. Chi dunque in questo campo dà la caccia a verità definitive di ultima istanza, a verità pure e in generale immutabili, poco porterà a casa, tranne banalità e luoghi comuni della peggior specie, per es. che gli uomini in generale non possono vivere senza lavorare, che sinora essi si sono per lo più divisi in dominatori e dominanti, che Napoleone morì il 5 maggio 1821, ecc.

Ora, è curioso il fatto che proprio questo campo è quello in cui più spesso ci imbattiamo nelle pretese verità eterne, nelle verità definitive di ultima istanza e così via. Che due volte due fanno quattro, che gli uccelli hanno un becco o cose simili, sono dichiarate verità eterne solo da chi mira ad arguire, dall'esistenza di verità eterne, che anche nel campo della storia umana ci sono verità eterne, una morale eterna, una giustizia eterna e così via, che esigono una validità e una portata analoga a quella delle conoscenze e delle applicazioni della matematica. E allora possiamo aspettarci senz'altro che, alla prima occasione, questo stesso filantropo ci dichiarerà che tutti i precedenti fabbricanti di verità eterne, sono stati più o meno degli asini e dei ciarlatani, che tutti quanti sono caduti in errore ed hanno sbagliato; ma che il fatto del loro errore e della loro fallibilità è conforme alle leggi di natura e prova che in lui esistono la verità e il giusto e che egli, il profeta che ora è sorto, porta in tasca bella e pronta la verità definitiva di ultima istanza, la morale eterna, la giustizia eterna. Tutto questo è accaduto cento e mille volte, tanto che ci si deve stupire solo che esistano ancora uomini abbastanza creduloni da credere tutto questo non di altri, no, ma di se stessi. Eppure abbiamo qui davanti a noi almeno un altro di siffatti profeti che, infatti, cade anche lui, come al solito, in un profondo sdegno morale se altri negano che qualche individuo sia in grado di fornirci la verità definitiva di ultima istanza. Una tale negazione, anzi il semplice dubbio, è uno stato di debolezza, è confusione assoluta, nullità, scepsi corrosiva, peggiore del semplice nichilismo, confusione caotica e altre categorie del genere. Come in tutti i profeti, non si indaga e non si giudica in modo criticamente scientifico, ma senz'altro si condanna in nome della morale.

Avremmo potuto menzionare sopra anche le scienze che indagano le leggi del pensiero umano, cioè la logica e la dialettica. Ma qui per le verità eterne le cose non vanno meglio. La dialettica propriamente detta, Dühring la dichiara un puro assurdo, e i molti libri che si sono scritti e ancora si scrivono sulla logica, dimostrano a sufficienza che anche in questo campo le verità definitive di ultima istanza sono molto più rare di quanto più d'uno non creda.

Del resto noi non abbiamo nessun motivo di spaventarci del fatto che il livello di conoscenza al quale noi oggi siamo, sia tanto poco definitivo quanto lo sono stati tutti i precedenti. Questo livello abbraccia già un materiale enorme di conoscenze ed esige una specializzazione molto grande degli studi da parte di chi voglia familiarizzarsi in qualche specialità. Chi invece misura col metro di verità pure, immutabili, di ultima istanza, conoscenze che, per la natura delle cose, restano relative per lunghe serie di generazioni e debbono essere portate a compimento passo a passo, o conoscenze tali che, come nella cosmogonia, nella geologia, nella storia umana, già per la deficienza del materiale storico, rimarranno sempre lacunose e incomplete, costui dimostra in ciò solo la sua ignoranza e la sua confusione, se anche, come avviene qui, lo sfondo vero e proprio non sia costituito dalla pretesa all'infallibilità personale. Verità ed errore, come tutte le determinazioni del pensiero che si muovono su un piano di opposizioni antitetiche, hanno validità assoluta solo in campo estremamente limitato; cosa questa che abbiamo appunto già veduto e che anche Dühring dovrebbe sapere, se avesse una qualche familiarità coi primi elementi della dialettica che trattano precisamente dell'insufficienza di tutte le opposizioni antitetiche. Non appena applichiamo l'antitesi verità-errore al di fuori di questo ristretto campo che abbiamo indicato sopra, essa diventa relativa e conseguentemente inutilizzabile per l'esatta maniera di esprimersi della scienza; e se poi cerchiamo di applicarla come assolutamente valida al di fuori di quel campo, più che mai andiamo incontro al fallimento; i due termini dell'antitesi si cambiano rispettivamente nel loro contrario, la verità diventa errore e l'errore verità. Prendiamo come esempio la nota legge di Boyle, secondo la quale a temperatura costante il volume dei gas varia in misura inversamente proporzionale alla pressione a cui sono sottoposti. Ragnault trovò che questa legge in certi casi non è giusta. Se fosse stato un filosofo della realtà si sarebbe sentito in dovere di dire: la legge di Boyle è soggetta a mutabilità, quindi non è una verità pura, quindi in generale non è verità e dunque è un errore. Ma così avrebbe commesso un errore molto più grande di quello contenuto nella legge di Boyle; nel mucchio di sabbia dell'errore il suo granellino di verità sarebbe svanito; egli avrebbe quindi trasformato il suo risultato originariamente giusto in un errore di fronte al quale la legge di Boyle con quel po' di errore che vi è inerente, sarebbe apparsa come verità. Ma Ragnault, da uomo di scienza, non si abbandonò a tali puerilità, invece continuò le sue indagini e trovò che la legge di Boyle è in generale giusta solo approssimativamente, e in particolare perde la sua validità in gas che possono essere liquefatti mediante pressione, e precisamente la pressione si avvicina al punto in cui sopraggiunge lo stato di fluidità. La legge di Boyle si dimostra così giusta entro limiti determinati. Ma, entro questi limiti, è poi assolutamente, definitivamente vera? Nessun fisico lo affermerà. Ma dirà che essa ha validità entro certi limiti di pressione e di temperatura e per certi gas; ed entro questi limiti ancora più ristretti non escluderà la possibilità di una limitazione ancora più stretta o di una modificazione della formulazione, determinata da future indagini [*2]. Così stanno le cose per le verità definitive di ultima istanza, per es. nella fisica. Lavori effettivamente scientifici evitano perciò di solito espressioni dogmatiche e morali, quali errore e verità, che invece incontriamo dappertutto nelle opere di filosofia della realtà, dove una vuota tiritera ci si vuole imporre come il più sovrano risultato del pensiero sovrano.

Ma, potrebbe chiedere un lettore ingenuo, dove dunque Dühring ha detto espressamente che il contenuto della sua filosofia della realtà è una verità definitiva, e precisamente di ultima istanza? Dove? Ebbene, per es., nel ditirambo del suo sistema (p. 13), che abbiamo riportato parzialmente nel II capitolo. O allorché, nella proposizione citata sopra, dice: Le verità morali, nella misura in cui le si conoscono fin nei loro ultimi fondamenti, pretendono una validità analoga a quella delle conoscenze della matematica. E non afferma Dühring che, partendo dal suo punto di vista veramente critico e per mezzo della sua indagine che si profonda sino alle radici, egli si è spinto sino a questi ultimi fondamenti, agli schemi fondamentali, e che quindi ha conferito alle verità morali una validità definitiva di ultima istanza? Ovvero, se Dühring non accampa questa pretesa né per sé né per la sua epoca, se vuol dire solamente che un giorno, nel nebuloso futuro, potranno essere stabilite verità definitive di ultima istanza, se dunque non vuol fare altro che ripetere all'incirca, soltanto con maggiore confusione, ciò che dicono la "scepsi corrosiva" e la "assoluta confusione", allora, in questo caso, perché tutto questo chiasso? Che cosa desidera il signore?

Se già con verità ed errore non siamo andati molto avanti, ancora meno andremo avanti con male e bene. Questa antitesi si muove esclusivamente sul piano morale e quindi su un piano appartenente alla storia umana, e qui le verità di ultima istanza sono estremamente rare. Da popolo a popolo, da epoca a epoca, le idee di bene e di male si sono cambiate in tal misura da essere arrivate spesso addirittura a contraddirsi. Ma, qualcuno obietterà, pure il bene non è male e il male non è bene; se male e bene vengono confusi insieme, cessa ogni moralità e ciascuno può fare o non fare ciò che vuole. Questa, spogliata di tutta la sua forma oracolare, è anche l'opinione di Dühring. Ma, tuttavia, la cosa non si spiega così facilmente. Se la cosa fosse così semplice, non ci sarebbe davvero nessuna disputa sul bene e sul male, ciascuno saprebbe cosa è il bene e cosa è il male. Ma come stanno oggi le cose? Quale morale ci si predica oggi? C'è anzitutto la morale cristiano-feudale, tramandata dai tempi passati della fede, che, a sua volta, si divide in cattolica e protestante, e non ci mancano ancora altre suddivisioni, dalla gesuitica cattolica e dalla ortodossa protestante sino a una duttile morale illuminata. Accanto vi figura la morale borghese moderna e a sua volta, accanto a questa, la morale proletaria dell'avvenire, cosicché passato, presente e futuro, solo nei paesi più progrediti d'Europa, offrono tre grandi gruppi di teorie morali che vigono contemporaneamente e l'una accanto all'altra. Ora, qual è la vera? Quanto a validità assoluta, nessuna singolarmente presa; ma certo sarà in possesso del maggior numero di elementi che permettono di essere duraturi, quella morale che rappresenta nel presente il rovesciamento del presente, il futuro, e quindi la morale proletaria.

Ma ora, se noi vediamo che le tre classi della società moderna, l'aristocrazia feudale, la borghesia e il proletariato, hanno ciascuna la propria morale particolare, possiamo trarne la conclusione che gli uomini, consapevolmente o inconsapevolmente, in ultima analisi traggono le loro concezioni dai rapporti pratici sui quali è fondata la loro condizione di classe, dai rapporti economici in cui producono e scambiano.

Ma nelle tre teorie morali menzionate c'è pure qualcosa di comune a tutte e tre: non sarebbe almeno questo una parte di quella morale fissata una volta per sempre? Quelle teorie morali rappresentano tre diversi gradi dello sviluppo storico, hanno quindi uno sfondo storico comune, e già per questo hanno necessariamente molto in comune. Ma c'è di più: dati dei gradi di sviluppo economico eguali o approssimativamente eguali, le loro teorie morali necessariamente devono più o meno concordare tra loro. A partire dal momento in cui si sviluppò la proprietà privata dei beni mobili, a tutte le società in cui vigeva questa proprietà privata dovette essere comune il comandamento morale: Non rubare. Questo comandamento diventa perciò una legge morale eterna? Niente affatto. In una società in cui i motivi per rubare sono eliminati, in cui a lungo andare soltanto i pazzi potrebbero rubare, quanto si riderebbe del predicatore di morale che proclamasse solennemente la verità eterna: Non rubare!

Per conseguenza noi respingiamo ogni pretesa di imporci una qualsiasi morale dogmatica come legge etica eterna, definitiva, immutabile nell'avvenire, col pretesto che anche il mondo morale avrebbe i suoi principi permanenti, che stanno al di sopra della storia e delle differenze tra i popoli. Affermiamo per contro che ogni teoria morale sinora esistita è, in ultima analisi, il risultato della condizione economica della società di quel tempo. E come la società si è mossa sinora sul piano degli antagonismi di classe, così la morale è sempre stata una morale di classe; o ha giustificato il dominio e gli interessi della classe dominante, o, diventando la classe oppressa sufficientemente forte, ha rappresentato la rivolta contro questo dominio e gli interessi futuri degli oppressi. Che così all'ingrosso si sia avuto un progresso tanto per la morale quanto per tutti gli altri rami della conoscenza umana, è cosa su cui non è possibile nessun dubbio. Ma non abbiamo ancora superato la morale di classe. Una morale che superi gli antagonismi delle classi e le loro sopravvivenze nel pensiero, una morale veramente umana è possibile solo a un livello sociale in cui gli antagonismi delle classi non solo siano completamente superati, ma siano anche dimenticati per la prassi della vita. E ora si valuti la presunzione di Dühring che, dal bel mezzo della vecchia società classista, alla vigilia di una rivoluzione sociale, pretende di imporre alla futura società senza classi una morale eterna, indipendente dal tempo e dai mutamenti della realtà! E questo presupponendo, ciò che sinora ci è ignoto, che egli conosca, almeno nelle sue grandi linee, la struttura di questa società dell'avvenire.

Per finire, ancora una rivelazione "originale sin dalle radici": per quel che concerne l'origine del male

"il fatto che il tipo del gatto, con la falsità che gli è propria, si presenti sotto forma di animale che poi è sullo stesso piano della circostanza che una analoga configurazione caratteristica si ritrova anche nell'uomo (...) Il male non è perciò qualche cosa di misterioso, a meno che non si abbia, diciamo, il gusto di fiutare qualche cosa di mistico anche nell'esistenza del gatto e in generale dell'animale da preda".

Il Male è il gatto. Quindi il diavolo non ha coda né piedi equini, ma artigli e occhi verdi. E Goethe commise un errore imperdonabile quando presentò Mefistofele come un cane nero anziché come il gatto suddetto. Il Male è il gatto! Questa è la morale non solo per tutti i mondi ma anche... per il gatto! [42]

 


 

X. Morale e diritto. Eguaglianza

 

 

Abbiamo già imparato a conoscere in parecchie occasioni il metodo di Dühring. Esso consiste nello scomporre ogni gruppo di oggetti della conoscenza nei suoi pretesi elementi più semplici, applicare a questi elementi assiomi altrettanto semplici e che si pretende siano evidenti per se stessi e continuare ad operare con i risultati così acquisiti. Anche una questione appartenente al campo della vita sociale "deve risolversi assiomaticamente in singole forme fondamentali semplici (...) forme fondamentali della matematica". E così l'applicazione del metodo matematico alla storia, alla morale e al diritto deve procurarci anche qui certezza matematica circa la varietà dei risultati raggiunti e dar loro il carattere di genuine verità immutabili.

Questa è solo un'altra versione del vecchio e prediletto metodo ideologico, altrimenti detto anche aprioristico, che consiste non già nel conoscere le qualità di un oggetto traendole dall'oggetto stesso, ma nel dedurle dimostrativamente dal concetto dell'oggetto. Dapprima ci si fa il concetto dell'oggetto traendolo dall'oggetto e poi si rovescia la frittata e si prende come misura dell'oggetto la sua immagine, il concetto. Non è più dunque il concetto a doversi conformare all'oggetto, ma l'oggetto al concetto. In Dühring fungono da concetto gli elementi più semplici, le astrazioni ultime a cui egli può giungere, il che non cambia in niente la cosa: questi elementi più semplici sono, nella migliore delle ipotesi, di natura puramente concettuale. La filosofia della natura si presenta anche qui quindi come pura ideologia, deduzione della realtà non da se stessa, ma dall'idea.

Ora, se un tale ideologo costruisce la morale e il diritto, traendoli anziché dai reali rapporti sociali degli uomini che lo circondano, dal concetto o dai cosiddetti elementi più semplici "della società", quale materiale è disponibile, in questo caso, per questa costruzione? Evidentemente materiale di due specie: in primo luogo quel misero avanzo di contenuto reale che ancora può esistere in quelle astrazioni da cui egli parte e in secondo luogo il contenuto che il nostro ideologo vi introduce a sua volta, traendolo dalla sua propria coscienza. Ma che cosa trova nella sua coscienza? In gran parte opinioni morali e giuridiche che sono un'espressione più o meno adeguata -positiva o negativa, di conferma o di contestazione- delle condizioni sociali e politiche nelle quali egli vive; inoltre, forse, idee prese a prestito dalla letteratura sull'argomento; infine, probabilmente, anche capricci personali. Il nostro ideologo può fare e dire quel che vuole, la realtà storica, che ha cacciato dalla porta, rientra dalla finestra, e mentre egli crede di tracciare una dottrina morale e giuridica valida per tutti i mondi e per tutti i tempi, in effetti presenta un'immagine delle correnti conservatrici o rivoluzionarie del suo tempo, contraffatta, perché avulsa dal suo terreno reale, e capovolta come in uno specchio concavo.

Dühring scompone dunque la società nei suoi elementi più semplici e trova così che la società più semplice consta almeno di due uomini. E con questi due uomini opera assiomaticamente. Ed ecco che spontaneamente si presenta l'assioma morale fondamentale: "Due volontà umane sono, come tali, assolutamente eguali tra di loro, e l'una non può, anzitutto, imporre nulla di positivo all'altra". Con ciò "è caratterizzata la forma fondamentale della giustizia morale" e lo è del pari quella della giustizia giuridica; infatti "per lo sviluppo dei concetti principali del diritto, a noi occorre soltanto il rapporto assolutamente semplice ed elementare di due uomini".

Il fatto che due uomini o due volontà umane siano come tali assolutamente eguali, non solo non è un assioma, ma è perfino una grande esagerazione. Due uomini possono anzitutto, anche come tali, essere diseguali per il sesso, e questo semplice fatto ci porta subito alla constatazione che i più semplici della società, se per un istante accettiamo una tale puerilità, non sono due uomini, ma un maschio e una femmina che fondano una famiglia, la più semplice e la prima associazione al fine della produzione. Ma ciò non può in nessun modo convenire a Dühring. Infatti, da una parte i due fondatori della società debbono essere resi il più possibile eguali tra di loro e dall'altra persino Dühring non riuscirebbe a costruirsi, dalla famiglia primitiva, la parità morale e giuridica tra uomo e donna. Dunque, una delle due: o la molecola sociale dühringiana, con la moltiplicazione della quale si deve costruire tutta la società, è sin dal principio condannata a rovina, perché tra loro i due uomini non potrebbero mai mettere al mondo un bambino, o invece dobbiamo immaginarceli come due capifamiglia. Ma in questo caso tutto lo schema fondamentale è rovesciato nel suo contrario: invece dell'uguaglianza degli uomini prova tutt'al più l'uguaglianza dei capifamiglia, e poiché delle donne non si fa questione, prova inoltre anche la subordinazione delle donne.

Qui noi dobbiamo fare al lettore la comunicazione spiacevole che da ora e per molto tempo egli non si libererà mai più di questi famosi due uomini. Nel campo dei rapporti sociali essi rappresentano una parte simile a quella rappresentati sin qui dagli abitanti di altri corpi celesti, con i quali ora speriamo di essercela cavata. C'è da risolvere una questione di economia, di politica, ecc.? ecco che si presentano i due uomini e in un batter d'occhio, "assiomaticamente", liquidano la cosa. Scoperta eccellente, originale, creatrice di sistema, del nostro filosofo della realtà: ma disgraziatamente, se vogliamo rendere onore alla verità, i due uomini non li ha scoperti lui. Essi sono un fatto comune a tutto il XVIII secolo. Sono già presenti nel discorso di Rousseau sull'ineguaglianza [43], del 1754, dove, sia detto di passaggio, dimostrano assiomaticamente il contrario delle schematizzazioni dühringiane. Rappresentano una parte di capitale importanza negli economisti, da Adam Smith a Ricardo, ma qui sono diseguali almeno nel fatto che ognuno di essi esercita un mestiere diverso, per lo più quello del cacciatore e quello del pescatore, e si scambiano vicendevolmente i loro prodotti. Inoltre, in tutto il secolo XVIII essi servono principalmente come semplice esemplificazione illustrativa, e l'originalità di Dühring consiste soltanto nell'elevare questo metodo esemplificativo a metodo fondamentale di tutta la scienza della società e a misura di tutte le formazioni storiche. Certo non ci si potrebbe costruire in modo più facile la "concezione rigorosamente scientifica delle cose e degli uomini".

Per stabilire l'assioma fondamentale che due uomini e le loro volontà sono assolutamente eguali tra di loro e nessuno ha ordini da dare all'altro, non possiamo servirci di due uomini presi a capriccio. Devono essere due uomini talmente liberati da ogni realtà, da ogni condizione nazionale, economica, politica, religiosa esistente sulla terra, e da ogni caratteristica sessuale e personale, che sia del primo che del secondo non resta altro che il semplice concetto di uomo, e in tal caso essi sono di certo "assolutamente eguali". Sono quindi due autentici fantasmi evocati dallo stesso Dühring che dappertutto fiuta e denuncia movimenti "spiritistici". Questi due fantasmi, naturalmente, devono fare tutto quello che il loro evocatore esige da loro, ed appunto per ciò tutte le loro produzioni artistiche non hanno assolutamente nessun interesse per il resto del mondo.

Ma seguiamo ancora un po' l'assiomatica di Dühring. Le due volontà non possono esigere niente di positivo l'una dall'altra. Se tuttavia l'una delle due fa questo e impone la sua pretesa con la forza, sorge uno stato d'ingiustizia; e con questo schema fondamentale Dühring spiega l'ingiustizia, la violenza, la servitù, in breve tutta la storia riprovevole che sin qui si è svolta. Ora, Rousseau, nello scritto citato sopra, proprio per mezzo di due uomini ha dimostrato, in modo parimenti assiomatico, il contrario; cioè che, dei due, A può asservire B con la violenza, ma mettendo B in una posizione in cui questo non può fare a meno di A; il che per Dühring rappresenta una concezione già troppo materialistica. Prendiamo, allora, la cosa in modo un po' diverso. Due naufraghi sono soli in un'isola e formano una società. Formalmente le loro volontà sono assolutamente eguali, e questo fatto è riconosciuto da entrambi. Invece, materialmente, sussiste una grande disuguaglianza. A è deciso ed energico, B indeciso, indolente e fiacco; A è sveglio, B è sciocco. Quanto tempo ci vuole perché A imponga regolarmente a B la sua volontà, prima con la persuasione, poi per abitudine, ma sempre sotto la forma del consenso? Che la forma del consenso sia mantenuta o calpestata, la servitù resta servitù. L'entrata volontaria nello stato servile dura per tutto il medioevo in Germania, sin dopo la guerra dei trent'anni [44]. Quando in Prussia, dopo le sconfitte del 1806 e del 1807, fu abolita la servitù della gleba e con essa l'obbligo per i graziosi signori di soccorrere i loro sudditi in caso di bisogno, malattia e vecchiaia, i contadini presentarono petizioni al re, per essere lasciati ancora nella servitù, altrimenti chi li avrebbe soccorsi ancora nella miseria? Quindi lo schema dei due uomini è tanto "fondato" sulla disuguaglianza e sulla servitù, quanto sull'uguaglianza e sulla mutua assistenza; e poiché dobbiamo ammettere che i due uomini siano capifamiglia, altrimenti il genere umano si estinguerebbe, è qui già prevista anche la servitù ereditaria.

Ma per un momento lasciamo stare tutto ciò. Ammettiamo che l'assiomatica di Dühring ci abbia persuasi, e che noi siamo fanatici della completa eguaglianza di diritti delle due volontà, della "sovranità umana in generale", della "sovranità dell'individuo", veri fastosi colossi di parole, di fronte ai quali l'"unico" di Stirner [45] con la sua proprietà resta un pasticcione, per quanto anch'egli potrebbe reclamarvi la sua modesta parte. Dunque noi siamo oggi tutti assolutamente eguali e indipendenti. Tutti? No, non tutti. Ci sono ancora "dipendenze ammissibili" e queste si spiegano "con ragioni che si devono cercare nell'attività delle due volontà come tali, ma in una terza sfera, quindi, per es., per quel che concerne i bambini, nella deficienza della loro autodeterminazione".

Infatti! Le ragioni della dipendenza non debbono cercarsi nell'attività delle due volontà come tali! Naturalmente no, infatti l'attività di una delle volontà è anzi proprio ostacolata! Ma invece in una terza sfera! E che cos'è questa terza sfera? La determinazione concreta di una volontà sottomessa in quanto insufficiente! Il nostro filosofo della realtà si è allontanato a tal punto dalla realtà, che, di fronte al termine astratto e privo di contenuto "volontà", il contenuto reale, la determinazione caratteristica di questa volontà costituisce già per lui una "terza sfera". Ma comunque ciò sia, dobbiamo constatare che l'eguaglianza di diritti ha la sua eccezione. Essa non ha validità per una volontà affetta da una deficienza di autodeterminazione. Ritirata n° 1.

Andiamo avanti.

"Laddove la bestia e l'uomo sono fusi insieme in una persona, si può domandare in nome di una seconda persona, completamente umana, se il loro modo di agire possa essere lo stesso come se stessero di fronte persone per così dire solamente umane (...) perciò il nostro presupposto di due persone moralmente diseguali, una delle quali in un certo senso al carattere peculiare della bestia, è la forma fondamentale tipica di tutti i rapporti che, conformemente a questa differenza, possono presentarsi (...) all'interno dei gruppi umani e tra di loro."

Ed ora il lettore segua con i suoi occhi la miserevole diatriba che segue questi impacciati sotterfugi, in cui Dühring si gira e si rigira come un gesuita per stabilire casisticamente sino a che punto l'uomo umano possa intervenire contro gli uomini bestiali, sino a che punto possa usare contro di loro diffidenza, astuzia guerresca, mezzi di inganno sottili, anzi perfino terroristici, senza neppure derogare in qualche cosa dalla morale immutabile.

Quindi se due persone sono "moralmente diseguali", anche l'eguaglianza cessa. Ma allora non valeva la pena di evocare i due uomini assolutamente eguali, infatti non esistono due persone che moralmente siano assolutamente eguali. La disuguaglianza consisterebbe però nel fatto che una è una persona umana e l'altra reca in sé qualcosa della bestia. Ma è già insito nella discendenza dell'uomo dal regno degli animali il fatto che l'uomo non si libera mai completamente dalla bestia, cosicché si può trattare sempre di un più o un meno, di una differenza nel grado della bestialità o rispettivamente dell'umanità. Una divisione degli uomini in due gruppi nettamente distinti, in uomini-umani e in uomini-bestie, in buoni e cattivi, in pecore e becchi, oltre alla filosofia della realtà la conosce soltanto il cristianesimo che, in modo del tutto conseguente, ha anche il suo giudice universale che compie la separazione. Ma nella filosofia della realtà, chi deve essere il giudice supremo? Dovrà probabilmente avvenire come nella prassi cristiana, in cui le pie pecorelle si assumono loro stesse, e adempiono con noto successo, l'ufficio di giudici universali dei becchi, loro prossimo profano. La setta dei filosofi della realtà, se mai verrà al mondo, sotto questo riguardo certo non la cederà in niente ai Pacifici nel paese [46]. Ma tutto questo può esserci indifferente; ciò che ci interessa è la confessione che, in conseguenza della disuguaglianza morale tra gli uomini, ancora una volta l'eguaglianza si riduce a niente. Ritirata n°2.

Andiamo di nuovo avanti.

"Se uno dei due uomini agisce secondo verità e scienza e l'altro, invece, secondo superstizione o qualche pregiudizio (...) di regola devono intervenire mutue interferenze (...) Ad un certo grado di incapacità, di rozzezza o di cattiva tendenza del carattere, dovrà in ogni caso avvenire un conflitto (...) Non sono necessariamente i bambini e i folli quelli nei cui confronti la violenza è l'ultima risorsa. Il carattere di interi gruppi naturali e di intere classi di uomini civili può rendere inevitabilmente necessario sottomettere la loro volontà, ostile per la sua perversità, al fine di ricondurre questa stessa volontà ai legami della comunità. Anche qui la volontà altrui viene considerata come avente eguali diritti; ma per la perversità della sua attività aggressiva e ostile ha provocato un'azione di compenso, e se ora subisce un'azione di forza, non fa che raccogliere la reazione alla propria ingiustizia."

Quindi non solo la disuguaglianza morale, ma anche la disuguaglianza spirituale è sufficiente per eliminare l'"assoluta eguaglianza" delle due volontà e per istituire una morale secondo la quale si possono giustificare tutte le infamie commesse da briganteschi Stati civili contro popoli arretrati, sino alle atrocità dei russi nel Turkestan [47]. Quando il generale Kaufmann, nell'estate 1873, fece attaccare la tribù tartara dei Jomudi, bruciare le loro tende, massacrare le loro donne e i loro bambini "alla buona maniera caucasica", come diceva il suo ordine, affermava anche lui che era diventata una necessità ineluttabile sottomettere la volontà dei Jomudi, ostile per la sua perversità, al fine di ricondurre questa loro volontà ai legami della comunità; che i mezzi da lui usati erano i più appropriati allo scopo e che chi vuole il fine, deve anche volere i mezzi. Solamente non era così crudele da schernire per soprammercato i Jomudi dicendo che li massacrava per un'azione di compenso e che proprio per questo considerava la loro volontà come avente eguali diritti. E ancora una volta in questo conflitto sono gli eletti, coloro che pretendono di agire secondo verità e scienza, quindi in ultima analisi sono i filosofi della realtà, quelli che hanno da decidere che cosa sono superstizione, pregiudizio, rozzezza, cattiva tendenza del carattere, e quando sono necessari la violenza e l'assoggettamento come azione di compenso. L'eguaglianza è quindi ora: l'azione di compenso mediante la violenza, e la seconda volontà viene dalla prima riconosciuta come avente eguali diritti, mediante l'assoggettamento. Ritirata n°3, che qui già degenera in fuga ignominiosa.

Di passaggio, la frase che dice come precisamente nell'azione di compenso mediante la violenza la volontà altrui venga considerata avente eguali diritti, è solo un'alterazione della teoria hegeliana secondo la quale la punizione è il diritto del delinquente: "col fatto che la pena sia considerata come recante in sé un suo proprio diritto, il delinquente viene onorato come un essere razionale". ("Filosofia del diritto", par. 100, nota)

E con questo possiamo troncare. Sarebbe superfluo continuare ancora a seguire Dühring nella distruzione che compie pezzo per pezzo della sua eguaglianza, della sua sovranità umana in generale, poste così assiomaticamente; e osservare come egli, è vero, viene a capo della società con due uomini, ma come per costruire lo Stato ne abbisogna di un terzo, perché, per farla breve, senza questo terzo nessuna decisione a maggioranza può essere presa, e senza questa, e quindi senza dominio della maggioranza sulla minoranza, neanche può sussistere lo Stato; e come poi, a poco a poco, cambia rotta, passando nelle acque più tranquille della costruzione del suo futuro Stato socialitario, dove un bel giorno avremo l'onore di andarlo a trovare. Abbiamo visto a sufficienza che l'eguaglianza assoluta delle sue volontà sussiste solo sino a quando queste due volontà non vogliono nulla; che non appena esse cessano di essere volontà umane in quanto tali e si trasformano in volontà reali, individuali, nelle volontà di due uomini reali, l'eguaglianza cessa; che puerilità, follia, cosiddetta bestialità, presunta superstizione, asserito pregiudizio, supposta incapacità da una parte e pretesa umanità, conoscenza della verità e scienza dall'altra, quindi ogni differenza nella qualità delle due volontà e in quella dell'intelligenza che le accompagna, giustifica una disuguaglianza che può spingersi sino alla sottomissione; che cosa di più vogliamo ancora dopo che Dühring ha distrutto così radicalmente dalle fondamenta il proprio edificio dell'eguaglianza?

Ma se anche l'abbiamo fatta finita con la trattazione superficiale e dilettantesca che Dühring fa dell'idea di eguaglianza, non perciò l'abbiamo fatta finita con questa idea stessa, in quanto essa ha un'importante funzione teorica, specialmente, grazie a Rousseau, pratico-politica durante e dopo la grande Rivoluzione, e ancora oggi agitatoria nel movimento socialista di quasi tutti i paesi. La constatazione di quale sia il suo contenuto scientifico determinerà anche il suo valore per l'agitazione proletaria.

L'idea che tutti gli uomini in quanto uomini hanno qualche cosa di comune e che essi sono anche eguali nei limiti di questo elemento comune, è ovviamente antichissima. Ma assolutamente diversa da tutto questo è la moderna rivendicazione dell'eguaglianza; questa consiste invece nel dedurre da quella proprietà comune dell'essere umano, da quell'eguaglianza degli uomini in quanto uomini, il diritto ad un eguale valore politico, ovvero sociale, di tutti gli uomini, o almeno di tutti i cittadini di uno Stato, o di tutti i membri di una società. Prima che da quella originaria idea di una eguaglianza relativa si sia potuto trarre la conclusione di una eguaglianza dei diritti nello Stato e nella società, prima ancora che questa conclusione sia potuta apparire come qualche cosa di naturale e ovvio, dovevano passare millenni, e millenni sono passati. Nelle comunità più antiche, nelle comunità naturali si poteva parlare di eguaglianza dei diritti tutt'al più tra i membri della comunità; va da sé che donne, schiavi, stranieri ne erano esclusi. Fra i greci e fra i romani le disuguaglianze degli uomini avevano un peso molto maggiore di qualsiasi eguaglianza. Che greci e barbari, liberi e schiavi, cittadini e clienti, cittadini romani e sudditi romani (per usare un termine comprensivo) potessero pretendere parità di condizioni politiche, agli antichi necessariamente sarebbe parso pazzesco. Sotto l'impero romano tutte queste differenziazioni a poco a poco si dissolsero, ad eccezioni di liberi e schiavi, si originò di conseguenza, almeno per i liberi, quell'eguaglianza dei privati cittadini sulla cui base si sviluppò il diritto romano, la più perfetta costruzione a noi nota del diritto fondato sulla proprietà privata. Ma sino a quando sussistè la contrapposizione di liberi e schiavi, non si potè parlare di conclusioni giuridiche tratte dall'eguaglianza umana in generale; cosa che anche di recente abbiamo visto negli Stati schiavisti dell'Unione nordamericana.

Il cristianesimo conobbe solo una eguaglianza di tutti gli uomini, quella dell'eguale peccaminosità originaria, che era perfettamente adeguata al suo carattere di religione degli schiavi e degli oppressi. Oltre a questa tutt'al più conosceva l'eguaglianza degli eletti, che però fu accentuata solamente e unicamente agli inizi. Le tracce della comunione dei beni che si trovano del pari agli inizi della nuova religione si possono ricondurre molto più alla solidarietà tra i perseguitati che a vere idee di eguaglianza. Ma ben presto, stabilitasi la contrapposizione tra preti e laici, anche questo inizio di eguaglianza cristiana ebbe fine. L'invasione dell'Europa occidentale da parte dei germani eliminò per secoli l'idea di eguaglianza, costruendo a poco a poco una gerarchia sociale e politica in una forma così complicata quale sino allora mai era esistita; ma ad un tempo introdusse nel movimento storico l'Europa occidentale centrale, creò per la prima volta una compatta zona di civiltà e per la prima volta creò su questo territorio un sistema di Stati prevalentemente nazionali che esercitavano l'uno sull'altro una mutua influenza e che mutuamente si tenevano in scacco. Con questo essa preparò il terreno sul quale, solo in più tarda età, si potè parlare di eguaglianza umana e di diritti dell'uomo.

Il medioevo feudale sviluppò inoltre nel suo seno la classe che era chiamata, nel suo sviluppo ulteriore, a diventare la depositaria della moderna rivendicazione dell'eguaglianza: la borghesia. Dapprima ceto feudale essa stessa, la borghesia aveva sviluppato l'industria prevalentemente artigiana e lo scambio di prodotti ad un grado relativamente alto entro la società feudale, quando, alla fine del XV secolo, le grandi scoperte marinare le apersero una carriera nuova e più vasta. Il commercio extraeuropeo, sinora esercitato solo tra l'Italia e il Levante, fu esteso all'America e all'India, e presto sorpassò in importanza tanto lo scambio dei singoli paesi europei tra di loro, quanto il traffico interno di ciascun paese singolo. L'oro e l'argento dell'America inondarono l'Europa e penetrarono come un elemento disgregatore in tutti i vuoti, le fessure e i pori della società feudale. L'industria artigiana non fu più sufficiente per i bisogni crescenti e nelle industrie principali dei paesi più progrediti fu sostituita dalla manifattura.

A questo imponente rivoluzionamento delle condizioni economiche di vita della società, tuttavia, non seguì affatto immediatamente un cambiamento adeguato della sua organizzazione politica. L'ordinamento statale rimase feudale, mentre la società diventò sempre più borghese. Il commercio su vasta scala, quindi specialmente il commercio internazionale, e ancor più il commercio su scala mondiale, esige liberi possessori di merci, non inceppati nei loro movimenti, che, come tali, siano provvisti di eguali diritti, che scambiano sulla base di un diritto eguale per tutti loro, almeno in ogni singolo luogo. Il passaggio dall'artigianato alla manifattura ha come presupposto l'esistenza di un certo numero di liberi lavoratori, liberi, da una parte, da vincoli corporativi e, dall'altra, dai mezzi per utilizzare da se stessi la loro forza-lavoro, i quali possano contrattare con il fabbricante per l'affitto della loro forza-lavoro, e quindi essere di fronte a costui come contraenti aventi eguali diritti. E finalmente l'eguaglianza e l'egual valore di tutti i lavori umani, perché ed in quanto sono in generale lavoro umano [48], trovò la sua espressione più forte, anche se inconsapevole, nella legge del valore della moderna economia borghese, secondo la quale legge il valore di una merce viene misurato mediante il lavoro socialmente necessario in essa contenuto [*3]. Ma laddove i rapporti economici esigevano libertà ed eguaglianza di diritti, l'ordinamento politico opponeva loro, ad ogni passo, vincoli corporativi e privilegi particolari. Privilegi locali, tariffe doganali differenziate, leggi eccezionali di tutte le specie colpivano nel commercio non solo lo straniero o l'abitante delle colonie, ma abbastanza spesso anche intere categorie degli stessi cittadini dello Stato; privilegi corporativi sbarravano dappertutto e sempre la strada allo sviluppo della manifattura. Non c'era luogo dove la strada fosse libera e le possibilità eguali per i concorrenti borghesi: eppure questa era la prima e sempre più urgente rivendicazione.

La rivendicazione della liberazione dai vincoli feudali e l'instaurazione dell'eguaglianza giuridica mediante l'eliminazione delle disuguaglianze feudali: questa rivendicazione, non amenza, fu posta all'ordine del giorno dal progresso economico della società, assunse ben presto necessariamente dimensioni sempre maggiori. Ma se essa veniva posta nell'interesse dell'industria e del commercio, la stessa eguaglianza di diritti doveva essere rivendicata per la grande massa dei contadini, che in tutti i gradi della servitù, a partire dalla completa servitù della gleba, dovevano offrire gratuitamente la massima parte della loro giornata lavorativa al grazioso signore feudale ed inoltre pagare a lui e allo Stato anche innumerevoli tributi. D'altra parte non si poteva fare a meno di esigere che parimente venissero soppressi i privilegi feudali, l'immunità dalle imposte della nobiltà e i privilegi politici dei singoli ceti. E poiché non si viveva più un impero universale, come era stato l'impero romano, ma in un sistema di Stati indipendenti, le cui relazioni reciproche si muovevano su un piede di parità e nei quali lo sviluppo della borghesia era approssimativamente allo stesso livello, era naturale che la rivendicazione assunse un carattere generale che oltrepassava i limiti di singolo Stato e che libertà ed eguaglianza fossero proclamate diritti dell'uomo. Così per il carattere specificamente borghese di questi diritti dell'uomo è indicativo il fatto che la Costituzione americana, la prima che riconosca i diritti dell'uomo, confermi nello stesso tempo la schiavitù della gente di colore esistente in America: i privilegi di classe vengono banditi, i privilegi di razza santificati.

È noto però che la borghesia, dall'istante in cui, come farfalla dalla crisalide, vien fuori dallo stadio di borghesia feudale, dall'istante in cui da ceto medievale diventa classe moderna, sempre ed inevitabilmente è accompagnata dalla sua ombra, il proletariato. E parimenti le rivendicazioni borghesi dell'eguaglianza sono accompagnate dalle rivendicazioni proletarie dell'eguaglianza. Dall'istante in cui viene posta la rivendicazione borghese della soppressione dei privilegi di classe, accanto ad essa si presenta la rivendicazione proletaria della soppressione delle classi stesse: dapprima in forma religiosa, ricollegandosi al cristianesimo primitivo, più tardi poggiandosi sulle stesse teorie borghesi dell'eguaglianza. I proletari prendono in parola la borghesia: l'eguaglianza dev'essere attuata non solo apparentemente, non solo sul piano dello Stato, ma realmente sul piano sociale, economico. E specialmente da quando la borghesia francese, a partire dalla grande Rivoluzione, ha messo in primo piano l'eguaglianza civile, il proletariato francese le ha risposto colpo contro colpo, con la rivendicazione dell'eguaglianza sociale, economica, e l'eguaglianza è diventata il grido di guerra in modo speciale del proletariato francese.

La rivendicazione dell'eguaglianza ha così, sulle labbra del proletariato, un duplice significato. O, ed è quanto avviene specialmente nei primi inizi, per es. nella guerra dei contadini, è la reazione naturale contro le stridenti disuguaglianze sociali, contro il contrasto di ricchi e poveri, di signori e servi, di crapuloni e affamati; e come tale è semplicemente espressione dell'istinto rivoluzionario, e trova la sua giustificazione in questo contrasto e solamente in esso. O invece è sorta dalla reazione contro la rivendicazione borghese dell'eguaglianza e da questa trae esigenze più o meno giuste che la oltrepassano e serve come mezzo di agitazione per eccitare i lavoratori contro i capitalisti con le affermazioni proprie dei capitalisti, ed in questo caso essa si regge e cade con la stessa eguaglianza borghese. In entrambi i casi l'effettivo contenuto della rivendicazione proletaria dell'eguaglianza è la rivendicazione della soppressione delle classi. Ogni rivendicazione di eguaglianza che esce da questi limiti va necessariamente a finire nell'assurdo. Ne abbiamo dato esempio e ne troveremo ancora abbastanza allorché verremo alle fantasie avveniristiche di Dühring.

Conseguentemente l'idea dell'eguaglianza, tanto nella sua forma borghese quanto nella sua forma proletaria, è essa stessa un prodotto storico e per la sua creazione sono state necessarie condizioni storiche determinate che, a loro volta, presuppongono, esse stesse, una lunga preparazione storica. È quindi tutto tranne che una verità eterna. E se oggi per il gran pubblico essa è chiara per se stessa, nell'uno e nell'altro dei suoi sensi, se, come dice Marx "ha già la solidità di un pregiudizio popolare" [49], questo non è effetto della sua verità assiomatica, ma della diffusione generale e della perdurante attualità delle idee del XVIII secolo. Se dunque Dühring si permette così di far muovere senz'altro i suoi famosi due uomini sul terreno dell'eguaglianza, ciò deriva dal fatto che questo appare assolutamente naturale al pregiudizio popolare. E infatti Dühring chiama naturale la sua filosofia, poiché essa parte semplicemente da cose che a lui appaiono assolutamente naturali. Ma perché gli appaiono naturali, è cosa che, invero, egli non si chiede.

 


 

XI. Morale e diritto. Libertà e necessità

 

 

"Nel campo giuridico e politico i principi esposti in questo corso hanno a loro fondamento gli studi specialistici più profondi. Si dovrà perciò (...) partire dal fatto che qui (...) si è tentato di esporre in modo conseguente i risultati raggiunti nel campo del diritto e della scienza politica. In origine il mio studio specialistico fu proprio la giurisprudenza, e vi ho dedicato non soltanto i soliti tre anni di preparazione universitaria, ma, durante altri tre anni di pratica legale, anche uno studio continuo indirizzato principalmente all'approfondimento del loro contenuto scientifico (...) E sicuramente la critica dei rapporti di diritto privato e delle relative deficienze giuridiche non avrebbe potuto procedere con altrettanta sicurezza se non fosse stata conscia di conoscere dappertutto sia i lati deboli che quelli più forti di questa materia speciale."

Un uomo che ha motivo di parlare così di se stesso, sin dal principio deve ben ispirare fiducia, particolarmente di fronte "agli studi giuridici che il sig. Marx ha fatto nel passato, e per sua confessione, con trascuratezza". Perciò c'è da meravigliarsi che la critica dei rapporti di diritto privato, la quale si presenta con tale sicurezza, si limiti a raccontarci che "il carattere scientifico della giurisprudenza (...) non è gran cosa", che il diritto civile positivo è ingiustizia perché sanziona la proprietà fondata sulla violenza, e che "la base naturale" del diritto penale è la vendetta: affermazione nella quale l'unica cosa nuova è, se mai, il travestimento mistico in "base naturale". I risultati della scienza politica si limitano alle relazioni fra i noti tre uomini, l'uno dei quali sinora ha fatto violenza agli altri; e qui Dühring indaga con tutta serietà se è stato il secondo o il terzo quello che per primo ha introdotto la violenza e la servitù.

Seguiamo pertanto ancora un po' gli studi specialistici più profondi e la serietà scientifica, approfonditasi mediante una pratica legale triennale, dal nostro giurista così sicuro di sé.

Di Lassalle Dühring ci racconta che "a causa della provocazione al tentativo di furto di una cassetta", fu messo in stato d'accusa, "senza che tuttavia si potesse registrare una condanna giudiziaria, essendo intervenuta la cosiddetta assoluzione dall'accusa, che allora era ancora possibile (...) questa semiassoluzione".

Il processo di Lassalle, del quale qui si parla, fu celebrato nell'estate 1848 dinanzi alle Assise di Colonia, dove, come quasi in tutta la provincia renana, era in vigore il diritto penale francese. Solo per reati e crimini politici era stato introdotto in via eccezionale il Landrecht [50] prussiano, ma già nell'aprile del 1848 questo provvedimento eccezionale fu abrogato dal Camphausen. Il diritto francese non conosce affatto la categoria vaga, propria del Landrecht prussiano, di "provocazione" a un crimine, e tanto meno di provocazione al tentativo di un delitto. Esso conosce solo istigazione al crimine, e questa, per essere punibile, deve avere luogo "mediante doni, promesse, minacce, abuso di autorità o di potere, macchinazioni astute o artifici criminosi" (Code pénal [51] art. 60). Il pubblico ministero, sprofondando nel Landrecht prussiano, perdette di vista, precisamente come Dühring, la differenza essenziale tra le norme nettamente determinate del diritto francese e l'evanescente indeterminatezza del Landrecht, intentò a Lassalle un processo tendenzioso e fece clamorosamente fiasco. Infatti l'affermazione che il processo penale francese conosca l'assoluzione dall'accusa secondo il Landrecht prussiano, questa semiassoluzione, può arrischiarla solo chi nel campo del diritto francese moderno sia un perfetto ignorante; questo diritto conosce, nel processo penale, solo condanna e assoluzione e nessun termine intermedio.

Ci troviamo perciò nel caso di dover dire che Dühring non avrebbe certo potuto applicare con pari sicurezza a Lassalle questa sua "maniera di delineare la storia in grande stile", se mai avesse avuto tra le mani il Code Napoléon [52]. Dobbiamo quindi constatare che è completamente ignoto, a Dühring, l'unico codice borghese moderno che poggia sulle conquiste sociali della grande Rivoluzione francese e le traduce in norme giuridiche: il diritto francese moderno.

Altrove, nella critica alle Corti d'assise che decidono a maggioranza di voti, introdotte in tutto il continente secondo il modello francese, ci si insegna:

"Si, ci si potrà familiarizzare perfino con l'idea, che del resto non è affatto priva di esempi storici, che in una comunità perfetta una condanna con voti contrastanti sarebbe un'istituzione impossibile (...) Tuttavia questo modo di concepire serio e profondamente spirituale, come è già stato accennato sopra, non può non apparire inadatto alle forme tradizionali, per il fatto che è eccessivamente buono per esse".

Ancora una volta Dühring ignora che l'unanimità dei giurati non solamente per le condanne penali, ma anche per i giudizi in processi civili è assolutamente necessaria per il diritto comune inglese, cioè il diritto consuetudinario non scritto in vigore da tempo immemorabile, ossia almeno dal quattordicesimo secolo. Il modo di concepire serio e profondamente spirituale che, secondo Dühring, è eccessivamente buono per il mondo odierno, ha avuto validità di legge in Inghilterra già nel più passato medioevo, e dall'Inghilterra è stato trasportato in Irlanda, negli Stati Uniti d'America e in tutte le colonie inglesi, senza che gli studi specialistici più profondi ne abbiano fatto trapelare a Dühring una sola parola! Il campo in cui vige l'unanimità dei giurati non solo è quindi infinitamente grande in confronto al ristretto ambito del Landrecht prussiano, ma è anche più esteso di tutti i campi, presi insieme, nei quali la maggioranza dei giurati è decisiva. Dühring non solo ignora totalmente l'unico diritto moderno, il diritto francese, ma è anche parimente ignorante in quel che concerne l'unico diritto germanico che ha continuato a svilupparsi sino all'epoca presente indipendentemente dall'autorità del diritto romano e che si è esteso a tutti i continenti: il diritto inglese. E perché no? Infatti la forma inglese del pensiero giuridico "non potrebbe tener testa agli studi, eseguiti su suolo tedesco, sui puri concetti dei giuristi classici romani", dice Dühring, e più tardi egli dice ancora: "Che cos'è il mondo che parla inglese, con la sua ibrida lingua di fanciulli di fronte alla vigorosa forza espressiva della nostra lingua?". Al che possiamo soltanto rispondere con Spinoza: Ingorantia non est argumentum, l'ignoranza non è un argomento [53].

Non possiamo quindi che arrivare a questo risultato conclusivo: gli studi specialistici più profondi di Dühring sono consistiti nel fatto che egli si è per tre anni sprofondato nello studio teorico del Corpus juris [54] e per altri tre anni nello studio pratico del nobile Landrecht prussiano. Questa certamente è già cosa molto meritoria, e sufficiente per un rispettabilissimo giudice distrettuale o per un avvocato della vecchia Prussia. Ma se ci si accinge a costruire una filosofia del diritto valida per tutti i mondi e per tutti i tempi, si dovrebbe pure, in qualche modo, essere anche al corrente dei rapporti giuridici vigenti in nazioni quali la francese, l'inglese, l'americana, nazioni che nella storia rappresentano ben altra parte che non l'angolo della Germania in cui è in fiore il Landrecht prussiano. Ma leggiamo oltre.

"Il miscuglio variopinto di diritti locali, provinciali e regionali che si incrociano nelle direzioni più diverse in maniera molto arbitraria, ora come diritto consuetudinario, ora come legge scritta, spesso dando la veste di prima forma statutaria alle materie più importanti: questo campionario di disordine e di contraddizione in cui i casi singoli infirmano i principi generali e in cui, a loro volta, i principi generali occasionalmente infirmano i fatti particolari, in verità non è fatto per (...) rendere possibile (...) a chiunque una chiara coscienza giuridica".

Ma dove regna questo stato di confusione? ancora una volta dove regna il Landrecht prussiano, in cui, accanto, sopra e sotto questo diritto regionale, hanno i più diversi gradi relativi di validità diritti provinciali, statuti locali, e qua e là anche diritto comune e altra robaccia e provocano in tutti i giuristi pratici quel grido d'allarme che Dühring ripete qui con tanta grazia. Egli non ha bisogno di abbandonare la sua diletta Prussia, basta che venga sulle rive del Reno per convincersi che quaggiù da settant'anni non si parla più di tutto questo; per non dir nulla degli altri paesi civili dove queste siffatte condizioni invecchiate sono già state abolite da lungo tempo.

Inoltre:

"L'occultamento della responsabilità naturale individuale si manifesta in una maniera meno cruda nei giudizi collettivi segreti e perciò anonimi e nelle azioni collettive di collegi o di altre istituzioni ufficiali che mascherano la parte personale di ciascun membro".

E in un altro passo:

"Nell'odierno stato di cose sarebbe un'esigenza sorprendente e straordinariamente rigorosa il non voler sentire parlare di nascondere e di coprire collegialmente la responsabilità del singolo".

Probabilmente sarà per Dühring una comunicazione sorprendente se gli diciamo che nell'ambito del diritto inglese ogni membro del collegio giudicante deve emettere e motivare singolarmente il suo giudizio in seduta pubblica e che i collegi amministrativi, non eletti e che trattano e giudicano non pubblicamente, sono un'istituzione squisitamente prussiana e sconosciuta nella massima parte degli altri paesi, e che perciò la sua esigenza può essere sorprendente e straordinariamente rigorosa solamente e semplicemente... in Prussia.

Del pari le sue querimonie sull'ingerenza coattiva delle pratiche religiose nelle nascite, nei matrimoni, nelle morti e nei seppellimenti toccano, tra i maggiori paesi civili, solo la Prussia, e da quando sono stati introdotti i registri di stato civile, neanche più questa [55]. Ciò che Dühring realizza solo per mezzo di uno stato di cose "socialitario" dell'avvenire, perfino Bismarck, nel frattempo, lo ha sbrigato con una semplice legge. Non diversamente, nella "querimonia per la deficiente preparazione dei giuristi alla loro professione", intona una geremiade tipicamente prussiana; e anche l'odio per gli ebrei spinto sino al ridicolo, di cui Dühring fa mostra ad ogni occasione, è una qualità se non tipicamente prussiana, tuttavia tipica di tutti i paesi ad oriente dell'Elba. Quello stesso filosofo della realtà che ha un sovrano disprezzo per tutti i pregiudizi e le superstizioni, è così ingolfato in ubbie personali da chiamare "giudizio naturale" poggiante su "basi naturali", il pregiudizio popolare contro gli ebrei, ereditato dalla bigotteria medievale, e da spingersi a questa fantastica asserzione: "il socialismo è l'unica forza che possa tener fronte a situazioni demografiche accompagnate da una commissione ebraica piuttosto rilevante" (situazioni accompagnate da commissione ebraica! Che linguaggio tedesco naturale!).

Ce n'è abbastanza. Questo gran millantare la propria erudizione giuridica, nel migliore dei casi, ha come sfondo le più comuni conoscenze specialistiche di un comunissimo giurista della vecchia Prussia. Il campo delle scienze giuridiche e politiche, i cui risultati Dühring ci espone con logiche conseguenze, "coincide" con l'ambito in cui vige il Landrecht prussiano. A prescindere dal diritto romano, oggi più o meno familiare ad ogni giurista anche in Inghilterra, le sue conoscenze giuridiche si limitano solamente e unicamente al Landrecht prussiano, quel codice del dispotismo patriarcale illuminato, che è scritto in un tedesco tale da far pensare che Dühring sia andato a scuola lì e che le sue grosse morali, con la sua imprecisione e con la sua incoerenza giuridica, e con i suoi colpi di bastone come mezzo di tortura e di pena, appartiene ancora, nel modo più completo, all'epoca prerivoluzionaria. Tutto ciò che c'è in più per Dühring viene dal maligno: tanto il moderno diritto borghese francese, quanto il diritto inglese, con il suo sviluppo particolarissimo e le sue guarentigie della libertà personale sconosciute in tutto il continente. La filosofia che "non ammette orizzonti meramente apparenti, ma che invece, col suo moto possentemente rivoluzionario, avvolge tutte le terre e i cieli della natura esterna ed interna", ha come suo orizzonte reale i confini delle sei vecchie province orientali della Prussia [56] e tutt'al più i pochi altri brandelli di terra dove vige il nobile Landrecht; e al di là di questo orizzonte non avvolge né cielo né terra, né natura esterna né natura interna, ma solo il quadro della più crassa ignoranza di quello che succede nel resto del mondo.

Non si può parlare bene di morale e di diritto senza affrontare la questione del cosiddetto libero arbitrio, della responsabilità dell'uomo, del rapporto di libertà e necessità. Anche la filosofia della realtà ha per questa questione, non solo una, ma perfino due soluzioni.

"Al posto di tutte le false teorie sulla libertà bisogna porre la natura del rapporto sperimentale nel quale la coscienza razionale, da una parte, e le determinazioni istintive, dall'altra, si unificano, per così dire, in una forza intermedia. I fatti basilari di questa specie di dinamica devono trarsi dall'osservazione, e per dare in anticipo anche la misura di ciò che ancora non è accaduto, per quanto è possibile, devono valutarsi, in generale, secondo la loro specie e la loro grandezza. Perciò le sciocche fantasie sulla libertà interiore di cui si sono cibati dei millenni, non solo vengono radicalmente eliminate, ma vengono anche sostituite da qualche cosa di positivo, che può essere utilizzato per la organizzazione pratica della vita".

Conseguentemente la libertà consiste nel fatto che l'uomo è trascinato a destra dalla conoscenza razionale, a sinistra dagli istinti irrazionali, e in questo parallelogramma delle forze il movimento reale avviene nella direzione della diagonale. La libertà sarebbe quindi la media tra conoscenza e istinto, intelletto e mancanza di intelletto, e io, suo grado di ogni singolo individuo dovrebbe essere stabilito sperimentalmente e, per usare un'espressione astronomica [57], mediante una "equazione personale". Ma poche pagine dopo si dice:

"Noi fondiamo la responsabilità morale sulla libertà, la quale tuttavia non significa altro per noi che l'essere accessibili a motivi coscienti, nella misura dell'intelletto che abbiamo per natura o acquisito. Tutti questi siffatti motivi, malgrado si percepisca la possibilità del contrario, agiscono nelle azioni con ineluttabile necessità naturale; ma noi contiamo precisamente su questa costrizione inevitabile, allorché facciamo intervenire le leve morali".

Questa seconda determinazione della società che fa completamente a pugni con la prima non è altro, a sua volta, che uno straordinario appiattimento della concezione hegeliana. Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. "Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa." [58] La libertà non consiste nel sognare l'indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l'esistenza fisica e spirituale dell'uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l'una dall'altra tutt'al più nell'idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il giudizio dell'uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l'incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere determinato da quell'oggetto che precisamente essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. I primi uomini che si separarono dal regno degli animali erano tanto privi di libertà in tutto quello che è essenziale, quanto gli stessi animali, ma ogni progresso verso la civiltà era un passo verso la libertà. Alla soglia della storia dell'umanità sta la scoperta della trasformazione del movimento meccanico in calore, la produzione del fuoco per sfregamento; la conclusione dello sviluppo che si è avuto sinora sta la scoperta della trasformazione del calore in movimento meccanico: la macchina a vapore. E malgrado la gigantesca rivoluzione liberatrice, non ancora compiuta per metà, che la macchina a vapore opera nel mondo sociale, è tuttavia fuori dubbio che la produzione del fuoco per sfregamento ha avuto sul mondo un'azione liberatrice superiore a quella della macchina a vapore. Infatti la produzione del fuoco per sfregamento diede all'uomo per la prima volta il dominio di una forza naturale e con ciò lo separò definitivamente dal regno degli animali. La macchina a vapore non farà mai fare allo sviluppo dell'umanità un salto così imponente, per quanto essa possa anche essere per noi rappresentativa di tutte quelle poderose forze produttive che si appoggiano ad essa e solo con l'aiuto delle quali si rende possibile una situazione sociale in cui non ci siano più differenze di classi, preoccupazioni per i mezzi di sussistenza degli individui, e in cui per la prima volta possa parlarsi di vera libertà umana, di un'esistenza in armonia con le leggi naturali conosciute. Ma quanto sia ancora giovane la storia dell'uomo e quanto sarebbe ridicolo il voler attribuire alle nostre vedute odierne una qualche validità assoluta, appare dal semplice fatto che tutta la storia passata si può caratterizzare come storia dell'intervallo di tempo che passa dalla scoperta pratica della trasformazione del movimento meccanico in calore e quella del calore in movimento meccanico.

In Dühring la storia è trattata in verità in altra maniera. In generale essa, come storia degli errori, dell'ignoranza e della rozzezza, della violenza e dell'asservimento, è un oggetto che disgusta la filosofia della realtà; tuttavia in particolare essa si divide in due grandi sezioni, ossia: 1) dalla situazione in cui la materia è sempre eguale a se stessa, sino alla Rivoluzione francese e 2) dalla Rivoluzione francese sino a Dühring; e così il XIX secolo resta "ancora essenzialmente reazionario, anzi, per quanto riguarda lo spirito, esso lo è (!) ancor di più del secolo XVIII", ma, tuttavia, reca nel suo seno il socialismo e di conseguenza "il germe di un rivolgimento più possente di quello che fu sognato (!) dai precursori e dagli eroi della Rivoluzione francese". Il disprezzo della filosofia della realtà per la storia precedente si giustifica nella seguente maniera:

"I pochi millenni per i quali i documenti originali rendono possibile una reminiscenza storica, non possono significare gran che, con lo sviluppo che essi hanno dato all'umanità sino ai nostri giorni, se si pensa alla serie dei millenni futuri (...) Il genere umano, preso come un tutto, è ancora molto giovane, e se un giorno l'anamnesi storica scientifica dovrà contare gli anni a decine di migliaia, anziché a migliaia, l'infanzia spiritualmente immatura delle nostre istituzioni avrà irrefutabile valore di premessa evidente sulla nostra epoca, che sarà allora considerata come antichità primeva".

Senza fermarci più a lungo sulla "forma linguistica" veramente "originale" di quest'ultima proposizione, notiamo solo due cose: in primo luogo che questa "antichità primeva" in ogni caso resterà un periodo storico del più alto interesse per tutte le generazioni future, poiché costituisce il fondamento di ogni più alto sviluppo ulteriore, perché ha come suo punto di partenza lo svincolarsi dell'uomo dal regno degli animali e come suo contenuto il superamento di difficoltà quali mai più si opporranno agli uomini associati dell'avvenire. E in secondo luogo che la fine di quest'antichità premeva, di fronte alla quale i futuri periodi storici, che, non più inceppati da queste difficoltà e da questi ostacoli, promettono ben altri successi scientifici, tecnici e sociali, è in ogni caso un momento scelto in un modo assai singolare per dare delle prescrizioni ai millenni futuri, per mezzo di verità definitive di ultima istanza, verità immutabili e concezioni che vanno alle radici delle cose, scoperte sulla base dell'infanzia spiritualmente immatura del nostro secolo tanto "arretrato" e tanto "retrogrado". Bisogna essere proprio il Richard Wagner della filosofia, seppure senza l'ingegno di Wagner, per non accorgersi che tutte le parole di disprezzo lanciate sullo sviluppo storico che si è avuto sinora restano parimente appiccicate a quel che si pretende ultimo risultato dello sviluppo storico: alla cosiddetta filosofia della realtà.

Uno dei brani più significativi della nuova scienza che va alle radici delle cose è la sezione sulla individualizzazione e la valorizzazione della vita. Qui zampilla e fluisce qual getto sorgivo e incontenibile, per tre interi capitoli, il luogo comune in tono oracolare. Disgraziatamente noi dobbiamo limitarci a pochi e brevi saggi.

"L'essenza più profonda di ogni sensazione e di conseguenza di tutte le forme soggettive della vita poggia sulla differenza di stati (...) Ma per la vita nella sua pienezza (!) si può provare anche senz'altro (!) che si incrementa il sentimento vitale e si eccitano gli stimoli decisivi, non già attraverso il permanere in una posizione, ma attraverso il passare da una situazione all'altra della vita (...) Lo stato che resta approssimativamente uguale a se stesso, per così dire in una permanenza inerte e, diciamo, in una stessa posizione di equilibrio stabile, qualunque ne sia la natura, non può significare gran che per provare l'esistenza (...) L'abituarsi e, per così dire, il vivere in questo stato, lo trasforma completamente in qualche cosa di indifferente ed irrilevante che non si distingue particolarmente dallo stato di morte. Tutt'al più vi si aggiunge ancora un'altra specie di moto vitale negativo, il supplizio della noia (...) In una vita stagnante si spegne per i popoli ogni passione e ogni interesse per l'esistenza. Ma con la nostra legge della differenza tutti questi fenomeni divengono spiegabili."

È incredibile la celerità con cui Dühring stabilisce i suoi risultati originali sin dalle fondamenta. Ecco appena tradotto nel linguaggio della filosofia della realtà il luogo comune che l'eccitazione continua di uno stesso nervo o il perdurare dello stesso stimolo affatica ogni nervo ed ogni sistema nervoso, che quindi nello stato di normalità devono aver luogo interruzioni e cambiamenti degli stimoli nervosi: cosa che da anni si può leggere in ogni manuale di fisiologia e che ogni filisteo sa per esperienza. Questa vecchissima banalità è stata appena tradotta nella formula misteriosa che l'essenza più profonda di ogni sensazione poggia sulla differenza di stati, ed ecco che si trasforma di già nella "nostra legge della differenza". E questa legge della differenza rende "completamente spiegabile" tutta una serie di fenomeni, che a loro volta sono soltanto illustrazioni ed esempi della piacevolezza della variazione, i quali anche per l'intelletto del più comune dei filistei non abbisognano di spiegazione alcuna, e che col richiamo a questa pretesa legge della differenza non guadagnano in chiarezza neppure una briciola.

Ma con tutto ciò, la capacità di andare alle radici propria della "nostra legge della differenza", è ancora lontana dall'essere esaurita:

"La successione delle età della vita e l'apparire dei cambiamenti di queste condizioni di vita che ad esse si ricollegano offre un esempio molto calzante per rendere evidente il nostro principio della differenza (...) Bambino, ragazzo, adolescente e uomo maturo esperimentano il vigore del senso vitale di ciascuno di questi periodi della loro vita, non tanto per mezzo di quegli stati ormai fissati in cui di volta in volta si trovano, quanto per mezzo delle epoche di passaggio dall'uno di questi stati all'altro".

E non è ancora abbastanza:

"La nostra legge della differenza può avere un'applicazione ancora più lontana se prendiamo in considerazione il fatto che la ripetizione di ciò che è stato già provato o compiuto non presenta nessuna attrattiva".

Ed ora il lettore stesso può immaginare le sciocchezze in stile da oracolo alle quali danno appiglio proposizioni che hanno una profondità e una capacità di andare alle radici pari a quelle riportate sopra. E Dühring può bene esclamare trionfante nella chiusa del suo libro: "La legge della differenza è diventata, praticamente e teoricamente ad un tempo, decisiva per la stima e l'incremento del valore della vita!". E del pari per la stima che Dühring fa del valore spirituale del suo pubblico: costui deve credere che questo pubblico sia composto di puri somari o filistei.

Più oltre ci vengono somministrate queste norme di vita straordinariamente pratiche:

"I mezzi per tener desto tutto quanto l'interesse per la vita" (un bel compito per i filistei e per quelli che vogliono diventarlo!) "consistono nel far sì che gli interessi singoli, e per così dire elementari, di cui è composto l'interesse nella sua totalità, si sviluppino o si succedano a vicenda secondo gli intervalli di tempo naturali. Ma nello stesso tempo, perché si produca il medesimo stato, bisogna utilizzare anche la successione graduale, in cui gli stimoli più bassi e più facili a soddisfarsi possano venir sostituiti da eccitazioni più elevate e costantemente attive: e ciò al fine che sia impedito il formarsi di vuoti totalmente privi d'interesse. Ma del resto l'importante sarà scongiurare che le tensioni che insorgono naturalmente o in altra guisa nel corso normale dell'esistenza sociale siano arbitrariamente accumulate, forzate, ovvero, ciò che è l'assurdità contraria, vengano soddisfatte sin dal loro più lieve moto, in modo da impedire che con il loro sviluppo esse diventino un bisogno suscettibile di godimento. L'osservanza del ritmo naturale è qui, come altrove, la condizione preliminare del movimento regolare e attraente. Né ci si dovrà porre il problema insolubile di prolungare gli stimoli di una situazione qualsiasi al di là dei limiti imposti loro dalla natura o dalle circostanze, ecc.".

quel galantuomo che vorrà prendere come norma della "esperienza della vita" queste solenni sentenze oracolari da filisteo, di una pedanteria che sottilizza sulle più insulse banalità, non avrà certo da lamentarsi di "vuoti totalmente privi di interesse". Egli avrà bisogno di tutto il suo tempo per preparare e ordinare in perfetta regola i suoi godimenti, cosicché per godere non gli resterà libero neppure un istante.

Noi dobbiamo far esperienza della vita, di tutta la vita. Solo due cose Dühring ci proibisce: in primo luogo "la porcheria dell'uso del tabacco", e in secondo luogo i cibi che "hanno proprietà disgustosamente eccitanti o in generale ripugnanti per una sensibilità un po' raffinata". Ma poiché Dühring nel suo Corso di economia celebra così ditirambicamente la distillazione dell'acquavite, non potrà comprendere tra queste bevande la grappa; siamo perciò costretti a concludere che la sua proibizione si estende semplicemente al vino e alla birra. Non avrà allora che da abolire anche la carne ed avrà così portato la filosofia della realtà allo stesso livello su cui si muoveva con tanto successo il fu Gustav Struve: al livello della puerilità pura e semplice.

Del resto Dühring potrebbe essere un po' più liberale per quel che concerne le bevande spiritose. Un uomo che, per sua stessa confessione, ancora non può trovare il ponte di passaggio dallo statico al dinamico, ha tutte le ragioni di essere indulgente nel suo giudizio, se un povero diavolo qualche volta alza un po' il gomito e di conseguenza anche lui cerca invano il ponte di passaggio dal dinamico allo statico.

 

Note

*2. Quanto sopra, da quando io lo scrissi, sembra aver già trovato conferma. Secondo le indagini più recenti condotte da Mendeleiev e da Boguski con apparecchi più perfezionati [41], tutti i gas perfetti mostrano un rapporto variabile tra pressione e volume; nell'idrogeno il coefficiente di dilatazione è stato positivo per tutte le pressioni sinora applicate (la diminuzione del volume è stata più lenta dell'incremento della pressione); nell'aria atmosferica e negli altri gas sottoposti ad indagine si è trovato per ciascuno un punto di pressione zero in cui, a pressione più debole, si ha un coefficiente positivo, e a pressione più forte negativo. La legge di Boyle, sinora sempre praticamente utilizzabile, dovrà quindi essere integrata da tutta una serie di speciali leggi. (Ora, nel 1885, noi sappiamo anche che non ci sono gas "perfetti". I gas sono stati tutti ridotti allo stato fluido.)

41. Qui Engels espone il contenuto di una notizia apparsa sulla rivista "Nature" del 16 novembre 1876. Essa informava sul discorso tenuto da D. I. Mendeleiev il 3 settembre 1876 al V Congresso degli scienziati e medici russi, a Varsavia, in cui Mendeleiev riferiva i risultati degli esperimenti da lui compiuti nel 1875 e 1876, insieme a J. J. Boguski, per verificare la legge Boyle-Mariotte.

L'ultima frase della nota, chiusa tra parentesi, fu aggiunta da Engels nella seconda edizione (1885) dell'"Anti-Dühring".

42. "Per il gatto" si dice in tedesco di una cosa perfettamente inutile.

43. Il "Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini" di J-J Rousseau, scritto nel 1754 e pubblicato l'anno successivo.

44. La guerra dei trent'anni (1618-1648) fu una guerra europea che cominciò in Boemia con una rivolta contro la monarchia asburgica e l'avanzare della reazione cattolica. Essa si sviluppò in un conflitto tra il campo cattolico-feudale (il papa, gli Asburgo di Spagna e d'Austria, i principi cattolici tedeschi) e i paesi protestanti (Boemia, Danimarca, Olanda e vari Stati tedeschi riformati) appoggiati dai re francesi, rivali degli Asburgo. La Germania fu uno dei teatri principali della guerra, oggetto di saccheggi e rivendicazioni da parte dei partecipanti. La pace di Westfalia, del 1648, sancì lo smembramento politico della Germania.

45. Max Stirner (1806-1856), individualista anarchico, nel suo libro "L'Unico e la sua proprietà" assumeva atteggiamenti presuntuosi simili a quelli che Engels rimprovera a Dühring. La critica di Marx ed Engels a Stirner occupa la maggior parte dell'"ideologia tedesca" (1845-1846).

46. Pacifici nel paese (Die Stillen im Lande) erano detti i pietisti, in particolare una setta che si diffuse in Germania nel XVIII secolo.

47. Si tratta di episodi della conquista dell'Asia centrale da parte della Russia. Durante la campagna di Chiava (1873) un reparto di truppe russe comandate dal generale Golovatsciov, che dipendeva dall'aiutante generale K. P. Kaufmann, nei mesi di luglio e agosto condusse una crudelissima spedizione punitiva contro la tribù turkmena dei Jomudi. La fonte principale da cui Engels ricavò le notizie su questi fatti era evidentemente l'opera in due volumi del diplomatico americano Eugene Schuyler "Turkistan. Notes of a journey in Russian Turkistan, Kokhand, Bukhara and Kuldja", Londra, 1876, pp. 356-359.

48. Cfr. K. Marx, "Il Capitale", libro I, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 92.

*3. Questa deduzione delle moderne idee di eguaglianza dalle condizioni economiche della società borghese è stata esposta per la prima volta da Marx nel "Capitale".

49. Cfr. K. Marx, "Il Capitale", libro I, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 92. Nell'"Anti-Dühring" Engels cita il primo, libro del "Capitale" dalla seconda edizione (1872); cita invece dalla terza edizione (1882) solo nel testo rielaborato nel capitolo X della seconda sezione.

50. Diritto del Land: gli Stati tedeschi avevano il nome di Länder, che poi rimase anche dopo la riunificazione della Germania. Il Landrecht prussiano, risalente al 1794, riuniva il diritto civile, commerciale, di scambio, marittimo, di assicurazione, penale, ecclesiastico, pubblico e amministrativo; esso fissò nella legislazione il carattere retrivo della Prussia feudale e pareri essenziali di esso restarono in vigore fino all'introduzione del codice civile del 1900.

51. Il Code pénal francese del 1810 fu introdotto da Napoleone nelle regioni conquistate della Germania occidentale e sud-occidentale; nella provincia renana esso restò in vigore, insieme al code civil, anche dopo la sua annessione alla Prussia (1815). Il governo prussiano cercava d'introdurre di nuovo in questa provincia il Landrecht prussiano. Tutta una serie di leggi, decreti e prescrizioni doveva restaurare nella provincia renana i privilegi feudali della nobiltà (i maggioraschi) e il diritto penale, matrimoniale ecc. prussiani. Questi provvedimenti, che suscitarono una decisa opposizione nella provincia renana, furono aboliti dopo la rivoluzione di marzo con le ordinanze del 15 aprile 1848.

52. Il Code Napoléon era il codice civile francese del 1807, nuovamente formulato sulla base del "Code civil des Français" proclamato nel 1804. Qui Engels parla del Code Napoléon in senso largo, intendendo tutti i cinque codici pubblicati sotto Napoleone dal 1804 al 1810: Code civil (1804), Code de procédure civil (1806), Code de commerci (1807), Code d'instruction criminelle (1808) e Code pénal (1810).

53. È l'obiezione mossa da Spinoza nell'"Etica" (parte I, "Su Dio", appendice) contro chi spiega finalisticamente tutti i fenomeni adducendo come causa la volontà divina e appellandosi all'ignoranza di altre cause.

54. Il "Corpus juris civilis" è l'insieme dei testi giuridici raccolti e pubblicati sotto l'imperatore Giustiniano nel VI secolo.

55. Il registro civile fu introdotto in Prussia, per iniziativa di Bismarck, con la legge del 9 marzo 1874. Una legge analoga per tutto l'impero tedesco fu emanata il 6 febbraio 1875. Essa toglieva alla Chiesa il diritto di compiere le registrazioni di stato civile e limitava così la sua influenza e le sue entrate. Questa legge era soprattutto diretta contro la Chiesa cattolica e costituì un atto essenziale del cosiddetto Kulturkampf, la "lotta per la civiltà" condotta dal 1871 da Bismarck contro l'influenza politica e culturale della Chiesa cattolica.

56. Erano le province di Brandeburgo, Prussia orientale, Prussia occidentale, Posnania, Pomerania e Slesia, che appartenevano al regno di Prussia già prima del congresso di Vienna del 1815. La provincia renana, più progredita sotto l'aspetto economico, politico e culturale, fu unita alla Prussia nel 1815.

57. In astronomia il termine "equazione" indica anche la correzione che bisogna apportare alle osservazioni fatte: per stabilire la posizione di un corpo celeste, per esempio, si deve tener conto del tempo impiegato dalla luce per giungere da esso all'osservatore. Ma ci sono fattori d'errore puramente soggettivi: osservatori diversi non concordano nel determinare il momento del passaggio di un corpo celeste sul meridiano. Così, in generale (specie in psicologia sperimentale), si chiama "equazione personale" la diversità di comportamento, dovuta a ragioni psico-fisiologiche, che porta individui diversi ad apprezzare diversamente uno stesso fenomeno.

58. Vedi Hegel, "Encyklopädie der philosophischen. Wissenschaften...", par.147, aggiunta. Il corsivo è di Engels.

 


Ultima modifica 16.10.2002