MENGISTU HAILE MARIAM

Intervista a Carlo Gregoretti di la Repubblica

1987


Written: November 1987
Published: November 11 and 14, 1987
Source: la Repubblica, November 11, 1987 and la Repubblica, November 14, 1987
Digitalisation: Rutgers University Library
Proof-reading: Vishnu Bachani
HTML: Vishnu Bachani


"Faccette bianche statemi a sentire": Menghistu spiega il problema Etiopia

Una tremenda carestia minaccia di nuovo la vita di milioni di etiopi In questa intervista il leader della "rivoluzione etiopica" risponde alle critiche che l'Occidente gli muove

ADDIS ABEBA — Da oltre dieci anni è il capo rispettato e temuto di una delle più grandi, probabilmente la più antica, sicuramente la più povera tra le nazioni africane. Una terra drammatica e nobile, splendida e sfortunata. La terra che i nostri padri (o i nostri nonni) vennero mandati a conquistare. E la conquistarono combattendo e morendo, ma anche cantando ed esaltandosi come solo i poveri sanno esaltarsi appena s'accorgono di non essere i più poveri.

A quel tempo, Menghistu Haile Mariam, primo presidente della Repubblica Popolare Democratica d'Etiopia, sicuramente non era ancora nato. E tuttavia, quando ne incontro lo sguardo davanti ai drappeggi rossi della grande sala del Partito dove ha accettatoti di ricevermi, l'imbarazzo che provo non è poco. Lui mi scruta severo, impermeabile al mio accenno di sorriso. Ed è come se in silenzio mi accusasse di aver cantato anch'io Faccetta Nera. Di essere anch'io uno di quelli che giuravano «ti porteremo a Roma liberata…».

Sono le 9 di mattina. Lungo i lucidi viali che salgono fino alla sede del WPE (Workers' Party of Ethiopia) l'aria è sottile e gli alberi di giacaranda sono carichi di fiori azzurri come il cielo. Sui marciapiedi, minuscoli bambini lustrascarpe assediano con suppliche discrete ogni possibile cliente; ai semafori, invece, i mendicanti vanno in coppia, tenendosi premurosamente sottobraccio. Per lo più sono coppie di ragazzi e solo quando s'avvicinano all'auto, le teste chine contro il finestrino, t'accorgi che, dei due giovani, uno è cieco: mentre l'altro ti guarda con la mano tesa, lui spalanca le palpebre, roteando gli occhi bianchi e trasparenti come certi piccoli frutti tropicali. Ma niente, neppure lo strazio dei ciechi, neppure la miseria dell'«altra Addis Abeba» (una città di baracche e di fango intrecciata alla città dei palazzi e dei viali) suggerisce l'esatta dimensione dei problemi che investono l'Etiopia. Appena cinquant'anni fa erano meno di 15 milioni oggi gli etiopici sono 46 milioni, il loro tasso di crescita sfiora il 3 per cento (il più alto del mondo), il loro reddito pro capite supera di poco i 100 dollari (il più basso), dei loro figli, 150 su mille muoiono senza riuscire a compiere i 5 anni, le loro foreste che coprivano il 40 per cento del territorio, sono scese al 3,9 percento. Poi c'è l'erosione dei suoli, la ricorrente carestia, ci sono i 25 anni di lotta contro i secessionisti eritrei, c'è la guerriglia in Tigrai, le tensioni e gli scontri alle frontiere di Sudan e Somalia (sicché il 40 per cento del bilancio statale se ne va per le spese militari). C'è ancora la piaga della sottonutrizione generale e c'è il conseguente problema della dipendenza alimentare dagli aiuti esteri: c'è infine la stampa occidentale che accusa Menghistu di «armarsi ad Est ma di nutrirsi ad Ovest» (oltre a condannare senza appello la sua politica di villaggizzazione e di resettlement); e c'è soprattutto, dopo la siccità del 1984 che causò circa un milione di morti, nuova grande siccità del 1987 che già si annuncia più catastrofica dell'altra.

Presidente Menghistu, da dove vogliamo cominciare?

Seduto al centro di un immenso tavolo a «U», dritto e severo nella sua giubba azzurra chiusa fino al collo, il compagno Menghistu Haile Mariam s'avvicina al microfono e risponde. Parla in amarico (accidenti!) e lì per lì non si capisce nulla. Ma poi il compagno Girma Beshah[1], suo autorevole assistente ed interprete, provvede a tradurre in buon inglese:

«Lei sa», dice Menghistu, «che la nostra rivoluzione ha soltanto 13 anni di vita. Ed è stata la rivoluzione di un popolo che ha millenni di storia alle spalle, ma anche secoli di oppressione, di violenze, di sofferenze, di sfruttamento, di ingiustizie. Dagli aggressori esterni, gli etiopici si sono sempre difesi: ogni volta che è stato necessario hanno superato le loro differenze di lingua, di nazionalità, di cultura, si sono trovati uniti a proteggere la loro indipendenza anche quando tutta l'Africa era una vostra colonia…».

Unico diritto: sopravvivere soffrendo

Nostra?

«Insomma, una colonia europea: un intero continente—tranne l'Etiopia—è stato per secoli sotto il tallone di poche nazioni europee, le stesse che oggi guardano con sospetto ai nostri sforzi di costruirci autonomamente un avvenire. All'interno, però, il quadro è stato sempre diverso e la storia del nostro popolo è la storia di gente sistematicamente schiacciata da regimi feudali e tirannici, spogliata dei frutti del proprio lavoro, privata dei diritti umani elementari, condannata alla fame, alle epidemie, alla morte. Bene, tutto questo è finito appena ieri, il 12 settembre 1974, giorno della deposizione del Negus. E oggi, cioè a partire da quest'anno, l'Etiopia è una repubblica, si è data un ordinamento democratico, ha un Parlamento eletto a suffragio universale, una costituzione elaborata dal popolo e approvata con referendum popolare. Io stesso, dal 12 settembre scorso, tredicesimo compleanno della rivoluzione, non sono più il capo di un Consiglio militare amministrativo provvisorio, sono il presidente di una Repubblica popolare democratica, eletto dal Parlamento, cioè dal popolo, come avviene in tutte le democrazie del mondo.»

Come mai ci sono voluti tredici anni?

«Non sono molti, tredici anni, se guardiamo allo stato in cui versava il Paese nel '74. L'Etiopia, come ho ricordato, era un paese feudale, i ras e l'imperatore da una parte, il popolo dall'altra. E l'unico diritto del popolo era quello di soffrire, di sopravvivere soffrendo, lontano da qualsiasi idea di società odi cultura democratica. La sola società minimamente organizzata, a quei tempi, erano i militari; ed è per questo, solo per questo, che è toccato a loro farsi avanti, assumersi delle responsabilità, avviare un processo di crescita democratica, di progressiva e sofferta uscita dal medioevo. Vuole un semplice dato? Nel 1974 gli etiopici che sapevano leggere e scrivere erano poco più del 7 percento; oggi sono il 60,2 per cento; nel 1994, alla fine del TYPP (Ten-Year Perspective Plan) non ci sarà più un analfabeta: lei come giudica tutto questo?».

Mi sembra un fatto molto positivo.

«E pensa che un paese medioevale possa trasformarsi in una democrazia senza passare, per l'educazione?».

Direi di no.

«Lei conosce la nostra Costituzione?».

Ne ho appena avuta una copia.

«Se avrà la pazienza di leggerla vedrà che all'articolo 2, comma 1, è detto che la PDRE (People's Democratic Republic of Ethiopia) è uno Stato unitario nel quale tutte le nazionalità vivono alla pari; e lo stesso articolo, al comma 4, afferma che la PDRE garantirà la realizzazione delle autonomie regionali. Allora le chiedo: crede che queste siano conquiste da poco sulla strada della crescita democratica, e civile, ed economica, di un paese partito da tanto lontano?».

Direi di no, compagno Presidente. Ma mi lasci fare due domande anche a me. Conte spiega, per esempio, la scarsa attenzione che i governi e i mezzi di comunicazione occidentali hanno dato alle conquiste di cui lei parla?

«I nostri sforzi, se mi permette, non sono fatti per piacere o dispiacere a quel gruppo o a quel governo occidentale. Noi lavoriamo, noi lottiamo, per liberare il nostro popolo dall'arretratezza, per costruire una società caratterizzata dall'eguaglianza, dalla giustizia e dal collettivo benessere. Se le nazioni occidentali, soprattutto quelle di più forti tradizioni democratiche, non si mostrano interessate a tutto questo, non registrano con simpatia l'aspirazione del nostro popolo a costruirsi a sua volta una tradizione democratica, beh la colpa non è nostra. Tutto quel che noi possiamo fare è illustrare le nostre conquiste politiche alla comunità internazionale che abbia davvero voglia di conoscerle: spiegare meglio, al mondo, il loro valore, il loro significato».

Può spiegare intanto, ai lettori di «Repubblica», in che modo la nuova costituzione, il nuovo Parlamento, lo stesso nuovo titolo del capo dello Stato etiopico, dovrebbero aiutare a risolvere i due problemi più gravi e più urgenti che stanno strangolando il suo Paese? Alludo alla nuova carestia e all'aggravarsi della situazione militare nelle regioni investite dalla guerriglia, prima tra tutte, l'Eritrea.

«Sono problemi, come lei sa, fortemente legati uno all'altro. E non soltanto per le risorse che il secondo impegna sottraendole al primo. L'Eritrea non è qualcosa di diverso dall' Etiopia. L'Eritrea è Etiopia, come il Goggiam o lo Shoa, come il Bale o il Tigrai. È una regione nella quale convivono diverse nazionalità e che storicamente ha avuto un ruolo importantissimo nello sviluppo della cultura etiopica, nell'affermazione della nostra civiltà. Una volta il centro dell'Etiopia era più a Nord, eravamo una nazione costiera con tradizioni artigianali e forti interessi commerciali sul Mar Rosso. Sono state le pressioni esterne a farci slittare progressivamente verso Sud, obbligandoci a costruire un'economia basata esclusivamente sull'agricoltura. E dunque a spingerci gradualmente verso l'arretratezza».

Leggi in linea con le aspettative

È un fatto però che gli eritrei combattono da venticinque anni per l'indipendenza.

«È vero, è un fatto. Ma da venticinque anni ad oggi è intervenuta un'importante novità, c'è stata la rivoluzione, il popolo etiopico ha deciso di lottare per costruire la nuova Etiopia di tutti, nella quale tutti abbiano uguali diritti, indipendentemente dalla lingua che parlano, dalla nazionalità cui appartengono, dalla religione che professano. E la loro lotta ha già avuto dei successi: la prima decisione del National Shengo (Parlamento nazionale) inaugurato il 12 settembre scorso è stata quella di dividere il paese in 5 regioni autonome e 24 regioni amministrative. La più rilevante tra le regioni autonome sarà l'Eritrea, a sua volta divisa in tre regioni speciali amministrative, una a Nord, una a Ovest, una a Sud della regione. Questo vuol dire che presto gli eritrei andranno a votare, eleggeranno il loro Shengo regionale e i tre shengos locali, si daranno leggi adatte ai foro interessi, in linea con le loro attese. Con un unico limite: che i loro interessi e le loro attese non siano in contrasto con gli interessi e le attese di tutto il popolo etiopico».

Presidente Menghistu, anche sei giornali di Addis Abeba non ne parlano, tutti sanno che la guerriglia eritrea è in questi giorni più attiva che mai. Gli osservatori occidentali registrano notizie di scontri, di attacchi, di distruzioni, di morti: che vuol dire? Che il Fronte di Liberazione Eritreo non sa che farsene della promessa autonomia? E ancora: molti si aspettavano che in occasione della proclamazione della Repubblica e della solenne inaugurazione del suo primo Parlamento, lei facesse un gesto, lanciasse un appello, insomma prendesse un'iniziativa capace di venir recepita dalla controparte eritrea come un segnale di pace, o almeno di volontà di arrivare alla pace. Come mai questo segnale non c'è stato?

«Stia a sentire: l'Eritrea attuale non è stata fatta dagli eritrei ma da forze esterne che l'hanno disegnata come noi la vediamo. Ho già ricordato che era ed è una parte storicamente e culturalmente importante della nazione etiopica. E poiché è la sola area della nazione etiopica che abbia conosciuto alcuni decenni di colonialismo, si può capire che alla base della fotta portata avanti per venticinque anni dai gruppi secessionisti eritrei (sto parlando di gruppi, non dell'intero popolo eritreo) ci siano aspirazioni e motivazioni psicologiche legate alle opportunità che l'assetto coloniale ha fatto emergere. Sono aspirazioni legittime. Ma i nostri sforzi di soddisfarle ricercando soluzioni democratiche e pacifiche sono stati sempre frustrati dalla cattiva volontà dei nostri interlocutori. Abbiamo teso la mano molte volte. La prima volta subito dopo la rivoluzione, al momento stesso della nascita del Consiglio Provvisorio Militare Amministrativo (con la «Dichiarazione in 9 punti»), l'ultima volta poche settimane fa con l'appello votato dal National Shengo subito dopo il suo solenne insediamento. Ma anche questo, come tutti gli altri, è svanito nel nulla».

E allora cosa prevede, Presidente? Non ci sarà mai pace in Eritrea?

«Risponderò alla sua domanda sottolineando che l'unica possibilità di pace in Eritrea è legata alla decisione dei gruppi secessionisti di accettare finalmente la volontà generale del popolo etiopico, lavorando per armonizzarsi all'interno della nostra grande società multinazionale. L'alternativa è soltanto distruzione. Ma noi continuiamo a sperare che questa realtà possa essere compresa».

"Il popolo è l'unica fonte di potere"

Insomma, lei dice la minestra è questa e c'è una sola cosa da fare: mangiarla…

«No, non lo dico io, lo dice il popolo etiopico che è oggi l'unica fonte del potere politico in questo nostro paese. Gli eritrei sono popolo etiopico, sono una delle tante nazionalità della nostra Repubblica. Ed è importante distinguere tra il popolo della regione Eritrea e i gruppi che in quella stessa regione conducono una lotta armata con finalità secessioniste. Del resto, nel referendum del febbraio scorso, quando si è chiesto al popolo di esprimere la propria volontà, l'89 per cento degli eritrei hanno votato in favore della nuova Costituzione».

Presidente, ho ancora molte cose da chiederle. Ci sono etiopici che muoiono per la guerra civile ed altri che muoiono perché incapaci di vincere una guerra endemica contro la miseria e la fame. Questi ultimi sono infinitamente più numerosi dei primi e lei sa che il mondo dà un giudizio molto severo sulle responsabilità legate allo sterminio per fame in Etiopia. Possiamo parlarne?

«Certamente, possiamo parlarne. Noi non abbiamo nulla da nascondere. Ma vorremmo essere giudicati serenamente, sulla base di una effettiva conoscenza dei dati del problema. E poiché il problema è immenso quanto solo possono esserlo i problemi che mettono in gioco la vita di milioni di esseri umani innocenti, le propongo di dedicare a questo argomento più tempo di quanto io ora non ne abbia».

Proposta accolta, Presidente. Possiamo vederci domani?

«Domani andrà benissimo».

"La carestìa impone nuove migrazioni": Menghistu e il suo piano per l'Etiopia. Addis Abeba vuol trasferire le tribù delle "terre morte"

Il presidente etiopico annuncia che è intenzionato a riprendere il programma di "resettlement" che negli anni passati è stato condannato come un'operazione studiata per mettere in difficoltà la guerriglia

ADDIS ABEBA — Il «Nuovo Fiore» sembra che stia per affogare da un momento all'altro. La pioggia gli crolla addosso rumorosa. E guardare la pioggia, da questa finestra all'ultimo piano del palazzo del «Workers' Party of Ethiopia», è come trovarsi davanti un gigantesco muro d'acqua, sgretolato qua e là da lampi improvvisi di sole.

Dai tetti della capitale che, giusto un secolo fa, la regina Taitù volle battezzare appunto «Nuovo Fiore» (Addis Abeba, in amarico) si sollevano nuvolette di vapore subito schiacciate dal diluvio. Un diluvio bizzarro perché a novembre non dovrebbe più piovere, è già arrivata la stagione secca. Ma anche il segno di una natura scandalosa perché, ancora una volta, in questo novembre 1987, è la siccità e non la pioggia a calamitare sull'Etiopia l'attenzione preoccupata del mondo.

Proprio oggi, all'aeroporto di Addis Abeba, è attesa una troupe della televisione americana. Vengono a filmare la siccità e la carestia. A documentare le ferite del sole sulla pelle di questo povero paese e dei suoi poveri, magrissimi abitanti. La fame dell'Etiopia si sposa con la fame di emozioni del mondo ricco e ipercosì. L'ultima volta, appena tre anni fa, fu proprio una troupe televisiva a garantire la sopravvivenza di un gran numero di etiopici affamati.

Era l'ottobre del 1984. Michael Buerk e Mohammed Amin, inviati della BBC, avevano portato la loro telecamera sugli altopiani del Wolla e del Tigrai, nel Nord-Est dell'Etiopia. E pochi giorni più tardi gli inglesi avevano visto l'inferno in casa propria, un inferno vero, non ricostruito, paesaggi danteschi di pietre e di polvere, tagliati da gole profonde, arroventati di giorno da un sole crudele, spazzati di notte dal vento gelato, ma soprattutto formicolanti di ombre nere alla disperata ricerca di cibo. Certo, molte (troppe) di quelle ombre morirono. Ma moltissime altre vennero salvate dallo slancio con cui il mondo reagì all'insopportabile spettacolo, mobilitando ogni sorta di soccorsi.

La morte in diretta

Era la prima volta che il più moderno dei mezzi di comunicazione documentativa da par suo il più crudele dei drammi del nostro tempo. Ma non era certo la prima volta che la siccità, la carestia e la fame trasformavano questo paese in una Mauthausen del tempo di pace.

Ma com'è possibile tanto accanimento? Perché la siccità e le carestie colpiscono l'Etiopia a ritmi sempre più accelerati? Si riuscirà ad evitare un'altra strage? Sono tutte domande, insieme ad altre, cui per la prima volta ha accettato di rispondere lo stesso presidente della Repubblica etiopica. Ascoltiamolo.

«Quando si parla di carestia in Etiopia», dice Menghistu Haile Mariam, «si parla di un flagello che non aggredisce l'intera popolazione del Paese ma la parte di essa che vive nei territori cosiddetti "degga"[2] e "woinadegga"[3], cioè negli altopiani e nelle zone di media altitudine. Poi ci sono i bassopiani, le terre che noi chiamiamo "kolle"[4]. E mentre il grosso della produzione agricola è tradizionalmente concentrato nelle aree "degga" e "woinadegga", la gente del bassopiano, cioè dell'area "kolle", si dedica all'allevamento del bestiame. Ma non si può mettere a fuoco il problema della carestia nel nostro paese se non si tengono presenti alcuni dati. Primo: l'ormai definitivo degrado di un numero sempre maggiore di terreni "degga" e "woinadegga", soprattutto nelle regioni del nord-ovest e del centro, resi praticamente sterili da tecniche agricole obsolete e dalla progressiva erosione del suolo. Secondo: la stretta interdipendenza tra le zone "kolle" e le altre due, sicché quando la siccità brucia i raccolti degli altopiani e delle zone intermedie, le conseguenze si faranno sentire non solo sulle popolazioni di queste due aree, che vivono della loro stessa produzione agricola, ma anche sulle popolazioni dei bassopiani che sono in una situazione di dipendenza alimentare dalle prime due».

Però nei bassopiani c'è il bestiame. Non è forse vero che l'Etiopia è il paese africano con il più alto numero di bovini, di capre, perfino di cammelli?

«È vero. Ed è anche vero, purtroppo, che una siccità concentrata nelle aree "degga" e "woinadegga" non sempre si ferma sui confini delle zone "kolle". Di solito invade anche buona parte di queste. E i pascoli secchi non sono in grado di nutrire gli animali».

Ma allora, tra altopiani, bassopiani e zone intermedie, è l'Etiopia intera ad essere investita dalla carestia…

«No, non è così, per fortuna. Le zone di cui stiamo parlando sono tutte nel nord-ovest, nell'ovest e nel centro del Paese. A sud e a sud-ovest la situazione è diversa, le stagioni delle piogge sono favorevoli, i campi sono bene irrigati, portate dai fiumi, le terre alluvionali del Nord scendono fin qui con i loro sedimenti che rappresentano una grande ricchezza per l'agricoltura. Ma è una ricchezza soltanto potenziale perché in realtà le terre del sud sono assai poco popolate: e questo è il terzo dato da tener presente per mettere a fuoco i connotati della carestia».

Ce n'è anche un quarto, Presidente?

«Ce ne sono molti altri, per la verità. C'è il problema della erraticità delle piogge, del loro imprevedibile disordine. "Belg"[5] e "Maher"[6], per esempio, sonole stagioni delle piccole e delle grandi piogge. Quelle del "Belg" sono attese in aprile, con qualche coda in maggio; le altre sono attese in giugno e luglio con strascichi in agosto e settembre. Ma basta che una o l'altra ritardi, oppure che arrivi in anticipo, e i raccolti sono perduti».

È quello che è successo quest'anno?

«Quest'anno il Belg era iniziato bene; poi la pioggia si è interrotta, o è caduta irregolarmente, e durante il Maher è mancata del tutto. Così i germogli si sono seccati e in molte regioni del Paese, nel Wollo, nel Tigrai, in Eritrea, nel Gonder orientale e nel nord dello Scioa non ci sarà né grano né mais, né sorgo né teff[7]».

Insomma, un disastro…

«Aspetti un momento. Se vogliamo che il quadro sia completo, dobbiamo aggiungere l'impossibilità di coltivare molte terre eritree dove operano le forze della distruzione, i nemici del popolo etiopico. E il problema della sicurezza, a dire il vero, vale anche per le regioni del Tigrai e del Wollo. Ma dobbiamo infine ricordare che il nostro Paese non soffre solo di siccità e di guerriglia: quest'anno, paradossalmente, abbiamo avuto un'inondazione; nell'Etiopia centrale, enormi superilei di terreno sono state distrutte insieme ai loro raccolti dallo straripamento del fiume Awash; nel nord, e soprattutto in Eritrea, i campi sono stati attaccati da sciami insolitamente grandi di locuste; nel sud e nel sud-ovest alcuni raccolti molto promettenti di sorgo hanno subito l'assalto di immensi stormi di "Girisa", uccelli migratori che vengono dalle regioni meridionali dell'Africa e divorano tutto».

Presidente Menghistu, in che modo il suo governo si prepara a fronteggiare tutto questo? Di quanto grano ci sarà bisogno per compensare i cereali distrutti dalla siccità e dalle cavallette, dall'inondazione e dagli uccelli?

«I dati di cui disponiamo fino a questo momento sono alquanto controversi. In alcune zone la siccità si sta rivelando grave e devastante, in altre il quadro è meno nero, si sono dette delle esagerazioni. In ogni caso, se davvero ci troveremo di fronte a un disastro di dimensioni molto superiori a quelle che le nostre attuali risorse possano fronteggiare, di certo non lo terremo nascosto. La comunità internazionale verrà tempestivamente informata, chiederemo assistenza».

Ma questo non è già avvenuto? Il mondo non è già stato avvertito? Non è vero che l'Etiopia ha bisogno di un milione di tonnellate di grano entro i prossimi due o tre mesi? E che se questo grano non arriva in tempo, dal tre ai quattro milioni di persone rischiano la morte per fame?

Deficit alimentare

«Come ho già detto, cifre affidabili ancora non ne abbiamo, quantificare esattamente il deficit alimentare legato alla nuova siccità è per il momento impossibile. Ma squadre di esperti sono al lavoro in tutte le aree interessate, stiamo aspettando i loro rapporti. E in ogni caso siamo tutti mobilitati per evitare che si ripeta la terribile situazione dei 1984-85».

Le avevo chiesto in che modo il suo governo si prepara a rifornire di cibo tutti quelli che tra un po' non avranno più nulla da mangiare. L'ultima volta, appunto nel 1984-85, i disastri maggiori si ebbero quando centinaia di migliaia di affamati abbandonarono le loro capanne in cima ai monti e, dopo aver vagato per giorni e giorni senza meta, vennero falcidiati dagli stenti e dalle epidemie nei campi di raccolta frettolosamente allestiti dai soccorritori. Succederà così anche stavolta?

«Non dovrebbe succedere. L'unico modo per evitare che la gente si metta in marcia alla ricerca del cibo è portargli il cibo davanti alla porta del tucul, oppure in un centro di distribuzione allestito nelle sue vicinanze».

E questo sarà possibile? Si farà in tempo a organizzare la distribuzione, soprattutto in aree isolate dove non esistono strade, oppure esistono e sono controllate dalla guerriglia?

«Sarà difficile, non impossibile. E in ogni caso questo è il nostro primo obiettivo, almeno finché dura l'emergenza. Ma c'è una cosa che vorrei sottolineare. Ed è che il modo migliore per fronteggiare l'emergenza resta quello di creare le premesse per evitare che una siccità si trasformi in emergenza. Il controllo di una natura punitiva come la nostra dipende in grandissima parte dallo sviluppo tecnologico e scientifico del nostro paese, soprattutto nel settore dell'agricoltura. Se in una parte dell'Etiopia c'è pioggia abbondante, lì dev'essere possibile coltivare la terra quanto basta a ricavarne un surplus di raccolto da destinare alla parte del Paese dove la siccità e il degrado dei suoli impediscono qualsiasi tipo di coltivazione. E se la parte fertile è sottopopolata, come è appunto il caso delle nostre regioni meridionali e occidentali, allora bisognerà portarci della gente, avviarne lo sfruttamento equilibrato di tutte le potenziali risorse».

Lei, Presidente, sta parlando di resettlement?

«Esattamente. Sto parlando dell'opportunità, anzi della necessità assoluta, di portare avanti nel nostro paese un grande programma di trasferimento di popolazioni dalle terre ormai morte del nord a quelle giovani e fertili del sud e dell'ovest. Non si tratta di deportazioni, come dicono in malafede i nostri nemici o come dicono in buona fede gli ignoranti. C'è un rapporto congiunto della FAO[8] e della Banca Mondiale che raccomanda al nostro governo di promuovere l'emigrazione urgente di almeno 150 mila persone ogni anno per consentire la crescita della produzione agricola nelle terre meridionali ancora non sfruttate. Ma anche per alleggerire contemporaneamente la pressione sulle aree del nord, in modo da avviarne progressivamente il recupero, almeno dove questo è possibile».

Dunque i programmi di resettlement che erano stati sospesi lo scorso anno in seguito alle proteste della comunità internazionale, stanno per essere ripresi?

«Possono essere ripresi anche subito. La sospensione è servita a mettere in piedi una preparazione che privilegi la libera volontà delle popolazioni e l'esigenza di evitare sofferenze come quelle che la drammatica situazione del 1984-85 rese purtroppo inevitabili».

Ma come risponde a chi l'accusa di togliere gente dal Wollo o dal Tigrai per privare la guerriglia dei suoi potenziali sostegni?

«Rispondo che i programmi di emigrazione interna riguardano la gran parte del Paese. E potrei citare lo Shoa, per esempio, la regione dalla quale è venuta via molta più gente di quanta non ne sia uscita dal Tigrai. Ma sarebbe fiato sprecato».

La gestione dell'agricoltura

Un'ultima domanda, Presidente Menghistu. Lei dice che la carestia si combatte razionalizzando e sviluppando l'agricoltura nelle zone dove questo è possibile. Dice anche (lo ha riaffermato nel settembre scorso durante la cerimonia di inaugurazione del primo parlamento della Repubblica) che lo sviluppo economico passa attraverso fa collettivizzazione e la statizzazione dell'agricoltura. Però in tutti i documenti ufficiali—compresi quelli delle agenzie internazionali—si legge che più del 90 per cento dell'agricoltura etiopica è ancora gestito dai privati. Come si spiega?

«Bisognerebbe chiederlo al presidente americano Ronald Reagan…»

Per quale ragione?

«Perché ancora recentemente, durante l'ultimo intervento pubblico dedicato a quest'angolo di mondo, ha detto che noi stiamo strangolando l'Etiopia per aver introdotto lo statalismo e la collettivizzazione nell'agricoltura. Lo ha detto per circa trenta minuti. Mentre se si fosse informato avrebbe potuto dire che se anche la socializzazione dell'agricoltura è un nostro obiettivo strategico, noi non abbiamo nessuna intenzione di imporlo per decreto. Peroragli obiettivi immediati sono altri. C'è da mettere in piedi un più corretto rapporto contadino-terra; bisogna fare in modo che i contadini prendano coscienza della necessità di conservare la natura, di proteggerla, di metterla in condizione di venir usata per il bene di tutti. Del resto, è proprio per questo che ci troviamo ancora nella fase democratica della nostra rivoluzione: una fase socialista verrà dopo. Ma Reagan non lo sospetta nemmeno ed io vorrei ricordargli una raccomandazione del suo concittadino Mark Twain: "When in doubt, tell the truth", nel dubbio, prova a dire la verità».

Editor's footnotes:

[1] ግርማ በሻህ in Amharic. Girma Beshah, born in 1931 in Haramaya (አለማያ), studied at the University of Lisbon and the University of Hamburg and served as Mengistu Haile Mariam's translator for many years. See Seifu Mahifere's 23 August 2002 article "Girma Beshah Geletu: Master Translator" in Addis Tribune for a full profile as well as an April 11, 2023 interview with Girma on Nahoo TV (ናሁ ቲቪ) available on YouTube under the title "ፕሬዝዳንት መንግስቱ በጣም ቁጥብ፣ የተረጋጉ፣ በሳል መሪ... ናቸው" አቶ ግርማ በሻህ (የኮረኔል መንግስቱ ኃ/ማርያም አስተርጓሚ).

[2] ደጋ in Amharic.

[3] ወይና ደጋ in Amharic.

[4] ቆላ in Amharic.

[5] በልግ in Amharic.

[6] መኸር in Amharic.

[7] ጤፍ in Amharic. A species of lovegrass cultivated for its seeds; one of Ethiopia's staple crops.

[8] The Food and Agriculture Organization of the United Nations.

[9] The Italian spelling of Mengistu is Menghistu.

[10] Given that the original scan is available, minor typos have been corrected without using [sic].