MENGISTU HAILE MARIAM

L’ex «ras» di Etiopia esce allo scoperto: «Io, Craxi e Andreotti». La prima intervista dall'esilio del Negus rosso

1995


Written: 1995
Published: June 8, 1995
Source: Riccardo Orizio, Sette: Corriere della sera, June 8, 1995, Milan, pp. 65-72
Digitalisation: Stanford University
Proof-reading: Vishnu Bachani
HTML: Vishnu Bachani


A me, Craxi e Andreotti ci ha fregati Gorbaciov

Che fine ha fatto il dittatore che per 16 anni è stato il padre padrone dell’Etiopia? «Sette» lo ha scovato in una villetta di Barare, la capitale dello Zimbabwe. E dopo una trattativa durata otto mesi lo ha convinto a raccontare la sua verità. Che dal Cremlino arriva fino a Tangentopoli.

Davvero Bettino Craxi vive in esilio all'estero, come me? Anche lui sotto accusa? Incredibile. No, non lo sapevo e mi dispiace molto. Qui mi arrivano poche notizie e mi devo accontentare dei ricordi. Ho conosciuto Bettino a Addis Abeba e gli sarò sempre grato per aver appoggiato il progetto agricolo nella valle del Tana Beles, una magnifico e generoso regalo italiano. Tangenti? Il più grande scandalo della vostra cooperazione? Non mi risulta. E Andreotti come sta? Eravamo così amici. Cosa? Anche lui nei guai? Non riesco a crederci. Che tristezza. La verità è che siamo stati lutti traditi da Gorbaciov: quel bugiardo controrivoluzionario ha distrutto l'Unione Sovietica consegnando il mondo agli americani e rovesciando tutti gli equilibri. Vuole sapere la vera storia del grande inganno di Gorbaciov? Io rischio molto, ma ora gliela racconto».

È dura la vita da ex. Chiuso ormai da quattro anni in una villetta di sei stanze ad Harare. capitale dello Zimbabwe, circondato da soldati che non lasciano avvicinare alcun estraneo, con l'ordine di non parlare con giornalisti pena la sua espulsione, il colonnello Menghistu Haile Mariam, 57 anni, è come un animale in gabbia. La delicata trattativa per ottenere un appuntamento telefonico è durata otto mesi e fino all'ultimo ha rischiato di naufragare. E l'ex presidente etiope sa che con questa confessione «illegale» rischia l'estradizione a Addis Abeba, dove lo attende un processo per genocidio e forse la condanna a morte. Ma una volta all'apparecchio, il «Negus rosso», che per 17 anni ha guidato l'ex colonia italiana con la ferocia di chi crede di aver strappato alia Storia l'immunità, non vorrebbe mai smettere di parlare. «Sono solo un militare, ho fatto quello che ho fatto solo perché bisognava salvare il mio Paese dal tribalismo e dal feudalesimo». E conclude con il ritornello di tutti i dittatori senza più trono: «Mi hanno tradito».

Menghistu sta scrivendo le sue memorie e beve molto. In teoria è libero di uscire di casa. «Ma dove vuole che vada? Mi riconoscerebbero dovunque: io sono Menghistu». Unica consolazione, il telefono. Il governo dello Zimbabwe, che gli garantisce asilo politico, paga la bolletta: 8 milioni al mese. Lui ricambia facendo il consulente del servizio segreto del presidente Robert Mugabe, il Cio. Dietro di sé, Menghistu si è lasciato una traccia di sangue e di sofferenze. Dittatore assoluto dal febbraio del 1977 al maggio del 1991, ha ordinato la fucilazione di decine di potenziali rivali e di migliaia di oppositori. In un Paese tra i più poveri del mondo, mentre la gente soffriva la carestia lui riceveva in regalo da Mosca 12 miliardi di dollari (circa 20 mila miliardi di lire) in carri armati, missili e aerei. Non sono bastati. Quattro anni fa è stato costretto alla fuga dai guerriglieri eritrei e tigrini, che hanno conquistato Addis Abeba. Insieme a Jean Bedel Bokassa e all'ugandese Idi Amin. Menghistu è stato uno dei «grandi» tiranni dell’Africa post coloniale. Ecco la sua verità.

SETTE: È vero che lei ha ucciso l'imperatore Hailé Selassié?

MENGHISTU: Non ce n era bisogno. Era vecchio, malato e nessuno lo amava. In passato aveva avuto anche idee progressiste e moderne, ma ormai aveva fatto il suo tempo. Non avevo nulla contro di lui sul piano personale, ma il popolo ci aveva chiesto di rovesciarlo e così io e i miei colleghi dell'esercito abbiamo fatto.

SETTE: Allora com e morto il «re dei re»?

MENGHISTU: Di morte naturale, credo. Certo, tra i miei uomini ce n’erano molti che avrebbero voluto ucciderlo con le proprie mani, perché avevano perso fratelli e padri per colpa sua. Resta un mistero: il medico che lo curava non mi avvertì del peggioramento delle sue condizioni e quindi io non ebbi la possibilità di accertarmi in prima persona di come erano andate le cose.

SETTE: Perché vent anni fa, dopo il colpo di Stato, decise di fare dell'Etiopia un regime stalinista?

MENGHISTU: Bussai alla porta degli americani, dicendo: «Sono dalla vostra parte, tra i nostri due Paesi c'è sempre stata amicizia, l'Etiopia ha perfino inviato truppe per combattere al vostro fianco in Corea. Ora aiutateci a ricostruire e a svilupparci». Loro mi risposero che erano troppo impegnati con il Vietnam e che non erano interessati all'Africa. Bussai alla porta della Cina, e la risposta fu no. Allora andai a Mosca. C'era Breznev, mi ricordo benissimo quando mi abbracciò al Cremlino. Gli spiegai la situazione e lui mi rispose: «Colonnello, eccetto la bomba atomica, il mio Paese è pronto a darle tutto ciò di cui crede di aver bisogno». E così fu. L’Urss ci aiutò con i fatti e non solo con le parole. Da quel momento Breznev divenne per me come un padre. In seguito ci siamo visti almeno dodici volte, sempre in Urss. Io gli dicevo: «Leonid, io sono tuo figlio, ti devo tutto».

SETTE: Come fu, invece, il rapporto con Gorbaciov?

MENGHISTU: Lo conoscevo sin da quando era un giovane membro del vertice sovietico. Sembrava una persona per bene, un onesto, devoto alla causa socialista. Mi dimostrava amicizia e calore. Poi, una volta salito al potere nel 1985, iniziò a parlare di perestrojka e di glasnost. Io da Addis Abeba gli chiesi un appuntamento. Andai a Mosca per domandargli cosa significavano quei due slogan. Gli dissi: «Compagno Gorbaciov, parliamoci chiaro. Se ci sono dei cambiamenti di linea, diccelo, così possiamo anche noi rettificare il cammino. La vostra forza è la nostra forza, la vostra debolezza è la nostra debolezza».

SETTE: E Gorbaciov cosa rispose?

MENGHISTU: Sorrise e disse: «Compagno Menghistu, figuriamoci. Dal marxismo-leninismo io non mi sposto neppure di un millimetro». Anni dopo, quando i ribelli da lui armati avanzavano verso Addis Abeba, io gli telefonavo per chiedere aiuto. E lui diceva: «Tieni duro, ti criticano ma quello che hai fatto per l’Etiopia è sufficiente per farti passare alla Storia come un grande statista». Quell’ipocrita. Altro che premio Nobel per la pace 1990: armava i miei nemici e contemporaneamente a parole mi blandiva. Smisi di telefonargli. Avevo capito che mentiva. Erano giorni molto difficili: noi, in Etiopia, non sapevamo più chi era l’amico e chi il nemico.

SETTE: Si rivolse agli americani?

MENGHISTU: Sì, ma Ronald Reagan si rifiutò di aiutarmi.

SETTE: Chi sono i leader a cui si sentiva più vicino?

MENGHISTU: Il nordcoreano Kim Il Sung e Fidel Castro. Sono stati entrambi molto generosi con me. La Corea del Nord è un Paese meraviglioso, è quasi da non credere cosa siano riusciti a costruire in così poco tempo. Kim era un uomo spiritosissimo, andavamo insieme in crociera e lui beveva, fumava, raccontava barzellette. Tutto il contrario del dittatore austero che vi immaginate voi occidentali. Mi ha regalato una centrale elettrica, cantieri navali e molti consiglieri militari senza chiedere nulla in cambio.

SETTE: Nelson Mandela? Rappresenta la speranza dell'africa?

MENGHISTU: Quando era in carcere lo ammiravo per la sua forza morale. Ma ora che è al governo non vedo i risultati. È vero che l’apartheid, almeno in apparenza, non esiste più. ma nessuno capisce cosa stia davvero facendo questo nuovo potere sudafricano.

SETTE: Quali sono stati i suoi rapporti con l'Italia?

MENGHISTU: Sempre buoni. Anche poco prima del mio rovesciamento, fallerà ministro degli Esteri Gianni De Michelis ha tentato una mediazione segreta con i guerriglieri, ma è fallita.

SETTE: E prima?

MENGHISTU: Quando presi il potere dissi alla comunità italiana di restare e di contribuire allo sviluppo del Paese. Poi, però, fui costretto a introdurre delle riforme fondamentali nell'economia, come le nazionalizzazioni, e alcuni di loro si sentirono danneggiati economicamente e se ne andarono.

Parla con voce sconsolata il colonnello. Nella sua villetta di Harare è sempre più solo. Perfino alcune sue guardie del corpo, che erano fuggite con lui dall'Etiopia, nei mesi scorsi lo hanno abbandonato cercando rifugio nella vicina ambasciata canadese pur di sfuggire al clima opprimente di casa Menghistu: «Quando si ubriacava ci picchiava». In passato il «Negus rosso» è stato visto in qualche albergo della capitale, seduto su una poltrona con diversi bicchieri di whisky davanti. Ma ora la sorveglianza dei suoi protettori si è fatta più stretta. L'opposizione critica il presidente Mugabe per la costosa ospitalità concessa a questo dittatore in disarmo. L'Etiopia insiste per la sua estradizione. L'esilio dorato è quasi diventato una prigione.

SETTE: Come ha trovato asilo politico?

MENGHISTU: Credo che siano stati gli americani ad organizzare questa temporanea sistemazione.

SETTE: Cosa accade oggi in Etiopia?

MENGHISTU: Il Paese è ostaggio di una minoranza. È un Paese tribalizzato. Come in tutta l'Africa. si retrocede verso il passato.

SETTE: Tornerebbe a Addis Abeba?

MENGHISTU: Amo l'Etiopia più della mia stessa vita.

SETTE: Ha rimpianti?

MENGHISTU: Sì. Ho costruito uno degli eserciti più potenti dell'Africa, ho costruito uno dei partiti meglio organizzati del mondo, ho difeso con i denti l'integrità territoriale del mio Paese, eppure tutto questo è stato invano. Sono stato sconfitto, e questa sconfitta continua a farmi molto, molto male.