Peuchet sul suicidio


Pubblicato sullo Specchio della società di Moses Hess (periodico che si proponeva al pubblico come "organo per la rappresentanza delle classi popolari non possidenti e per l'illuminazione delle presenti condizioni sociali"), vol. II, fasc. VII, gennaio 1846, pp. 14-26. Versione di Leonardo M. Battisti, Novembre 2017.


La critica francese della società possiede almeno in parte il grande pregio di aver esibito le contraddizioni e l'innaturalità della vita moderna per tutti i gradi e le forme della civiltà odierna (e non solo nei rapporti sociali di classi particolari), peraltro con una vivacità immediata, una visione ricca, un'eleganza signorile e un'ardita originalità, che invano si cercherebbero presso qualunque altra nazione. Es. Si confrontino le esposizioni critiche di Owen e Fourier sulla vita sociale, per farsi un'idea della superiorità dei francesi. Non sono solo gli scrittori francesi “socialisti” a criticare le condizioni sociali; sono scrittori di ogni ramo della letteratura, specie romanzieri e memorialisti. Darò per sommi tratti un esempio di tal critica francese circa il suicidio tratto da: Mémoires tirés des archives de la police etc. par Jacques Peuchet. Ei esplica pure quanto sia fondata l'idea dei borghesi filantropici che ci sia solo da dar ai proletari un po' di pane e d'educazione, come se nell'odierna situazione sociale soffrisse il solo operaio, ma per il resto il mondo fosse il migliore dei mondi possibili.
Come in molti dei pratici francesi più anziani, ormai quasi scomparsi, passati dai tanti rivolgimenti dopo il 1789, le tante illusioni, entusiasmi, costituzioni, regimi, cadute e vittorie, così in Peuchet la critica dei rapporti di proprietà, di famiglia e degli altri rapporti privati, insomma della vita privata, pare il risultato necessario delle loro esperienze politiche.
Jacques Peuchet, nato nel 1758, passò dalle belle lettere alla medicina, dalla medicina alla giurisprudenza, dalla giurisprudenza all'amministrazione e al dipartimento di polizia. Prima che scoppiasse la Rivoluzione francese lavorò con l'abate Morellet ad un Dizionario del commercio (di cui è uscito solo il prospetto) mentre studiava perlopiù economia politica e amministrazione. Solo per breve tempo Peuchet sostenne la Rivoluzione; passato tosto al partito monarchico, diresse per un po' la Gazzetta di Francia e poi perfino il Mercure (famigerato giornale monarchico) dopo Mallet du Pan. Eppure seppe destreggiarsi lungo la rivoluzione, ora perseguitato, ora impiegato nella divisione della polizia e della amministrazione. La Geografia commerciale (5 volumi in folio), ch'ei pubblicò nel 1800, attrasse su di lui l'attenzione di Bonaparte primo console, che lo nominò membro del Consiglio del commercio delle arti. Poi, sotto il ministero di François de Neufchâteau, ebbe una carica amministrativa più importante. Nel 1814 la restaurazione lo nominò censore. Nei Cento giorni si fece da parte. Tornati i Borboni ebbe il posto di archivista alla prefettura di polizia di Parigi, che tenette fino al 1827. Peuchet influenzò da pubblicista gli oratori della Costituente, della Convenzione e del Tribunato, come pure delle Camere dei deputati sotto la Restaurazione. Fra le sue tante opere perlopiù economiche, oltre alla già citata Geografia commerciale, la più nota è la Statistica di Francia (1807).
Col materiale degli archivi della polizia di Parigi e colla sua lunga esperienza pratica nell'amministrazione e nella polizia, Peuchet scrisse le sue memorie da vecchio e le lasciò pubblicar solo postume, onde non lo si potesse annoverar fra gli “abulici” socialisti e comunisti, ai cui è noto mancar l'ammirevole concretezza e le vaste conoscenze del nostro scrittore, funzionario e borghese pratico.

Ecco cosa dice il nostro archivista della prefettura parigina di polizia sul suicidio.
Il numero annuale dei suicidi, che fra noi è per così dire normale e periodico, si deve considerar un sintomo della difettosa organizzazione della nostra società; poiché nel periodo di ristagno e di crisi dell'industria, nelle epoche di rincaro del costo della vita e negli inverni duri, tale sintomo è sempre più evidente e assume un carattere epidemico. In tali periodi aumentano pure la prostituzione e il furto. Benché la causa del suicidio sia perlopiù la miseria, avviene in tutte le classi, fra i ricchi oziosi come fra gli artisti e i politici. La varietà delle cause che lo motivano schernisce il solito e frigido biasimo dei moralisti.
Le malattie di consunzione, contro cui la scienza moderna è inefficace o insufficiente, l'amicizia o l'amore traditi, l'ambizione avvilita, i dolori familiari, lo zelo soffocato, il tedio d'una vita monotona, un entusiasmo respinto e ripiegato su sé, sono sì motivi di suicidio per le nature più sensibili, e l'amore stesso della vita, tale energica forza centrifuga della personalità, suole portar a staccarsi da un'esistenza aborrita.
Madame de Staël, il cui maggior merito è aver esposto con splendore luoghi comuni, ha cercato di provar che il suicidio è un'azione contro natura, non un atto di coraggio; affermando che sarebbe meglio combatter la disperazione, anziché soccombervi. Tali argomenti fanno poca presa sugli animi sopraffatti dall'infelicità: se sono religiosi, puntano su un mondo migliore; altrimenti, cercano la pace nel nulla. Loro svalutano le prediche filosofiche quali scarso rifugio contro i dolori. È anzitutto insulso dire contro natura un'azione così frequente; il suicidio non è affatto contro natura perché capita ogni giorno. Ciò che è contro natura non avviene. Invece è nella natura della nostra società generare molti suicidi, il che non capita fra i Tartari. Onde non tutte le società hanno gli stessi prodotti; ecco cosa dobbiamo dirci per lavorar alla riforma della nostra e farla salir di livello. Circa il coraggio, se si passa per coraggiosi a sfidare la morte in pieno giorno sul campo di battaglia, dominati da tutte le emozioni riunite, allora nulla prova che si manchi di coraggio dandosi la morte da sé e in buia solitudine. Insultare i morti non taglia un simile nodo.
Tutto ciò che si è detto contro il suicidio si muove nella stessa cerchia di idee. Gli si oppongono i decreti della provvidenza, ma l'esistenza stessa del suicidio è un'aperta protesta contro tali decreti indecifrabili. Si parla di nostri doveri verso la società, senza però indicar e realizzar i nostri diritti ante la società. Infine si esalta il merito mille volte maggiore di sopportare il dolore anziché soccombervi: merito triste quanto la prospettiva da esso aperta. Insomma si fa del suicidio un atto di viltà, un delitto contro le leggi, la società e l'onore.
Come fa l'uomo a suicidarsi malgrado tanti anatemi? Perché nelle vene della gente disperata non scorre lo stesso sangue degli esseri freddi che si pigliano l'agio di recitare tali sterili discorsi. L'uomo è ignoto all'uomo: si sa solo condannarlo e non conoscerlo. Se si nota con quale leggerezza le istituzioni che governano l'Europa decidono della vita e della morte dei popoli, di che abbondante materiale di carceri, di pene, di strumenti di morte si circondi la giustizia civilizzata per sancir i suoi incerti decreti; se si nota l'inaudito numero di classi lasciate in miseria, e i paria sociali colpiti da uno sprezzo pregiudiziale e brutale forse per non incaricarsi di salvarli dal loro fango; vedendo tutto ciò, non si capisce come ordinar all'individuo di rispettar in sé un'esistenza offesa in generale da: le nostre abitudini, i nostri pregiudizi, le nostre leggi e i nostri costumi.
Si è creduto di poter impedir i suicidi con pene oltraggiose e d'una specie di infamia, con cui si bolla la memoria del colpevole. Che dire dell'indegnità di un marchio impresso su qualcuno non più presente a perorare la propria causa? Inoltre gli infelici se ne curano poco; e se il suicidio incrimina qualcuno, sono anzitutto quelli che restano, perché in tale massa non uno merita di restare in vita per lui. I mezzi infantili e crudeli che si sono escogitati hanno forse combattuto e vinto il decorso della disperazione? Cosa importa a chi che vuol fuggire dal mondo delle offese che il mondo infligge al suo cadavere? In ciò il suicida vede solo una viltà in più da parte dei viventi. In realtà, che specie di società è quella ove c'è il più profondo isolamento in mezzo milioni di persone; dove si può esser sopraffatti da un invincibile voglia di uccidersi, senza che alcuno lo capisca? Tale società non è una società, bensì «un deserto popolato di fiere selvagge» (Rousseau). Negli offici da me ricoperti appo l'amministrazione di polizia, i suicidi erano fra le mie competenze; volevo arrivar a saper se fra le loro cause determinanti ce ne fosse una di cui si potesse prevenire l'azione. Intrapresi un'ampia ricerca in proposito. Trovai che ogni tentativo sarebbe vano, tranne una riforma totale dell'attuale ordinamento sociale.
Tra le cause della disperazione che induce a cercar la morte persone molto eccitabili, nature appassionate e molto sensibili, ho scoperto che la causa predominante è il maltrattamento: ingiustizie, punizioni segrete, che genitori e superiori severi infliggono alle persone da essi dipendenti. La rivoluzione non ha eliso tutte le tirannie; i mali attribuiti alle autorità dispotiche stanno nelle famiglie ove provocano crisi analoghe a quelle rivoluzionarie.
I rapporti fra gli interessi e gli animi, le vere relazioni fra gli individui non sussistono in fondo fra di noi. Il suicidio è solo uno dei mille sintomi della generale lotta sociale sempre in atto, da cui tanti combattenti si ritirano perché stanchi di stare fra le vittime, o perché si ribellano al pensiero di ottenere un posto d'onore fra gli aguzzini. Se si vogliono esempi, li trarrò da documenti autentici.
Nel luglio del 1816 la figlia di un sarto si fidanzò con un macellaio, un giovane di buoni costumi, economo e laborioso, molto preso dalla sua bella fidanzata, la quale a sua volta gli era molto attaccata. La ragazza era sarta, stimata da chiunque la conoscesse e i genitori del fidanzato l'amavano teneramente. Tale brava gente non perdeva occasione per anticipar l'acquisto della nuora; si escogitavano feste, di cui essa era la regina e l'idolo.
Arrivò l'epoca del matrimonio; tutte le disposizioni fra le due famiglie erano state prese e il contratto concluso. La sera avanti il giorno fissato per recarsi in municipio, la giovane e i suoi genitori dovevano cenar colla famiglia dello sposo; ci fu un imprevisto incidente insignificante. Lavori da finir per una ricca famiglia di clienti trattennero a casa il sarto e la moglie. Si scusarono, ma la madre del macellaio andò di persona a prender la nuora, che ottenne il permesso di seguirla.
Pure in assenza di due degli ospiti più importanti, il pasto fu dei più lieti. Contribuirono a rallegrarlo molti scherzi che sono leciti la vigilia delle nozze. Si bevve e si cantò; si parlò del futuro; si esaminarono le gioie di un buon matrimonio. A tarda ora della notte erano ancora a tavola. Con indulgenza facilmente spiegabile i genitori del giovane chiusero gli occhi sul tacito accordo dei due promessi. Le mani si cercavano, l'amore e l'intimità davano loro alla testa. Inoltre si stimavano le nozze cosa fatta, e i due giovani si erano frequentati troppo tempo senza che si potesse far loro il minimo rimprovero. La commozione dei genitori del fidanzato, l'ora tarda, il forte desiderio reciproco scatenato dall'indulgenza dei loro mentori, la cordiale giocondità che sempre regna in tali pasti, tutto ciò unito, e l'occasione che si offriva ridendo, e il vino che oscurava le menti, tutto favorì un esito immaginabile. Consumate le luci, i due giovani si trovarono al buio. Tutti fecero finta di nulla. Ivi la loro felicità aveva solo amici e niun invidioso.
La figlia tornò dai suoi solo il mattino dopo. Una prova di quanto poco si ritenesse colpevole si ha nel fatto che ritornò sola. Sgusciò in camera sua e si rassettò; ma i genitori, tostoché la scorsero, la coprirono con furore dei titoli e delle ingiurie peggiori. Il vicinato ne fu testimone e lo scandalo non ebbe più limiti per tale ragazza atterrita, per il suo pudore e il mistero che veniva ingiuriosamente svelato. Invano la sgomenta giovane disse ai genitori che le facevano perdere la reputazione, che ammetteva il suo torto, follia e disobbedienza, ma che tutto sarebbe tornato in ordine. Le sue ragioni e il suo dolore non disarmarono la coppia di sarti. Gli uomini più vili e incapaci diventano spietati tanto per far valer la loro assoluta autorità paterna, il cui abuso è un atroce scotto per lo scorno e l'ilotismo che subiscono nella società borghese, volenti o inviti. Il chiasso attirò compari e comari e fecero coro. L'ontosa contraddizione di un'oscenità esposta spinse la ragazza a decider di suicidarsi; discese lesta in mezzo alle comari urlanti e insultanti con occhi spiritati, corse alla Senna e si buttò nel fiume. I barcaioli la trassero morta dall'acqua, coi gioielli da sposa. E chi prima urlava contro la figlia tosto si rivoltò contro i genitori; il che atterrì quelle anime vane. Pochi giorni dopo i genitori vennero alla polizia per reclamare una catena d'oro, che la ragazza portava al collo (dono regalo del futuro suocero), un orologio d'argento e altri gioielli: oggetti depositati nell'ufficio. Non mancai di redarguir con vigore quella gente barbara e ottusa. Dire a tali pazzi che ne avrebbero risposto a Dio avrebbe fatto loro ben scarsa impressione, dati i loro gretti pregiudizi e la tipica forma di religiosità che vige nelle classi mercantili inferiori.
L'avidità li menava nel mio ufficio, non il desiderio di aver due o tre reliquie; e credetti di poterli punir tramite tale loro avidità. Essi reclamavano i gioielli della figlia; io le ricusai e trattenni i certificati necessari per ritirarli dalla cassa di deposito. Finché restai in tale ufficio, rifiutai i loro reclami per il gusto di sfidare le loro proteste.
Nel 1816 ancora venne al mio ufficio un giovane affascinante creolo di una delle più ricche famiglie della Martinica. Protestava assai che si restituisse a suo fratello il cadavere di sua cognata affogatasi (modalità di suicidio più frequente). Il cadavere era stato ritrovato dal personale addetto a ripescare i cadaveri vicino al greto d'Argenteuil. Per un istinto di pudore (che si sa esinanir perfino le donne disperate al massimo) l'annegata aveva legato attorno ai piedi l'orlo delle vesti. Tale vereconda cautela era prova evidente di suicidio. Tostoché ritrovata, fu portata all'obitorio. La sua bellezza, la giovinezza, l'elegante vestito additavano mille ipotesi sul perché della disgrazia. Il marito si disperò al riconoscimento.Par si disse ignaro di tale gesto (io non c'ero). Dissi al creolo che la richiesta del coniuge è prioritaria sulle altre, il quale faceva eriger per l'infelice moglie un bel sepolcro di marmo. «Dopo averla uccisa, il mostro!» gridò il creolo girando furioso.
Gli dissi che potevo desumer che l'amava dalle sue eccitazione, disperazione, fervide preghiere di esaudirne il desiderio, lacrime. Lo ammise con le più vive assicurazioni di non averne messo al corrente la cognata, giurava. Solo per salvar la reputazione e il buon nome della cognata (il cui suicidio l'opinione pubblica avrebbe attribuito ad un intrigo, si sa), ei intendeva esibir la crudeltà del fratello e mettendosi sul banco degli imputati. Mi chiese appoggio. Dalle sue rotte e esagitate spiegazioni capii: suo fratello, il signor di M. (ricco amante dell'arte, del lusso e dell'alta società) era sposato a questa giovane da circa un anno (col suo consenso) ed erano la più bella coppia che si potesse veder. Dopo le nozze la salute del giovane patì un'infezione del sangue improvvisa e virulenta (malattia forse genetica). Costui, prima tanto fiero del suo aspetto, dei suoi modi eleganti, d'un'insuperabile compiutezza di forme, fu tosto ilota d'un male ignoto, contro i cui guasti la scienza era impotente; mutando dalla testa ai piedi spaventosamente. Perse tutti i capelli; la spina dorsale si curvò; ogni giorno magrezza e rughe aumentavano visibilmente per gli altri, ma il suo amor proprio cercava di negare l'evidenza. Ma ciò non lo costrinse a letto; una tempra di ferro pareva trionfare degli attacchi di tal male. Ei resisteva al proprio esizio: al corpo malandato non seguiva spirito corrotto. Seguitò a dar feste, a guidar battute di caccia e a condurre il suo ricco e fastoso tenore di vita, che pareva la legge del suo carattere e della sua natura. Ma le offese, le allusioni, gli scherzi degli scolari e dei monelli quando andava a cavallo pei viali, gli scortesi e beffardi sorrisi, i premurosi avvisi degli amici che era ridicolo con le sue manie galanti verso le dame, ciò dissolse la sua illusione e lo rese cauto con sé. Tostoché ebbe coscienza della propria bruttezza e deformità, divenne duro e schivo. Apparve meno disposto a condurre la moglie a serate, a balli e concerti, si rifugiò nella sua casa di campagna, pose fine a tutti gli inviti, cercò mille pretesti per evitare la gente. Le cortesie degli amici verso la moglie, da lui tollerate finché certo della propria superiorità, lo resero ora geloso, diffidente, violento. A chi insisteva a fargli visita vide il fermo proposito di insidiar il cuore della moglie, suo ultimo orgoglio e consolazione. All'epoca il creolo giunse dalla Martinica per affari il cui successo pareva favorir il ritorno dei Borboni sul trono di Francia. Rotte così tante sue passate relazioni la cognata lo accolse bene; ed ei godette del vantaggio presso il signor di M. di esserne fratello. Il nostro creolo comprese la solitudine che si stava formando intorno alla casa, sia dai diretti litigi che suo fratello ebbe con molti amici, sia da mille espedienti indiretti per scacciare e scoraggiar i visitatori. Senza saper di esser mosso da amore (che lo rendeva altrettanto geloso) il creolo approvò e promosse tali idee di isolamento. Il signor di M. finì col ritirarsi completamente a Passy, in una bella casa, che in breve diventò un deserto. La gelosia si nutre delle minime cose, senza cui si nutre di sé stessa e le inventa. Forse la giovane donna bramava i divertimenti propri della sua età. I muri toglievano la vista delle case vicine; le imposte restavano chiuse dal mattino alla sera. La sventurata donna era condannata alla più insopportabile schiavitù prevista dal codice civile e dal diritto di proprietà, basati sull'asserto sociale che l'amore è avulso dai liberi sentimenti degli amanti onde il marito geloso può rinchiudere la moglie, come l'avaro la propria cassaforte, poiché la moglie costituisce semplicemente una proprietà come un'altra.
Di notte il signor di M. girava attorno alla casa armato e con cani. Si immaginava orme sulla sabbia e si smarrì in strambe supposizioni quando il giardiniere spostò una scala a pioli. Lo stesso giardiniere, un ubriacone sessantenne, sorvegliava il portone. La mania segregazionista non ha limiti, prosegue fino alle inezie. Il fratello, complice di tutto questo, capì infine che aiutava a render infelice la giovane signora che, ogni giorno sorvegliata, insultata, senza quanto disponibile a una fantasia ricca e felice, diveniva sì triste e malinconica quanto prima fu libera e serena. Piangeva di nascosto, ma ne eran visibili i segni. Il creolo si pentì. Deciso a spiegarsi alla cognata e a rimediare a un errore (certo sorto da un celato senso d'amore) una mattina entrò furtivo in un boschetto del parco dove la prigioniera andava ogni tanto a prendere aria e a curare i suoi fiori. Usando tale ristretta libertà certo restava sotto la vigilanza del geloso marito; infatti, alla vista del cognato, che per la prima volta e all'improvviso le si parava dinanzi, la giovane dama mostrò la più grande agitazione, si torse le mani e gli gridò atterrita: «Allontanatevi, in nome del Cielo, allontanatevi!».
Invero ei ebbe appena il tempo di nascondersi in una serra, che apparve improvviso il signor di M. Il creolo udì gridare, volle origliare, ma i battiti del proprio cuore gli impedirono di afferrare la più lieve parola di una spiegazione, a cui tale fuga, se lo sposso la scopriva, poteva dare un esito deplorevole. L'incidente spronò il cognato a farsi difensore di una vittima rinunciando a ogni ritegno amoroso. L'amore può sacrificare tutto, eccetto il suo diritto di protezione, poiché rinunciarvi sarebbe vigliaccheria.nEi seguitò a far visita al fratello, deciso a parlargli chiaro, a rivelarsi, a dirgli tutto. Il signor di M. non aveva ancor sospetti, ma tale assiduità del fratello glie ne fece nascere. Senza capir il perché si impicciasse, il signor di M. ne diffidò, pensando a dove potesse portar. Il creolo capì che il fratello si fingeva assente ogni volta che suonava invano alla porta di Passy. Un garzone fabbro gli fece un doppio della chiave che il suo padrone aveva fabbricato per il signor di M. D. Dopo dieci giorni di assenza, una notte il creolo oltrepassò le mura della casa, titubante e tormentato dalle più folli chimere; forzò una grata davanti al cortile principale; per mezzo di una scala a pioli raggiunse il tetto e si lasciò calare lungo una grondaia fin sotto la finestra di una soffitta. Grida furiose lo attirarono strisciante e furtivo fino a una porta a vetri. Ciò che vide gli lacerò il cuore. La luce di una lampada illuminava l'alcova. Sotto le cortine, i capelli in disordine e il volto paonazzo dalla rabbia, stava il signor di M., seminudo, accovacciato accanto alla moglie (sul letto che ea non osava lasciar benché si divincolasse). Ei rovesciava su di lei le più atroci minacce e pareva una tigre, pronta a farla a brani. Le diceva: «Lo so che son brutto, insopportabile e ti fo paura. Tu vorresti che ti liberassero di me, che sparissi dalla tua vista. Tu aneli l'istante che ti renderà libera. Non negarlo; so cosa pensi dal tuo terrore, dalla tua ripugnanza. Tu arrossisci delle risate che suscito, ti ribelli affatto contro di me! Invero conti i minuti fino al momento ch'io non ti opprima più con le mie tare e la mia presenza. Sta' ferma! Terribili desideri mi assalgono, la frenesia di sfigurarti, di farti simile a me, onde tu non possa più conservare la speranza di consolarti con un amante della disgrazia di avermi conosciuto. Spaccherò tutti gli specchi di questa casa, perché non mi rinfaccino più il contrasto alimentando la tua superbia. Dovrei portarti in società, vero? O lasciartici andare per vedere come ognuno ti incoraggi ad odiarmi? Giammai. Tu non lascerai questa casa prima di avermi ucciso. Uccidimi, precedimi in ciò ch'io sono tentato di fare tutti i giorni!». E il forsennato si rotolava sul letto gridando forte e digrignando i denti, con la bava alla bocca, con mille segni di pazzia, dandosi colpi furiosi da solo, accanto a quella infelice, che gli prodigava le tenere carezze e il pianto più commovente. Infine lo calmò. Certo era compassione anziché l'amore e non bastava a quell'uomo deturpato e la cui sofferenza era vivacissima. Tale scenata seguita da un profondo accasciamento fece impietrire il creolo che non sapeva chi potesse liberar la sventurata da quella tortura mortale. Di sicuro la scenata doveva ripetersi ogni giorno, poiché la signora di M. curò le convulsioni che ne seguirono con fiale di medicinali già pronte, per dare un po' di requie al suo aguzzino. All'epoca il creolo era il solo parente del signor di M. a Parigi. È specie in tali casi che si vorrebbe maledire la lentezza della giustizia e la noncuranza della legge, che nulla muove dal suo andazzo ristretto, tanto meno una donna, un esser cui il legislatore dà tutte le minime. Un mandato di arresto, un provvedimento arbitrario avrebbe prevenuto la disgrazia, che il testimonio di tale pazzia prevedeva fin troppo bene. Eppure decise di giocare il tutto per tutto, di assumersi tutte le conseguenze, in quanto la sua ricchezza gli permetteva di compiere enormi sacrifici e di non temere la responsabilità di alcun sproposito. Già alcuni suoi amici medici, decisi quanto lui stesso, preparavano un'irruzione in casa del signor di M. per constatar tali momenti di pazzia e salvare ambi i coniugi con un intervento immediato; ma l'avvenuto suicidio giustificò tali provvedimenti troppo tardivi e sciolse la difficoltà.
Certo, per chi non limita lo spirito delle parole alla loro lettera, tale suicidio fu un assassinio perpetrato dal marito; nonché il risultato di un'eccezionale uragano della gelosia. Il geloso ha bisogno di uno schiavo, il geloso può amare, ma per la gelosia l'amore è un sentimento lussuoso: il geloso è anzitutto un proprietario privato. Impedii al creolo di fare un inutile e pericoloso scandalo: pericoloso anzitutto per la memoria della donna amata, poiché il pubblico ozioso avrebbe accusato la vittima di una relazione adulterina col fratello del marito. Assistetti alla sepoltura. Nimo sapeva la verità, eccetto il fratello e me. Intorno a me udivo mormorar cose indegne su tale suicidio e ne provavo orrore. L'opinione pubblica è riprovevole quando mostra il suo vile accanimento e le sue sporche congetture. L'opinione è troppo divisa per l'isolamento degli uomini, troppo ignorante, troppo guasta, perché ognuno è estraneo a sé e tutti lo sono fra loro.
Del resto ben poche settimane passarono senza rivelarmi casi dello stesso genere. Nel 1816 registrai pure relazioni amorose, che a causa del diniego dei genitori di concedere il loro benestare si conclusero con un doppio colpo di pistola.
Presi nota altresì del suicidio di gentiluomini ridotti all'impotenza nel fiore dell'età, che l'abuso dei piaceri aveva gettato in una invincibile malinconia.
Inoltre molta gente si suicida ossessionata dal pensiero che la medicina è incapace a liberarla dai propri mali, dopo lunghi e inutili tormenti causati da cure rovinose.
Si potrebbe scrivere una rara antologia di passi di autori illustri e di poesie scritte da persone disperate, che prepararono la propria morte con un certo sfoggio. Nel periodo di meraviglioso sangue freddo seguente alla decisione di morire, da tali anime spira una specie di entusiasmo contagioso, che fluisce negli scritti, fin nelle classi incolte. Nel raccogliersi prima del sacrificio, di cui sondano la profondità, tutte la loro forza si serra per profondersi in espressioni calde e caratteristiche.
Alcune di tali poesie, sepolte negli archivi, sono capolavori. Un ottuso borghese, che pone l'anima nel proprio negozio e Dio nel commercio, può trovare tutto ciò molto romantico e negare col suo sorriso di scherno dolori che non capisce. Il suo sprezzo non ci stupisce. Che altro aspettarsi da gente che crede solo al tre per cento e pensa solo uccidere giorno per giorno la propria natura umana, pezzo per pezzo? Ma che dire poi della brava gente, che si atteggia a devota, a colta, ma si comporta uguale? Invero è notevole che i poveri diavoli sopportino la vita, benché ciò avviene solo nell'interesse delle classi privilegiate di tale mondo, che sarebbe rovinato da un suicidio totale della plebaglia; ma è possibile un mezzo diverso dall'offesa, lo scherno e le belle parole per rendere sopportabile l'esistenza a tale classe? Oltretutto in tale tipo di miserabili deve esserci una qualche grandezza d'animo, poiché decidono di morire suicidandosi, anziché finir sul patibolo. È vero che, più procede la nostra era affaristica, più rari diventano tali nobili suicidi del misero, sostituiti dalla cosciente ostilità, e il misero affronta disperato la sorte del furto e dell'omicidio. È più facile ottenere la pena di morte di un lavoro.
Frugando negli archivi della polizia ho trovato un unico caso evidente di vigliaccheria nella lista dei suicidi. Si trattava di un giovane americano, Wilfrid Ramsay, che si uccise per non dover affrontare un duello.
Classificare le varie cause di suicidio significa classificare i mali della nostra società. Uno si è ucciso perché, ridotto alla peggiore miseria dalle lunghe ricerche scientifiche, non poté pagar un brevetto di un'invenzione, rubata da intriganti. Un altro si è ucciso per sfuggire alle enormi spese e all'avvilente persecuzione che subisce chi si trova in imbarazzi finanziari, i quali del resto sono così frequenti, che gli uomini incaricati di curare gli interessi generali non se ne curano affatto. Un altro ancora si è ucciso perché non riusciva a procurarsi lavoro, dopo aver gemuto a lungo sotto le offese e la grettezza di coloro che sono fra noi gli arbitrari distributori del lavoro.
Un medico mi consultò un giorno su una morte che si accusava d'aver causato. Una sera (tornando a Belleville dove abitava, in una stradicciola in fondo alla quale c'era la sua porta) fu fermato da una donna velata, che lo pregò con voce tremante di ascoltarla. Poco discosto un'altra persona, che non riuscì a vedere in viso, passeggiava su e giù: la donna era sorvegliata. Disse: «Signore, sono incinta e se si scopre sarò disonorata. La mia famiglia, l'opinione del mondo, la gente onorata non mi perdoneranno. La signora di cui ho tradito la fiducia diventerebbe pazza e sicuramente divorzierebbe dal marito. Non cerco di scusarmi: sono in mezzo a uno scandalo che soltanto la mia morte potrebbe evitare. Volevo uccidermi; si vuole che io viva. Mi si è detto che voi siete pietoso onde sono convinta che non vi farete complice dell'uccisione di un bambino manco se non è ancora nato. Vedete: si tratta di provocare un aborto. Non mi abbasserò a pregarvi, ad abbellire il più detestabile delitto. Sono qui solo per desiderio di altri, poiché io saprò ben morire. Invoco la morte, e per questo non ho bisogno di nessuno. Si finge di aver voglia di innaffiare il giardino: si indossano gli zoccoli, si sceglie un punto sdrucciolevole, dove si va ogni giorno ad attinger acqua, e si fa sì di sparir nella vasca; e la gente dirà che fu una “disgrazia”. Ho previsto tutto, signore. Volevo fosse domani per farlo di tutto cuore. Tutto è pronto a succeder. Mi hanno detto di dirvelo, e io ve lo dico. Sta a voi decidere se ci sarà un delitto o due. Perché sono stata così debole da giurare di affidarmi affatto alla vostra decisione. Decidete!». Mi disse il medico: «L'alternativa mi fece inorridire. La voce di costei era pura e armoniosa; la mano che tenevo fra le mie fine e delicata; la sua aperta e ferma disperazione rivelava uno spirito superiore. Ma si trattava di un caso che invero mi faceva paura, benché in mille altri casi (in parti difficili per esempio) quando il chirurgo ha il problema se salvar la madre o il figlio, la politica o l'umanità decidano senza scrupoli a loro discrezione. Dissi: «Fuggite all'estero»; ella rispose: «Impossibile. Manco per idea». «Prendete le precauzioni opportune!». «Non posso; dormo nella stessa camera della signora di cui ho tradito l'amicizia». «È vostra parente?». «Non posso rispondervi». Mi disse il medico: «Avrei dato il mio sangue per evitar a lei suicidio o delitto, o per far sì che ella potesse risolvere il conflitto senza di me. Mi accusai di crudeltà, perché esitavo impaurito ante la complicità in omicidio. La lotta fu terribile. Poi un demone mi suggerì, che non ci si uccide solo perché si vorrebbe morire; che togliendo alla gente compromessa la forza di fare il male, la si costringe la a rinunciare ai suoi vizi,. Credetti indovinare il lusso nei merletti con cui giocavano le sue dita, e le risorse della ricchezza nell'elegante dizione del suo discorso. Si crede che i ricchi meritino minor compassione; il mio senso di dignità si ribellò al pensiero di farmi comprare con l'oro (benché tale argomento non fosse stato toccato; il che era solo una delicatezza e la prova di rispetto per me). Risposi no. La dama si allontanò lesta; il rumore di un calesse mi provava che non potevo più mutare idea.
Quindici giorni più tardi i giornali mi offrirono la soluzione del mistero. La giovane nipote di un banchiere parigino, in età di diciotto anni, amata pupilla della zia che l'aveva tenuta dalla morte di sua madre, era scivolata in un ruscello nella tenuta del tutore a Villemoble annegando. Il tutore era inconsolabile; da zio, il vile seduttore poteva esibir il suo dolore alla gente».
Si vede come, in mancanza di meglio, il suicidio costituisca l'estremo rifugio contro i mali della vita privata.
Fra le cause di suicidio ho trovato molto spesso la rimozione dagli impieghi, il lavoro negato, l'improvvisa diminuzione dei salari, motivi per i quali le famiglie non potevano più procurarsi mezzi di sussistenza, specie se la maggior parte di costoro vive del guadagno giornaliero.
All'epoca in cui il re ridusse le guardie del suo palazzo, un brav'uomo fu licenziato con altri, senza troppe cerimonie. L'età avanzata e la mancanza di protezioni non gli permisero di farsi assumere nell'esercito; l'industria era chiusa alla sua imperizia. Ei cercò d'entrare nell'amministrazione civile; senza prevalere sui concorrenti. Cadde in preda a un cupo sconforto e si uccise. In tasca gli si trovò una lettera di chiarimento sulla sua situazione. La moglie era una povera cucitrice; le due figlie, di sedici e diciotto anni, lavoravano con lei. Tarnau, il nostro suicida, diceva nel suo ultimo scritto che, «poiché non poteva più essere utile alla famiglia e poiché era costretto a vivere a carico della moglie e delle figlie, aveva ritenuto suo dovere togliersi la vita per alleviarle di un peso in più; egli raccomandava le figlie alla duchessa d'Angouleme; sperava che per bontà la duchessa avesse compassione di tanta miseria». Stesi un rapporto al prefetto di polizia Anglès, la pratica fece il suo corso e la duchessa fece rimettere 600 franchi all'infelice famiglia Tarnau. Lene aiuto invero per siffatta perdita! Ma come una sola famiglia potrebbe soccorrere tutti i disgraziati che l'intera Francia oggi non potrebbe nutrire? La carità dei ricchi non basterebbe manco se l'intera nazione fosse religiosa (e non lo è). Il suicidio elimina gran parte della difficoltà, il patibolo il resto. Solo riformando il nostro sistema generale di agricoltura e d'industria ci si può attendere fonti di reddito e ricchezza reale. Sulla carta è facile proclamare costituzioni, il diritto di ogni cittadino all'istruzione, al lavoro e a un minimo di mezzi di sussistenza. Ma scrivere tali grandiosi desideri sulla carta non è tutto: resta il compito intrinseco di fecondare tali idee liberali con istituzioni materiali e morali, con istituzioni sociali.
Il mondo antico, il paganesimo, ha dato alla terra opere stupende; la libertà moderna sarà da meno del suo rivale? Chi riuscirà a saldar insieme tali due nobili elementi della potenza?

Così Peuchet.
Infine vogliamo riprodurre una delle sue tavole sui casi annuali di suicidio a Parigi. Da un'altra tavola riportata da Peuchet risulta che dal 1817 al 1824 compreso, ci furono a Parigi 2808 suicidi. Naturalmente il numero è in realtà maggiore, poiché solo in casi molto rari si riesce a sapere se i cadaveri di annegati portati all'obitorio sono di suicidi o no.

TAVOLA DEI SUICIDI AVVENUTI A PARIGI DURANTE L'ANNO 1824.

Totale suicidi: 371 Primo semestre: 198 Secondo semestre: 173

Sopravvissuti al tentativo di suicidio: 125 Non sopravvissuti: 246 Di sesso maschile: 239 Di sesso femminile:132 Non sposati: 207 Sposati: 164

Genere di morte: Grave caduta volontaria: 47 Strangolamento: 38 Per strumenti da taglio: 40 Per armi da fuoco: 42 Per avvelenamento: 28 Per asfissia di gas di carbone: 61 Per annegamento volontario: 115

Motivo: Pene d'amore, dissidi e dolori familiari: 71 Malattie, disgusto della vita, spirito depresso: 128 Cattiva condotta, gioco d'azzardo, lotto, timore di rimproveri e punizioni: 53 Miseria, bisogno, perdita di impiego, licenziamento: 59 Motivi sconosciuti: 60


Ultima modifica 9.10.2000