Miseria della Filosofia

Capitolo primo

Una scoperta scientifica

 

1. Opposizione del valore d'uso e del valore di scambio

"L'attitudine di tutti i prodotti, sia naturali sia industriali, a servire alla sussistenza dell'uomo, si chiama precisamente valore di uso; l'attitudine che essi hanno di essere scambiati, l'uno con l'altro, valore di scambio... Come il valore d'uso diviene valore in termini di scambio?... La genesi dell'idea del valore (di scambio) [*1] non è stata esaminata dagli economisti con sufficiente cura: è necessario soffermarvisi. Poiché dunque fra gli oggetti di cui ho bisogno, un numero grandissimo non si trova in natura, se non in quantità limitata, o non si trova affatto, sono costretto a contribuire alla produzione di ciò che manca e, non potendo mettere mano a tante cose, proporrò ad altri uomini, miei collaboratori in funzioni diverse, di cedermi una parte dei loro prodotti in cambio del mio." (Proudhon, vol. I, cap. 2 [pp. 33-34].)

Proudhon si propone di spiegarci innanzi tutto la duplice natura del valore, "la distinzione nel valore" [I, p. 34], il movimento che fa del valore d'uso il valore di scambio. È importante soffermarsi con Proudhon su questo atto di transustanziazione. Ecco come esso si compie, secondo il nostro autore.

Poiché un enorme numero di prodotti non si trova in natura, è necessario procurarseli attraverso l'industria. Supponete che i bisogni superino la produzione spontanea della natura: l'uomo è obbligato a ricorrere alla produzione industriale. Che cosa è questa produzione industriale nella concezione di Proudhon? Qual è la sua origine? Un sol uomo, provando il bisogno di un grande numero di cose, "non può mettere mano a tante cose". Tanti bisogni da soddisfare presuppongono tante cose da produrre (non vi sono prodotti senza produzione); tante cose da produrre non presuppongono più semplicemente la mano di un solo uomo che concorra alla produzione. Ora, dal momento che voi presupponete che più di una mano concorra alla produzione, avete già presupposto tutta una produzione basata sulla divisione del lavoro. Così il bisogno, quale è presupposto da Proudhon, presuppone esso stesso tutt'intera la divisione del lavoro. Presupponendo la divisione del lavoro, avrete lo scambio, e, di conseguenza, il valore di scambio. Tanto valeva presupporre fin dall'inizio il valore di scambio.

Ma Proudhon ha preferito compiere un lungo giro. Seguiamolo in tutte le sue giravolte per ritornare sempre al suo punto di partenza.

Per uscire dallo stato di cose in cui ciascuno produce da solo e per sé solo e per giungere allo scambio, "mi rivolgo - dice Proudhon - ai miei collaboratori in funzioni diverse". Dunque io ho dei collaboratori, i quali tutti hanno delle funzioni diverse senza che per questo io e tutti gli altri - sempre secondo il presupposto di Proudhon - siamo usciti dalla posizione solitaria e poco sociale dei Robinson. I collaboratori e le funzioni diverse, la divisione del lavoro e lo scambio da essa determinato ci sono già.

Riassumendo: io ho dei bisogni fondati sulla divisione del lavoro e sullo scambio. Presupponendo questi bisogni Proudhon si trova ad aver presupposto lo scambio, e il valore di scambio, di cui egli si propone per l'appunto di "precisare la genesi con cura maggiore degli altri economisti".

Proudhon avrebbe potuto altrettanto bene invertire l'ordine delle cose, senza modificare per questo l'esattezza delle sue conclusioni. Per spiegare il valore in termini di scambio, è necessario lo scambio. Per spiegare lo scambio è necessaria la divisione del lavoro. Per spiegare la divisione del lavoro sono necessari dei bisogni che sollecitino la divisione del lavoro. Per spiegare questi bisogni, occorre "presupporli", il che non significa negarli, contrariamente al primo assioma del prologo di Proudhon: "Presupporre Dio è negarlo" (Prologo, p. 1).

Come fa Proudhon, che presuppone già nota la divisione del lavoro, a spiegare il valore di scambio, che per lui è sempre l'incognita?

"Un uomo" se ne va a "proporre ad altri uomini, suoi collaboratori in funzioni diverse", di stabilire lo scambio e di fare una distinzione fra il valore d'uso e il valore di scambio. Accettando questa distinzione proposta da Proudhon, i collaboratori non gli hanno lasciata altra "cura" che prendere atto della cosa, osservare e "annotare" nel suo trattato di economia politica "la genesi dell'idea del valore". Ma egli deve sempre spiegarci "la genesi" di questa proposta, deve sempre dirci, infine, come a questo uomo solitario, a questo Robinson sia venuta improvvisamente l'idea di fare "ai suoi collaboratori" la proposta dei genere conosciuto, e come questi collaboratori l'abbiano accettata senza protestare minimamente.

Proudhon non entra in questi particolari genealogici. Egli attribuisce semplicemente al fatto dello scambio una strana sorta di categoria storica, facendolo apparire come una mozione, presentata da un terzo, nel tentativo di introdurre lo scambio.

Ecco un esempio del "metodo storico e descrittivo" [I, p. 30] di Proudhon il quale ostenta un orgoglioso disprezzo per il "metodo storico e descrittivo" degli Adam Smith e dei Ricardo.

Lo scambio ha una propria storia; è passato per diverse fasi.

Vi fu un tempo, il medioevo, in cui non si scambiava che il superfluo, l'eccedente della produzione sul consumo.

Vi fu anche un tempo in cui non solo il superfluo ma tutti i prodotti, tutta la realtà industriale erano divenuti commercio; un tempo in cui tutta la produzione dipendeva dallo scambio. Come spiegare questa seconda fase dello scambio, il valore di scambio elevato al quadrato?

Proudhon potrebbe avere pronta una risposta: potete supporre che un uomo abbia "proposto ad altri uomini, suoi collaboratori in funzioni diverse" di elevare al quadrato il valore di scambio.

Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate - virtú, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. - tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore.

Come spiegare ora questa nuova ed ultima fase dello scambio, il valore di scambio elevato al cubo?

Proudhon avrebbe pronta una risposta. Potete supporre che una persona abbia "proposto ad altre persone, suoi collaboratori in funzioni diverse", di fare della virtù, dell'amore, ecc. un valore venale, di elevare il valore di scambio alla sua terza potenza.

Si vede bene: il "metodo storico e descrittivo" di Proudhon è buono a tutto, risponde a tutto, spiega tutto. Se si tratta di spiegare storicamente la "genesi di una idea economica" egli suppone un uomo che abbia proposto ad altri uomini, suoi collaboratori in funzioni diverse, di determinare questa "genesi", e tutto è a posto.

Noi possiamo accettare dunque la "genesi" del valore di scambio come un atto ormai compiuto; non resta ora che esporre il rapporto del valore di scambio con il valore d'uso. Ascoltiamo Proudhon:

"Gli economisti hanno messo assai bene in evidenza il duplice carattere del valore, ma non hanno saputo descrivere con la stessa chiarezza la sua natura contraddittoria; qui comincia la nostra critica... E' poco aver segnalato questo sorprendente contrasto nel valore d'uso e nel valore di scambio; gli economisti sono propensi in genere a vedervi qualcosa di assai semplice: bisognava invece mostrare che questa pretesa semplicità nasconde un mistero profondo, che è nostro dovere penetrare... In termini tecnici il valore d'uso e il valore di scambio sono in ragione inversa l'uno dell'altro." [1, pp. 36 e 38.]

Se abbiamo bene afferrato il pensiero di Proudhon, questi sarebbero i quattro punti che egli si propone di stabilire:

  1. Il valore d'uso e il valore di scambio formano "un sorprendente contrasto", si fanno opposizione.
  2. Il valore d'uso e il valore di scambio sono in ragione inversa l'uno dell'altro, in contraddizione.
  3. Gli economisti non hanno notato né approfondito l'opposizione e la contraddizione.
  4. La critica di Proudhon comincia dalla fine.

Anche noi cominceremo dalla fine, e per discolpare gli economisti dalle accuse di Proudhon, lasceremo parlare due economisti abbastanza importanti.

Sismondi:

"Il commercio ha ridotto ogni cosa all'opposizione fra il valore d'uso e il valore di scambio ecc." ("Études", vol. Il, p. 162, edizione di Bruxelles.)

Lauderdale:

"In generale, la ricchezza nazionale (valore d'uso) [*2] diminuisce a misura che le fortune individuali si accrescono per l'aumento del valore di scambio; e a misura che queste si riducono per la diminuzione di tale valore, la prima generalmente aumenta." ("Recherches sur la nature et l'origine de la richesse publique"; traduit par Lagentie de Lavaisse, Paris 1808 [pp. 32-33].)

Sismondi ha fondato sull'opposizione fra il valore d'uso e il valore di scambio la sua principale teoria, secondo la quale la diminuzione del reddito è proporzionale all'aumento della produzione.

Lauderdale ha basato il suo sistema sulla ragione inversa delle due specie di valore, e la sua dottrina era già tanto popolare al tempo di Ricardo, che questi poteva parlarne come di cosa generalmente conosciuta.

"Proprio sulla base della confusione delle idee di valore di scambio e di ricchezze (valore d'uso) [aggiunta di Marx] si è preteso che, diminuendo la quantità delle cose necessarie, utili o gradevoli alla vita, si potesse aumentare la ricchezza." (Ricardo, "Principes d'économie politique", traduit par Constancio, annoté par J.-B. Say, Paris 1835, vol. II, cap. "Sur la valeur et les richesses" [p. 65].)

Abbiamo visto dunque come gli economisti, prima di Proudhon, abbiano "segnalato" il mistero profondo dell'opposizione e della contraddizione: vediamo ora come Proudhon, dopo gli economisti, spieghi a sua volta questo mistero.

Il valore di scambio di un prodotto, restando ferma la domanda, diminuisce a misura che l'offerta va crescendo; in altri termini: più un prodotto è abbondante, relativamente alla domanda, più il suo valore di scambio, ovvero il suo prezzo, è basso. Viceversa: più l'offerta è limitata, relativamente alla domanda, più il valore di scambio, ovvero il prezzo del prodotto offerto, aumenta; in altri termini: maggiore è la rarità dei prodotti offerti relativamente alla domanda, maggiore è il loro prezzo. Il valore di scambio di un prodotto dipende dalla sua abbondanza o dalla sua rarità, ma sempre in relazione alla domanda. Supponete un prodotto, più che raro, unico nel suo genere: ebbene, nonché abbondante, esso sarà superfluo se non sarà richiesto. Al contrario, supponete un prodotto che si trovi in milioni di esemplari: esso sarà sempre raro se non sarà sufficiente a soddisfare la domanda, cioè se sarà troppo richiesto.

Sono, queste, verità che chiameremmo quasi banali; e che pure è stato necessario qui ripetere per far comprendere i misteri di Proudhon.

"Tanto che, perseguendo il principio fino alle sue ultime conseguenze, si arriverebbe a concludere, nella maniera più logica, che le cose il cui uso è necessario e la quantità infinita non debbono valere nulla, mentre quelle la cui utilità è nulla e la cui rarità è estrema dovrebbero essere di un prezzo inestimabile. Per colmo d'imbarazzo, la pratica non ammette affatto questi estremi: da un lato, nessun prodotto umano potrebbe mai raggiungere una quantità infinita, dall'altro le cose più rare hanno bisogno di essere utili in una certa misura, altrimenti non sarebbero suscettibili di possedere alcun valore. Il valore d'uso e il valore di scambio restano dunque fatalmente connessi l'uno all'altro, sebbene per loro natura tendano continuamente ad escludersi." (Vol. I, p. 39.)

Che cosa porta al colmo l'imbarazzo di Proudhon?

Il fatto che egli ha completamente dimenticato la domanda, e che una cosa non potrebbe essere rara o abbondante se non in guanto domandata. Una volta messa da canto la domanda, egli assimila il valore di scambio alla rarità e il valore di uso all'abbondanza. Effettivamente, dicendo che le cose "la cui utilità è nulla e la cui rarità è estrema debbono avere un prezzo inestimabile", egli dice semplicemente che il valore di scambio non è che la rarità. "Rarità estrema e utilità nulla": è la rarità pura e semplice. "Prezzo inestimabile": è il massimo di valore di scambio, il valore di scambio puro e semplice. Ebbene, Proudhon pone questi due termini in equazione. Dunque, valore di scambio e rarità sono due estremi equivalenti. Giungendo a queste pretese "conseguenze estreme", Proudhon si trova in effetti ad aver spinto all'estremo, non le cose, ma i termini che le esprimono: e in questo egli dà prova di retorica assai più che di logica. Quando crede di essere giunto a nuove conseguenze, egli ritrova in tutta la loro nudità le sue prime ipotesi. E grazie allo stesso procedimento, riesce ad identificare il valore d'uso con l'abbondanza pura.

Dopo aver posto in equazione il valore di scambio e la rarità, il valore d'uso e l'abbondanza, Proudhon è sorpreso di non trovare né il valore d'uso nella rarità e nel valore di scambio, né il valore di scambio nell'abbondanza e nel valore d'uso; e vedendo che la pratica non ammette questi estremi, egli non può fare altro che credere al mistero. Per lui esiste un prezzo inestimabile, poiché egli non conosce compratori, né li troverà mai finché farà astrazione dalla domanda.

D'altro canto, l'abbondanza di Proudhon sembra essere qualcosa di spontaneo. Egli dimentica completamente che esistono delle persone che la producono e che è interesse di costoro non perdere mai di vista la domanda. Altrimenti come avrebbe Proudhon potuto dire che le cose assai utili debbono avere un prezzo assai basso, o, addirittura, non costare niente? Al contrario avrebbe dovuto concludere che è necessario limitare l'abbondanza, la produzione degli oggetti molto utili, se si desidera elevarne il prezzo, il valore di scambio.

Gli antichi vignaiuoli di Francia, quando sollecitavano una legge che proibisse la piantagione di nuove vigne, e gli olandesi quando bruciavano le spezie dell'Asia e sradicavano i garofani delle Molucche, volevano semplicemente ridurre l'abbondanza per elevare il valore di scambio. Tutto il medioevo, quando limitava per legge il numero degli artieri che potevano trovar lavoro presso un maestro di bottega, quando limitava il numero degli strumenti che il maestro poteva usare, agiva in base a questo medesimo principio. (Cfr. Anderson, "Storia del commercio.") [1]

Dopo aver rappresentato l'abbondanza come valore d'uso e la rarità come valore di scambio - nulla di più facile allora del dimostrare che l'abbondanza e la rarità sono l'una in ragione inversa dell'altra - Proudhon identifica il valore d'uso con l'offerta e il valore di scambio con la domanda. Per rendere l'antitesi ancora più netta egli opera una sostituzione di termini mettendo valore di opinione al posto di valore di scambio. Ecco dunque che la lotta ha mutato terreno, e noi ci troviamo con l'utilità (valore d'uso, offerta) da un lato e con l'opinione (valore di scambio, domanda) dall'altro.

Chi concilierà queste due forze che si contrastano? Come metterle d'accordo? Si potrebbe almeno stabilire fra esse un semplice punto di paragone?

Certo - esclama Proudhon - il punto c'è: è l'arbitrio [2]. Il prezzo che risulterà da questa lotta tra l'offerta e la domanda, tra l'utilità e l'opinione, non sarà l'espressione della giustizia eterna.

Proudhon continua a sviluppare questa antitesi:

"Nella mia qualità di libero compratore, io sono giudice del mio bisogno, giudice della convenienza dell'oggetto, giudice del prezzo che io voglio sborsare. D'altra parte nella vostra qualità di produttore libero voi siete padrone dei mezzi di esecuzione e, di conseguenza, avete la facoltà di ridurre le vostre spese." (Vol. I, p. 41.)

E poiché la domanda o il valore di scambio è identico all'opinione, Proudhon è condotto a dire:

"E' dimostrato che il libero arbitrio determina l'opposizione tra valore d'uso e valore di scambio. Come risolvere questo contrasto finché esisterà il libero arbitrio? E come sacrificare quest'ultimo a meno di non sacrificare l'uomo?" (Vol. I, p. 41.)

Così non c'è soluzione possibile. Vi è una lotta fra due forze per così dire incommensurabili, fra l'utile e l'opinione, fra il libero compratore e il produttore libero.

Esaminiamo le cose un po' più da vicino.

L'offerta non rappresenta esclusivamente l'utilità, la domanda non rappresenta esclusivamente l'opinione. Forse che chi domanda non offre anche lui un qualche prodotto, ovvero il simbolo rappresentativo di tutti i prodotti, il danaro? E, offrendo, non rappresenta egli, secondo Proudhon, l'utilità o il valore d'uso?

D'altra parte chi offre non domanda anche un qualche prodotto, ovvero il simbolo rappresentativo di tutti i prodotti, il denaro? E non diviene egli forse in questo modo il rappresentante dell'opinione, del valore d'opinione, ovvero del valore di scambio?

La domanda è contemporaneamente un'offerta, l'offerta è contemporaneamente una domanda. Così l'antitesi creata, da Proudhon con la semplice identificazione dell'offerta con l'utilità e della domanda con l'opinione, si basa solo su di una futile astrazione.

Ciò che Proudhon chiama valore d'uso, altri economisti chiamano, con altrettanta ragione, valore d'opinione. Noi ci limiteremo a citare Storch. ("Cours d'économie politique", Paris 1823, pp. 48 e 49.)

Secondo Storch si chiamano bisogni le cose di cui sentiamo bisogno; si chiamano valori le cose alle quali attribuiamo un valore. La maggior parte delle cose hanno valore solo in quanto soddisfano i bisogni generati dall'opinione. L'opinione sui nostri bisogni può mutare, dunque può cambiare anche l'utilità delle cose, la quale non esprime se non un rapporto fra esse cose e i nostri bisogni. Gli stessi bisogni naturali cambiano continuamente. Basta pensare alla varietà dei prodotti che servono da principale nutrimento presso i vari popoli!

La lotta non si svolge tra l'utilità e l'opinione; bensì tra il valore venale richiesto dal venditore e il valore venale offerto dal compratore. Il valore di scambio del prodotto è ogni volta la risultante di queste valutazioni contraddittorie.

In ultima analisi, l'offerta e la domanda pongono di fronte la produzione e il consumo, ma produzione e consumo fondati su scambi individuali.

Il prodotto che viene offerto non è l'utile in sé. È il consumatore che ne constata l'utilità. E anche quando al prodotto si riconosce la qualità di utile, esso non è esclusivamente l'utile. Nel corso della produzione esso è stato scambiato contro tutte le spese della produzione: materie prime, salari degli operai, ecc., cose tutte che sono valori venali. Il prodotto rappresenta dunque agli occhi del produttore una somma di valori venali. Ciò che egli offre, non è solo un oggetto utile, ma anche e soprattutto un valore di scambio.

Quanto alla domanda essa sarà effettiva solo a condizione di avere a sua disposizione dei mezzi di scambio. E questi stessi mezzi sono dei prodotti, dei valori di scambio.

Nell'offerta e nella domanda troviamo dunque, da un lato, un prodotto che è costato dei valori di scambio, e il bisogno di vendere; dall'altro, mezzi che sono costati dei valori di scambio, e il desiderio di acquistare.

Proudhon contrappone il libero compratore al libero produttore. Egli attribuisce all'uno e all'altro qualità puramente metafisiche. Il che gli fa dire:

"Che l'opposizione tra il valore d'uso e il valore di scambio sia determinata dal libero arbitrio dell'uomo, è un fatto provato." [I, p. 41.]

Il produttore, dal momento che ha prodotto in una società basata sulla divisione del lavoro e sugli scambi - ed è questa l'ipotesi di Proudhon - è costretto a vendere. Proudhon asserisce che il produttore è padrone dei mezzi di produzione; ma dovrà pur convenire con noi che non certo dal libero arbitrio dipendono i suoi mezzi di produzione. C'è di più: questi mezzi di produzione sono in gran parte dei prodotti che gli derivano dall'esterno e nella produzione moderna egli non è neppure libero di produrre la quantità che vuole. Il grado attuale di sviluppo delle forze produttrici l'obbliga a produrre su questa o su quella scala.

Il consumatore non è più libero del produttore. La sua opinione si fonda sui suoi mezzi e sui suoi bisogni. Gli uni e gli altri sono determinati dalla loro posizione sociale, la quale dipende anch'essa dall'organizzazione sociale nel suo complesso. Sì, l'operaio che acquista delle patate e la mantenuta che compra dei merletti, seguono l'uno e l'altra le loro rispettive opinioni. Ma la diversità di queste si spiega attraverso la differente posizione che essi occupano nel mondo, la quale è il risultato dell'organizzazione sociale.

È sull'opinione o su tutta l'organizzazione della produzione che si basa l'intero sistema dei bisogni? Il più spesso i bisogni nascono direttamente dalla produzione o da uno stato di cose basato sulla produzione. Il commercio mondiale è imperniato quasi interamente su dei bisogni: bisogni non del consumo individuale, ma della produzione. Così, per dare un altro esempio: il bisogno che si ha di ricorrere ai notai non presuppone forse un diritto civile dato, che non è se non l'espressione di un certo grado di sviluppo della proprietà, ossia della produzione?

Proudhon non si accontenta di aver eliminato dal rapporto della domanda e dell'offerta gli elementi di cui abbiamo parlato. Egli spinge l'astrazione fino al limite estremo, fondendo tutti i produttori in un solo produttore, tutti i consumatori in un solo consumatore, e stabilendo la lotta fra questi due personaggi chimerici. Ma nel mondo reale le cose vanno diversamente. La concorrenza tra coloro che offrono e la concorrenza fra coloro che domandano, costituiscono un elemento necessario della lotta fra compratori e venditori: donde risulta il valore di scambio.

Dopo aver eliminato le spese di produzione e la concorrenza, Proudhon può benissimo ridurre all'assurdo la formula dell'offerta e della domanda.

"L'offerta e la domanda", egli dice, "non sono altro che due forme cerimoniali, le quali servono a porre in presenza l'uno dell'altro il valore d'uso e il valore di scambio e a provocare la conciliazione fra questi. Esse sono i due poli elettrici che messi in contatto debbono produrre quel fenomeno d'affinità chiamato scambio." (Vol. 1, p. 49.)

Tanto vale dire che lo scambio non è altro che una "forma cerimoniale", per porre di fronte il consumatore e l'oggetto del consumo. Tanto vale dire che tutti i rapporti economici non sono che "forme cerimoniali" che debbono servire da tramite al consumo immediato. L'offerta e la domanda sono rapporti di una produzione data, né più né meno che gli scambi individuali.

In che consiste, quindi, tutta la dialettica di Proudhon? Nel sostituire al valore d'uso e di scambio, all'offerta e alla domanda, nozioni astratte e contraddittorie, quali la rarità e l'abbondanza, l'utile e l'opinione, un produttore e un consumatore, entrambi cavalieri del libero arbitrio.

E a che cosa egli mira?

A procurarsi il mezzo per introdurre in seguito uno degli elementi che aveva scartato, le spese di produzione, come sintesi fra il valore d'uso e il valore di scambio. Ed è così che ai suoi occhi le spese di produzione costituiscono il valore sintetico ovvero il valore costituito.  :

 

 

2. Il valore costituito ovvero il valore sintetico

"Il valore (di scambio) [*3] è la pietra angolare dell'edificio economico." [I, p. 32.] Il valore "costituito" è la pietra angolare del sistema delle contraddizioni economiche.

Ma che cosa è, insomma, questo "valore costituito", che costituisce. tutta intera la grande scoperta di Proudhon in economia politica?

Una volta ammessa l'utilità, dal lavoro scaturisce il valore. La misura del lavoro è il tempo. Il valore relativo dei prodotti è determinato dal tempo che è stato necessario per produrli. Il prezzo è l'espressione monetaria del valore relativo di un prodotto. Infine, il valore costituito di un prodotto è semplicemente il valore che è costituito dal tempo di lavoro impiegato nel prodotto stesso.

Come Adam Smith ha scoperto la divisione del lavoro così lui, Proudhon, pretende di aver scoperto il "valore costituito". Non è certo "qualcosa d'inaudito", ma bisogna pur convenire che non vi è nulla di inaudito in nessuna scoperta della scienza economica. Proudhon, che sente tutta l'importanza della sua invenzione, cerca tuttavia di attenuarne il merito,

"per rassicurare il lettore sulle sue pretese di originalità e conciliarsi quegli spiriti che la timidezza rende poco favorevoli alle idee nuove" [I, p. 52 ].

Ma, man mano che egli pretende di stabilire la parte avuta da ciascuno dei suoi predecessori nella determinazione del valore, è costretto a proclamare ad alta voce che a lui spetta la parte più cospicua, la parte del leone.

"L'idea sintetica del valore era stata vagamente intravista da Adam Smith... ma presso Adam Smith quest'idea del valore era del tutto intuitiva: ora, la società non muta le sue abitudini in base alla fede nelle intuizioni, essa non si decide che di fronte all'autorità dei fatti. Bisognava che l'antinomia venisse espressa in modo più sensibile e netto: J.-B. Say fu il suo principale interprete." [I, p. 66]

Eccovi bell'e fatta la storia della scoperta del valore sintetico: ad Adam Smith, l'intuizione vaga; a J.-B. Say, l'antinomia; al signor Proudhon la verità costituente e "costituita". E attenzione: tutti gli altri economisti, da Say a Proudhon, non hanno fatto che trascinarsi nel solco dell'antinomia.

"È incredibile che tanti uomini sensati si agitino da quarant'anni contro un'idea tanto semplice. Ma no, il confronto dei valori si effettua senza che ci sia fra loro alcun punto di confronto e senza unità di misura: ecco ciò che gli economisti del diciannovesimo secolo, piuttosto che abbracciare la teoria rivoluzionaria dell'eguaglianza, hanno deciso di sostenere verso e contro tutti. Che ne diranno i posteri?" (Vol. I, p. 68.)

I posteri, tanto bruscamente interpellati, cominceranno ad imbrogliarsi sulla cronologia. E si chiederanno necessariamente: Ricardo e quelli della sua scuola non sono dunque economisti del diciannovesimo secolo? Il sistema di Ricardo, il quale pone come principio "che il valore relativo delle merci si valuta solamente in base alla quantità di lavoro richiesta per la loro produzione" [3], risale al 1817. Ricardo è il capo di tutta una scuola che domina in Inghilterra dal tempo della Restaurazione. La dottrina ricardiana rappresenta rigorosamente, spietatamente, tutta la borghesia inglese, che è il prototipo della borghesia moderna. "Che ne diranno i posteri?" Essi non potranno dire che Proudhon non ha affatto conosciuto Ricardo, infatti egli ne parla, ne parla a lungo, ci ritorna di continuo sopra, finendo poi addirittura col dire che è un "guazzabuglio". Se mai i posteri se ne interesseranno, diranno forse che Proudhon, temendo di offendere l'anglofobia dei suoi lettori, ha preferito farsi editore responsabile delle idee di Ricardo. Comunque, essi troveranno assai ingenuo il fatto che Proudhon scodelli come "teoria rivoluzionaria dell'avvenire" ciò che Ricardo ha scientificamente esposto come la teoria della società attuale, della società borghese, e che Proudhon prenda in tal modo per risoluzione dell'antinomia fra utilità e valore di scambio, quello che Ricardo e la sua scuola hanno assai prima di lui presentato come formula scientifica di un solo termine dell'antinomia, del valore di scambio. Ma mettiamo da parte una volta per sempre i posteri e confrontiamo Proudhon col suo predecessore Ricardo. Ecco alcuni passi di quest'ultimo che riassumono la sua dottrina sul valore:

"Non l'utilità è la misura del valore di scambio, sebbene sia ad esso assolutamente necessaria." (Vol. I, p. 3 dei "Principes de l'économie politique, ecc.", traduit de l'anglais par F.-S. Constancio, Paris 1835.)

"Le cose, una volta che siano riconosciute utili in sé, traggono il loro valore di scambio da due fonti: dalla loro rarità e dal lavoro necessario per poterle ottenere. Vi sono cose il cui valore non dipende se non dalla loro rarità. Poiché nessun lavoro ne può aumentare la quantità, il loro valore non può diminuire per una maggiore abbondanza di esse. Tali sono le statue o i quadri di pregio, ecc. Questo valore dipende unicamente dalle disponibilità, dai gusti e dal capriccio di coloro che desiderano possedere simili oggetti. (Vol. I, pp. 4 e 5, loc. cit.) Esse non formano tuttavia che una assai piccola parte delle merci che si scambiano giornalmente. Dato che la grandissima maggioranza degli oggetti che si desidera possedere sono prodotti dall'industria, è possibile moltiplicarli, non solo in uno ma in diversi paesi, in quantità quasi illimitata, ogni qualvolta si vorrà mobilitare l'industria necessaria a produrli. (Vol. I, p. 5, loc. cit.) Quando dunque parliamo di merci, del loro valore di scambio e dei princìpi che regolano il loro prezzo relativo, noi consideriamo solo quelle merci la cui quantità può accrescersi attraverso l'industria dell'uomo, la cui produzione viene stimolata dalla concorrenza e non è intralciata da alcun ostacolo." (Vol. I, p. 5.)

Ricardo cita Adam Smith che, secondo lui, "ha definito con molta precisione l'origine prima di ogni valore di scambio" (Smith, vol. I, cap. 5) [4], e aggiunge:

"Che esso (ossia il tempo di lavoro) sia in realtà la base del valore di scambio di tutte le cose, eccettuate quelle che l'industria umana non può moltiplicare a volontà, è un punto dottrinale della più alta importanza in economia politica: poiché da nessun punto sono derivati tanti errori ed opinioni diverse in questa scienza, quanto dal senso vago e imprecisato che viene attribuito alla parola valore." (Vol. I, p. 8.) "Se è la quantità di lavoro inglobato in un prodotto che ne regola il valore di scambio, ne segue che ogni aumento nella quantità di lavoro deve necessariamente aumentare il valore dell'oggetto cui è stato dedicato, come ogni diminuzione di lavoro deve diminuirne il prezzo." (Vol. I, p. 9.)

Ricardo rimprovera quindi a Adam Smith:

  1. Di "dare al valore una misura diversa dal lavoro; talora il valore del grano, talora la quantità di lavoro che può acquistare una cosa, ecc.". (Vol. I, pp. 9-10.)
  2. Di "aver ammesso senza riserve il principio e di restringerne tuttavia l'applicazione allo stadio primitivo e rozzo della società, quello che precede l'accumulazione dei capitali e la proprietà delle terre". (Vol. I. p. 21.)

Ricardo si applica a dimostrare che la proprietà delle terre, ossia la rendita, non potrebbe mutare il valore relativo delle derrate e che l'accumulazione dei capitali non esercita che un'azione temporanea e fluttuante sui valori relativi determinati dalla quantità comparativa di lavoro impiegato nella loro produzione. A sostegno di questa tesi, egli enuncia la sua celebre teoria della rendita fondiaria, decompone il capitale e giunge a non trovarvi, in ultima analisi, che del lavoro accumulato. Egli sviluppa in seguito tutta una teoria del salario e del profitto, e dimostra che il salario e il profitto si comportano, nei loro movimenti di flusso e riflusso, l'uno in ragione inversa dell'altro, senza influire sul valore relativo del prodotto. Egli non trascura l'influenza che sul valore proporzionale dei prodotti può essere esercitata dall'accumulazione dei capitali, dalla diversa loro natura (capitali fissi e capitali circolanti) e dal tasso dei salari. Sono proprio questi i principali problemi che occupano Ricardo.

"Ogni economia nel lavoro", egli dice, "non manca mai di far diminuire il valore relativo [*4] di una merce, sia che tale economia venga praticata sul lavoro necessario alla fabbricazione dell'oggetto stesso, sia che venga praticata sul lavoro necessario alla formazione del capitale investito in questa produzione."(Vol. I, p. 28.)

"Di conseguenza, finché una giornata di lavoro continuerà a dare all'uno la stessa quantità di pesce e all'altro altrettanta cacciagione, il tasso naturale dei prezzi rispettivi di scambio resterà sempre lo stesso, qualunque sia d'altra parte la variazione nei salari e nel profitto, e ad onta di tutti gli effetti dell'accumulazione del capitale." (Vol. I, p. 32.)

"Abbiamo considerato il lavoro come la base del valore delle cose, e la quantità di lavoro necessaria alla loro produzione come la regola che determina le rispettive quantità di merci che devono scambiarsi con altre; ma non abbiamo preteso negare che vi sia, nel prezzo corrente delle merci, qualche deviazione accidentale e transitoria da quel prezzo primitivo e naturale." (Vol. I, p. 105, loc. cit.) "I prezzi delle cose sono regolati, in ultima analisi, dalle spese di produzione, e non, come è stato più volte affermato, dalla proporzione tra l'offerta e la domanda. (Vol. II, p. 253.)

Lord Lauderdale aveva sviluppato le variazioni del valore di scambio secondo la legge dell'offerta e della domanda, o della rarità e dell'abbondanza in relazione alla domanda. Secondo lui il valore di una cosa può aumentare quando la quantità ne diminuisce o la domanda ne aumenta; esso può diminuire in ragione dell'aumento della quantità o della diminuzione della domanda. Così il valore di una cosa può essere determinato da otto cause diverse, ossia da quattro cause che agiscono sulle cose stesse e da quattro che agiscono sul danaro o su qualsiasi altra merce che serva da misura del valore. Ecco la confutazione di Ricardo:

"I prodotti di cui un privato o una società detenga il monopolio, variano di valore secondo la legge che Lord Lauderdale ha stabilito: diminuiscono in proporzione all'aumento dell'offerta, e aumentano in proporzione al desiderio che i compratori mostrano di acquistarli; il loro prezzo non si trova in un rapporto necessario col loro valore naturale. Ma i prodotti soggetti alla concorrenza fra i venditori, e la cui quantità può essere sempre aumentata in una certa misura, vedono il proprio prezzo dipendere in definitiva non dallo stato della domanda e dalla quantità che ne può essere gettata sul mercato, bensì dall'aumento o dalla diminuzione delle spese di produzione." (Vol. II, p. 259.)

Lasciamo al lettore di fare il confronto fra il linguaggio così preciso, così chiaro, così semplice, di Ricardo e i conati retorici compiuti da Proudhon per arrivare alla determinazione del valore di scambio in base al tempo di lavoro.

Ricardo ci mostra il movimento reale della produzione borghese, che produce il valore. Proudhon, astraendo da questo movimento reale, "si agita" per inventare nuovi processi, al fine di regolare il mondo secondo una formula che egli pretende nuova e che invece non è se non l'espressione teorica del movimento reale esistente, tanto bene esposto da Ricardo. Ricardo pone come suo punto di partenza la società attuale, per dimostrarci come essa costituisca il valore. Proudhon invece pone come punto di partenza il valore costituito, per costituire un nuovo mondo sociale a mezzo di questo valore. Per lui, per Proudhon, il valore costituito deve fare il giro e ridivenire costituente nei confronti di un mondo già completamente costituito secondo questo sistema di valutazione. La determinazione del valore in base al tempo di lavoro è, per Ricardo, la legge del valore di scambio; per Proudhon invece è la sintesi del valore d'uso e del valore di scambio. La teoria dei valori di Ricardo è l'interpretazione scientifica della vita economica attuale, la teoria dei valori di Proudhon è l'interpretazione utopistica della teoria di Ricardo. Ricardo constata la verità della sua formula facendola derivare da tutti i rapporti economici e spiegandosi in questo modo tutti i fenomeni, anche quelli che, a tutta prima, sembrano contraddirla, come la rendita, l'accumulazione dei capitali e il rapporto in cui si trovano salari e profitti; ciò che fa della sua dottrina un sistema scientifico; Proudhon, che ha "riscoperto" questa formula di Ricardo a forza di ipotesi del tutto arbitrarie, è costretto in seguito a cercare dei fatti economici isolati che egli deforma e falsifica, per presentarli come esempi, come applicazioni già esistenti, come inizi di realizzazione della sua idea rigeneratrice. (Cfr. nel par. 3, Applicazione del valore costituito.)

Passiamo ora alle conclusioni che Proudhon trae dal suo valore costituito (mediante il tempo di lavoro).

Queste conclusioni sono dunque le conseguenze naturali, rigorose del valore "costituito", determinato dal tempo di lavoro?

Se il valore relativo di una merce è determinato dalla quantità di lavoro richiesto per produrla, ne consegue naturalmente che il valore relativo del lavoro, o il salario, è ugualmente determinato dalla quantità di lavoro necessario a produrre il salario. Il salario, cioè il valore relativo o prezzo del lavoro, è dunque determinato in base al tempo di lavoro necessario per produrre quanto occorre al mantenimento dell'operaio.

"Diminuite le spese di fabbricazione dei cappelli e il loro prezzo finirà per precipitare al loro nuovo prezzo naturale, per quanto la domanda possa aumentare del doppio, del triplo, o del quadruplo. Diminuite le spese per il sostentamento degli uomini, diminuendo il prezzo naturale dell'alimentazione e del vestiario necessari all'esistenza, e vedrete che i salari finiranno con l'abbassarsi per quanto sia potuta aumentare anche considerevolmente la richiesta di mano d'opera." (Ricardo, vol. II, p. 253.)

Certo, il linguaggio di Ricardo è quanto mai cinico. Mettere sullo stesso piano le spese per la fabbricazione dei cappelli e le spese di mantenimento dell'uomo significa trasformare l'uomo in cappello. Ma non gridiamo troppo al cinismo. Il cinismo è nei fatti e non nelle parole che esprimono i fatti. Scrittori francesi come i signori Droz, Blanqui, Rossi [5] e altri si concedono l'innocente soddisfazione di dimostrare la loro superiorità sugli economisti inglesi, cercando di rispettare l'etichetta di un linguaggio "umanitario"; se essi rimproverano a Ricardo e alla sua scuola un linguaggio cinico è perché non sopportano di vedere esposti i rapporti economici in tutta la loro crudezza, di vedere svelati i misteri della borghesia.

Riassumendo: il lavoro, essendo esso stesso una merce, come tale viene misurato in base al tempo necessario a produrre il lavoro-merce. E che cosa è necessario perché si produca il lavoro-merce? Esattamente quel tanto di tempo di lavoro necessario a produrre gli oggetti indispensabili al mantenimento costante del lavoro, ossia a far vivere il lavoratore e a metterlo in grado di riprodurre la sua specie. Il prezzo naturale del lavoro non è che il minimo del salario [*5]. Se il prezzo corrente del salario si eleva al di sopra del prezzo naturale è precisamente perché la legge del valore, posta come principio da Proudhon, si trova controbilanciata dalle conseguenze delle variazioni del rapporto tra l'offerta e la domanda.

Ma il minimo del salario resta nondimeno il centro verso il quale gravitano i prezzi correnti del salario. Così il valore misurato in base al tempo di lavoro è fatalmente la formula della schiavitù moderna dell'operaio, invece di essere, come vorrebbe Proudhon, la "teoria rivoluzionaria" dell'emancipazione del proletariato.

Vediamo ora in quanti casi l'applicazione del tempo di lavoro come misura del valore è incompatibile con l'esistente antagonismo delle classi e con l'ineguale distribuzione del prodotto del lavoro fra il lavoratore immediato [*6] e il possessore del lavoro accumulato.

Supponiamo un prodotto qualunque, ad esempio la tela. Questo prodotto, come tale, ingloba una determinata quantità di lavoro: quantità che sarà sempre la stessa, qualunque sia la situazione reciproca di coloro che hanno concorso a creare il prodotto stesso.

Prendiamo un altro prodotto, del panno, che abbia richiesto la medesima quantità di lavoro della tela.

Se vi è scambio di questi prodotti, vi è scambio di eguali quantità di lavoro. Scambiando queste quantità di lavoro eguali, non si scambia la situazione reciproca dei produttori, più di quanto non si cambi qualcosa alla situazione degli operai e dei fabbricanti fra di loro. Dire che questo scambio di prodotti misurati in base al tempo di lavoro ha per conseguenza un'eguale retribuzione di tutti i prodotti, significa supporre che un'eguale partecipazione al prodotto abbia preceduto lo scambio. Avvenuto lo scambio del panno con la tela, i produttori del panno parteciperanno alla tela in proporzione eguale a quella in cui avevano precedentemente partecipato al panno.

L'illusione di Proudhon proviene dal fatto che egli assume come conseguenza ciò che potrebbe essere, tutt'al più, un presupposto non dimostrato.

Ma procediamo.

Il tempo di lavoro come misura del valore presuppone forse che le giornate siano equivalenti, ossia che la giornata lavorativa di Tizio valga la giornata di Caio? No.

Ammettiamo per un istante che la giornata di un orefice equivalga a tre giornate di un tessitore; ebbene, ogni cambiamento del valore dei gioielli in relazione ai tessuti, a meno che non sia il risultato passeggero delle oscillazioni della domanda e dell'offerta, deve avere sempre per causa una diminuzione o un aumento del tempo di lavoro impiegato da una parte o dall'altra nella produzione. Supposto che le tre giornate di lavoro di lavoratori diversi stiano fra loro come 1, 2, 3, ogni cambiamento nel valore relativo dei loro prodotti sarà un cambiamento nella proporzione di 1, 2, 3. Così è possibile misurare il valore in base al tempo di lavoro, nonostante l'ineguaglianza del valore delle differenti giornate lavorative; ma per applicare una simile misura è necessario avere una scala comparativa delle diverse giornate lavorative: ed è la concorrenza che la stabilisce.

L'ora di lavoro di Tizio vale quella di Caio? È una questione che viene decisa dalla concorrenza.

La concorrenza, secondo un economista americano [6], determina quante giornate di lavoro semplice sono contenute in una giornata di lavoro complesso [*7]. Ora questa traduzione di giornate di lavoro complesso in giornate di lavoro semplice non presuppone forse che si assuma il lavoro semplice stesso come misura del valore? Se la quantità di lavoro in sé, indipendentemente dalla qualità, è presa come misura del valore, ciò presuppone che il lavoro semplice sia divenuto il perno dell'industria. Presuppone che i lavori si siano eguagliati a causa della subordinazione dell'uomo alla macchina o della divisione estrema del lavoro; che gli uomini scompaiano davanti al lavoro; che il bilanciere della pendola sia divenuto la misura esatta dell'attività relativa di due operai, come lo è della velocità di due locomotive. Per cui non si deve più dire che un'ora di un uomo vale un'ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un'ora vale un altro uomo di un'ora. Il tempo è tutto, l'uomo non è più niente; è tutt'al più l'incarnazione del tempo. Non vi è più questione di qualità. La quantità sola decide di tutto: ora contro ora, giornata contro giornata; ma questo livellamento del lavoro non è l'opera dell'eterna giustizia di Proudhon; è semplicemente la realtà dell'industria moderna.

Nell'officina moderna, il lavoro di un operaio non si distingue quasi più dal lavoro di un altro operaio; gli operai non possono più distinguersi fra loro se non in base alla quantità di tempo che impiegano per lavorare. Non di meno questa differenza quantitativa diviene, sotto un certo aspetto, qualitativa, in quanto il tempo che si può dedicare al lavoro dipende, in parte, da cause puramente materiali quali la costituzione fisica, l'età, il sesso; in parte da cause morali puramente negative, quali la pazienza, l'impassibilità, l'assiduità. Infine, se vi è una differenza di qualità nel lavoro degli operai, si tratta tutt'al più di una qualità infima la quale è ben lungi dall'essere una specialità distintiva. Ecco come, in ultima analisi, vanno le cose nell'industria moderna. Ora è su questa eguaglianza, già realizzata, del lavoro "meccanizzato", che Proudhon si accinge a far passare la sua pialla "livellatrice" da usarsi universalmente nel "tempo avvenire".

Tutte le conseguenze "egualitarie" che Proudhon trae dalla dottrina di Ricardo poggiano su di un errore fondamentale. Egli infatti confonde il valore delle merci determinato dalla quantità di lavoro impiegato, con il valore delle merci determinato in base al "valore del lavoro". Se queste due maniere di misurare il valore delle merci esprimessero la stessa cosa, si potrebbe dire indifferentemente: il valore di una qualsiasi merce è misurato dalla quantità di lavoro ivi inglobata; ovvero: è misurato dalla quantità di lavoro che esso è in grado di acquistare; ovvero ancora: è misurato dalla quantità di lavoro che può acquistarlo. Ma è ben lungi dall'essere così. Il valore del lavoro non potrebbe servire di misura al valore più di quanto non lo potrebbe il valore di qualunque altra merce. Alcuni esempi saranno sufficienti per spiegare ancor meglio quanto abbiamo detto.

Se un moggio di grano costasse due giornate di lavoro, anziché una sola, varrebbe il doppio del suo valore originario; ma non metterebbe in moto una doppia quantità di lavoro perché non conterrebbe materia nutritiva più di quanta ne avesse in precedenza. Così il valore del grano misurato dalla quantità di lavoro impiegato a produrlo, sarebbe raddoppiato; ma misurato sia dalla quantità di lavoro che esso può acquistare, sia da quella da cui può essere acquistato, sarebbe lungi dall'essere raddoppiato. D'altra parte, se lo stesso lavoro producesse vestiti in quantità doppia della precedente, il valore relativo diminuirebbe della metà; ma, nondimeno, questa doppia quantità di vestiti non sarebbe perciò ridotta al punto di poter acquistare solo la metà di lavoro, né lo stesso lavoro sarebbe in grado di acquistare una doppia quantità di vestiti, poiché la metà dei vestiti continuerebbe sempre a rendere all'operaio lo stesso servizio di prima.

Così, il determinare il valore relativo delle derrate in base al valore del lavoro contraddice i fatti economici. Significa muoversi in un circolo vizioso, significa determinare il valore relativo in base ad un valore relativo che, a sua volta, ha bisogno di essere determinato.

È fuor di dubbio che Proudhon confonde le due misure: il tempo del lavoro necessario alla produzione di una merce, e il valore del lavoro.

"Il lavoro di ogni uomo", egli dice, "può comprare il valore che esso racchiude." [I, p. 81.]

Così, secondo lui, una certa quantità di lavoro fissata in un prodotto equivale alla retribuzíone del lavoratore, cioè al valore del lavoro. Ed è sempre il medesimo ragionamento che gli permette di confondere le spese di produzione con i salari.

"Che cosa è il salario? È il prezzo di costo del grano, ecc. è il prezzo "integrale di ogni cosa." Ancora: "Il salario è la proporzionalità degli elementi che compongono la ricchezza". [I, p. 110.]

Che cosa, è il salario invece? È il valore del lavoro.

Adam Smith prende a misura del valore talvolta il tempo di lavoro necessario alla produzione di una merce, talaltra il valore del lavoro. Ricardo ha svelato quest'errore mostrando chiaramente la disparità di questi due criteri di misurazione. Proudhon aggrava l'errore di Adam Smith, identificando le due cose che quegli aveva invece solo giustapposte.

Proudhon cerca una misura del valore relativo delle merci per trovare la giusta proporzione secondo cui gli operai devono partecipare ai prodotti, o, in altri termini, per determinare il valore relativo del lavoro. E per determinare la misura del valore relativo delle merci, egli non immagina nulla di meglio che dare come equivalente di una certa quantità di lavoro la somma dei prodotti da essa creati, il che significa tornare a supporre che tutta la società non consti se non di lavoratori immediati che ricevono per salario il proprio prodotto. In secondo luogo egli afferma l'equivalenza delle giornate dei diversi lavoratori. Insomma egli cerca la misura del valore relativo delle merci per trovare la retribuzione eguale dei lavoratori, e assume come un dato già del tutto determinato l'eguaglianza dei salari, per andarsene a cercare il valore relativo delle merci. Dialettica davvero mirabile!

"Say e gli economisti che lo hanno seguito hanno osservato che essendo il lavoro stesso passibile di valutazione, come una qualsiasi altra merce, in effetti prenderlo come principio e fattore decisivo del valore significa muoversi in un circolo vizioso. Questi economisti, mi permettano di dirlo, hanno dato prova con ciò di una prodigiosa disattenzione. Viene detto che il lavoro vale non in quanto esso stesso è una merce ma in vista dei valori che si suppongono potenzialmente racchiusi in esso. Il valore del lavoro è un'espressione figurata, un'anticipazione della causa sull'effetto. È una finzione come la produttività del capitale. Il lavoro produce, il capitale vale ... Per una sorta di ellissi si dice il valore del lavoro... Il lavoro come la libertà ... è cosa vaga e indeterminata per sua natura, ma si definisce qualitativamente per mezzo del suo oggetto, ossia diviene realtà per mezzo del prodotto." [I, p. 61.]

"Ma che bisogno c'è d'insistere? L'economista" (leggere: Proudhon) [*8], "dal momento che cambia il nome alle cose, vera rerum vocabula [*9], confessa implicitamente la propria impotenza e si mette fuori causa." (Proudhon, I, 188.)

Abbiamo visto come Proudhon faccia del valore del lavoro il "fattore decisivo" del valore dei prodotti, al punto che per lui il salario, nome ufficiale del "valore del lavoro", forma il prezzo integrale di ogni cosa. Ecco perché l'obiezione di Say lo confonde. Nel lavoro-merce, che è una tremenda realtà, egli non vede che un'ellissi grammaticale. Dunque, tutta la società attuale, fondata sul lavoro-merce, è ormai fondata su una licenza poetica, su un'espressione figurata. Vuole la società "eliminare tutti gli inconvenienti" [I, p. 97] che la travagliano? Ebbene, elimini i termini impropri, muti di linguaggio, e si rivolga per questo all'Accademia chiedendo una nuova edizione del suo dizionario! Dopo tutto quello che siamo venuti dicendo, ci è facile comprendere perché Proudhon, in un'opera d'economia politica, abbia dovuto ingolfarsi in lunghe dissertazioni sull'etimologia e su altre parti della grammatica; così egli è ancora occupato a discutere dottamente sulla questione ormai sorpassata dalla derivazione di servus a servar [*10]. Queste dissertazioni filologiche hanno un senso profondo, un senso esoterico; costituiscono una parte essenziale dell'argomentazione di Proudhon.

Il lavoro [*11], in quanto si vende e si acquista, è una merce come un'altra, e di conseguenza un valore di scambio. Ma il valore del lavoro, o il lavoro in quanto merce, produce tanto poco quanto il valore del grano, o il grano in quanto merce, serve da nutrimento.

Il lavoro "vale" più o meno, a seconda che le derrate alimentari siano più o meno care, a seconda che l'offerta e la domanda di mano d'opera esistano ad un grado più o meno elevato, ecc.

Il lavoro non è affatto una "cosa vaga"; è sempre un lavoro determinato, non è mai il lavoro in generale, che si vende e si acquista. Non è solo il lavoro che si definisce qualitativamente per mezzo dell'oggetto, ma è anche l'oggetto che viene determinato dalla qualità specifica del lavoro. Il lavoro, in quanto si vende e si acquista, è merce. Perché lo si acquista? "In vista dei valori che si suppongono potenzialmente racchiusi in esso". Ma se si dice che la tale cosa è una merce non si tratta più del fine pel quale la si compra, cioè dell'utilità che si vuole ritrarne, dell'applicazione che si vuol farne. Essa è merce come oggetto di traffico. Tutti i ragionamenti di Proudhon si limitano a questo: non si acquista il lavoro come oggetto di consumo immediato. No, lo si acquista come strumento di produzione, come si acquisterebbe una macchina. In quanto merce, il lavoro vale e non produce. Proudhon avrebbe potuto dire altrettanto bene che non esistono affatto merci, poiché ogni merce non viene acquistata se non in vista di un qualsiasi fine di utilità e mai per il solo fatto di essere merce.

Misurando col lavoro il valore della merce, Proudhon intravede vagamente l'impossibilità di sottrarre a questo stesso metodo di misurazione il lavoro, in quanto ha un valore, in quanto, cioè, è lavoro-merce. Egli intuisce che ciò significa fare del minimo del salario il prezzo naturale e normale del lavoro immediato, che significa cioè accettare lo stato attuale della società. Così, per sottrarsi a questa conseguenza fatale, fa un bel voltafaccia, e pretende che il lavoro non è una merce, che esso non può avere un valore. Dimentica di aver egli stesso preso per misura il valore del lavoro, dimentica che tutto il suo sistema poggia sul lavoro-merce, sul lavoro che si baratta, si vende e si acquista, si scambia contro altri prodotti, ecc.; sul lavoro, infine, che è fonte immediata di reddito per il lavoratore. Dimentica insomma tutto.

Per salvare il suo sistema, acconsente a sacrificarne la base. Et propter vitam vivendi perdere causas! [*12]

Arriviamo ora ad una nuova determinazione del "valore costituito"

"Il valore è il rapporto di proporzionalità dei prodotti che compongono la ricchezza." [I, p. 62.]

Notiamo innanzi tutto che il semplice termine di "valore relativo o di scambio" implica l'idea di un rapporto qualsiasi nel quale i prodotti si scambiano reciprocamente. Anche dando a questo rapporto il nome di "rapporto di proporzionalità", nessun mutamento, se non d'espressione, viene recato al valore relativo. Né la diminuzione, né l'aumento di valore del prodotto distruggono la proprietà che esso ha di trovarsi in un "rapporto di proporzionalità" qualsivoglia con gli altri prodotti che formano la ricchezza.

Perché dunque questo nuovo termine che non reca nessuna idea nuova?

Il "rapporto di proporzionalità" fa pensare a molti altri rapporti economici, quali la proporzionalità della produzione, la giusta proporzione tra l'offerta e la domanda, ecc.; e Proudhon pensava a tutto questo quando formulava quella sua parafrasi didattica del valore di scambio.

In primo luogo, essendo il valore relativo dei prodotti determinato dalla quantità comparativa del lavoro impiegato nella produzione di ciascuno di essi, il rapporto di proporzionalità, applicato a questo caso speciale, significa la quota rispettiva dei prodotti che possono essere fabbricati in un tempo dato, e di conseguenza, essere scambiati.

Vediamo qual partito trae Proudhon da questo rapporto di proporzionalità.

Tutti sanno che, quando l'offerta e la domanda si equilibrano, il valore relativo di un qualsiasi prodotto è esattamente determinato dalla quantità di lavoro che vi è fissata, cioè questo valore relativo esprime il rapporto di proporzionalità precisamente nel senso che noi gli abbiamo attribuito. Proudhon inverte l'ordine delle cose: si cominci, egli dice, col misurare il valore relativo di un prodotto secondo la quantità di lavoro che vi è fissata e allora l'offerta e la domanda si equilibreranno infallibilmente. La produzione corrisponderà al consumo, il prodotto sarà sempre tale da potersi scambiare. Il suo prezzo corrente esprimerà esattamente il suo giusto valore. Invece di dire, come tutti: quando fa bel tempo si vede molta gente a passeggio, Proudhon fa passeggiare la sua gente per poterle assicurare il bel tempo.

Quello che Proudhon considera conseguenza del valore di scambio, determinato a priori dal tempo di lavoro, non potrebbe giustificarsi se non in base a una legge formulata press'a poco in questi termini:

I prodotti saranno d'ora in poi scambiati in ragione esatta del tempo di lavoro che sono costati. In qualunque proporzione stiano fra loro l'offerta e la domanda, lo scambio delle merci si effettuerà sempre come se fossero state prodotte proporzionalmente alla domanda. Si assuma Proudhon l'incarico di formulare e di far approvare una simile legge; noi gli risparmieremo allora di fornirci le prove. Se egli tiene invece a giustificare la sua teoria, non in quanto legislatore, ma in quanto economista, dovrà dimostrare che il tempo necessario a produrre una merce indica esattamente il suo grado di utilità e indica il suo rapporto di proporzionalità con la domanda, e, di conseguenza, con l'insieme della ricchezza sociale. In questo caso, se un prodotto si vende a un prezzo eguale alle spese di produzione, l'offerta e la domanda si equilibreranno sempre, poiché si suppone che le spese di produzione esprimano il vero rapporto in cui l'offerta si trova con la domanda.

Effettivamente Proudhon si affanna a dimostrare che il tempo di lavoro necessario per creare un prodotto indica la proporzione esatta in cui si trova coi bisogni, in modo tale che le cose la cui produzione richiede un tempo minore sono le più immediatamente utili, e così via gradualmente. Ora, già la sola produzione di un oggetto di lusso dimostra, secondo questa dottrina, che la società ha del tempo superfluo che le permette di soddisfare un bisogno di lusso.

La prova della propria tesi viene trovata da Proudhon nell'osservazione che le cose più utili costano un minor tempo di produzione, che la società comincia sempre dalle industrie più facili, e che "gradualmente passa alla produzione di oggetti che costano un maggior tempo di lavoro, e che corrispondono a bisogni di un ordine più elevato" [I, p. 57].

Proudhon prende a prestito dal signor Dunoyer [7] l'esempio della raccolta, del pascolo, della caccia, della pesca ecc., che sono le industrie più semplici, meno costose, e alle quali l'uomo ha dato inizio il "primo giorno della sua seconda creazione" [ I, p. 78 ]. Il primo giorno della sua prima creazione è registrato nella Genesi, che ci mostra Dio nelle vesti del primo industriale del mondo.

Ma le cose vanno del tutto diversamente da come pensa Proudhon. Nello stesso momento in cui sorge la civiltà, la produzione comincia a fondarsi sull'antagonismo delle professioni, degli stati, delle classi, infine sull'antagonismo tra lavoro accumulato e lavoro immediato. Senza antagonismo non vi è progresso. Questa è la legge che fino ai nostri giorni la civiltà ha seguìto. Fino ad oggi le forze produttive si sono sviluppate attraverso questo regime di antagonismo delle classi. Perciò dire oggi che, essendo soddisfatti tutti i bisogni dei lavoratori, è divenuto possibile agli uomini dedicarsi alla creazione di prodotti di un ordine superiore, a industrie più complesse, significherebbe fare astrazione dall'antagonismo delle classi, e capovolgere tutto lo sviluppo della storia. Sarebbe come dire che, poiché al tempo degli imperatori romani si allevavano le murene in piscine artificiali, c'era di che nutrire abbondantemente tutta la popolazione romana; mentre, al contrario, il popolo romano mancava del necessario per comprare il pane, e gli aristocratici romani invece avevano tanti schiavi da darne anche in pasto alle murene.

Il prezzo dei viveri è aumentato quasi continuamente, mentre il prezzo degli oggetti manufatti e di lusso è quasi continuamente diminuito. Prendete la stessa industria agricola: gli oggetti più indispensabili, quali il grano, la carne, ecc. aumentano di prezzo mentre il cotone, il caffè, lo zucchero, ecc. diminuiscono di continuo in misura sorprendente. E, anche tra i commestibili propriamente detti, i prodotti di lusso, come i carciofi, gli asparagi, ecc. si trovano oggi a un prezzo relativamente migliore dei commestibili di prima necessità. Ai nostri tempi è più facile produrre il superfluo che il necessario. Infine, considerando diverse epoche storiche, si nota che i rapporti tra i prezzi non solo variano, ma perfino s'invertono. In tutto il medioevo i prodotti agricoli si trovavano generalmente a miglior prezzo che i prodotti manufatti; nell'epoca moderna tale rapporto è invertito. Forse che per questo l'utilità dei prodotti agricoli è diminuita dal medioevo? L'uso dei prodotti è determinato dalle condizioni sociali in cui si trovano i consumatori, e queste condizioni si fondano sugli antagonismi di classe.

Il cotone, le patate e l'acquavite, sono tra i prodotti di uso più comune; le patate hanno cagionato le scrofole; il cotone ha spodestato in gran parte il lino e la lana, sebbene questi, in molti casi, siano più utili, non fosse che per l'igiene; l'acquavite, infine, l'ha avuta vinta sulla birra e sul vino, sebbene, come sostanza alimentare, sia generalmente riconosciuta come un veleno. Durante tutto un secolo i governi hanno lottato invano contro l'oppio europeo; l'economia ha prevalso e ha dettato legge al consumo.

Perché dunque il cotone, le patate e l'acquavite sono i cardini della società borghese? Perché per produrli è necessario un minimo di lavoro, e, di conseguenza, hanno sul mercato il prezzo più basso. Perché il minimo prezzo decide del massimo consumo? Forse a causa dell'utilità assoluta di questi oggetti, della loro utilità intrinseca, dell'utilità cioè che deriva dal fatto che essi corrispondono nel modo più adeguato ai bisogni dell'operaio in quanto uomo e non dell'uomo in quanto operaio? No. Il fatto è che in una società fondata sulla miseria, i prodotti più miserabili hanno la fatale prerogativa di servire all'uso della maggioranza

Dire ora che le cose meno costose, perché sono di uso più comune, devono essere della massima utilità, significa dire che l'uso della acquavite, tanto diffuso a causa delle tenui spese di produzione, è la prova più conclusiva della sua utilità; significa dire al proletario che per lui mangiare patate è più sano che mangiar carne; significa accettare lo stato di cose esistente; significa infine fare, con Proudhon, l'apologia di una società senza comprenderla.

In una società futura, ove fosse cessato l'antagonismo delle classi, ove non esistessero più classi, l'uso non sarebbe più determinato dal minimo del tempo di produzione; ma il tempo di produzione che verrebbe dedicato ai diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale.

Per tornare alla tesi di Proudhon, dal momento che il tempo di lavoro necessario alla produzione di un oggetto non è affatto l'espressione del suo grado di utilità, il valore di scambio di questo stesso oggetto, determinato precedentemente dal tempo di lavoro, non potrà mai regolare il giusto rapporto dell'offerta e della domanda, cioè il rapporto di proporzionalità nel senso attribuitogli per il momento da Proudhon.

Non è affatto la vendita di un prodotto qualsiasi al prezzo del costo di produzione che costituisce "il rapporto di proporzionalità" tra l'offerta e la domanda, cioè la quota proporzionale di questo prodotto in relazione all'insieme della produzione; sono le variazioni della domanda e dell'offerta a indicare al produttore la quantità in cui bisogna produrre una data merce per ricevere in cambio almeno le spese di produzione. E come tali variazioni sono continue, vi è anche un continuo movimento di flusso e riflusso di capitali nei diversi rami dell'industria.

"È solo in ragione di tali variazioni che i capitali sono impiegati precisamente nella proporzione richiesta, e non di più, nella produzione delle diverse merci delle quali vi è domanda. Per l'aumento o la diminuzione dei prezzi, i profitti si elevano al di sopra o precipitano al di sotto del loro livello generale, e per questo i capitali vengono attirati o stornati dal particolare ramo di affari che ha sperimentato l'una o l'altra di tali variazioni."

"Se rivolgiamo lo sguardo ai mercati delle grandi città, vediamo con quale regolarità essi sono provvisti di ogni sorta di derrate nazionali ed estere, nella quantità richiesta; e per quanto la domanda possa variare per effetto del gusto, del capriccio, o per le variazioni nella popolazione, non si verificano spesso ingorghi a causa di un approvvigionamento sovrabbondante, né eccessiva mancanza di merci per effetto di un approvvigionamento scarso; bisogna convenire che il principio che presiede alla distribuzione del capitale in ciascun ramo dell'industria nelle proporzioni esattamente convenienti, è più potente di quanto si supponga generalmente." (Ricardo, vol. I, pp. 105 [106] e 108.)

Se Proudhon ammette che il valore dei prodotti è determinato dal tempo di lavoro, egli deve egualmente accettare il movimento oscillatorio che [*13] solo fa del tempo di lavoro la misura del valore. Non esiste un "rapporto di proporzionalità" del tutto costituito; esiste solo un movimento costituente.

Abbiamo or ora visto in qual senso sia giusto parlare della "proporzionalità", come di una conseguenza del valore determinato in base al tempo di lavoro. Vediamo ora come questa misura in base al tempo, chiamata da Proudhon "legge di proporzionalità", si trasformi in legge di sproporzionalità.

Ogni nuova invenzione che permetta di produrre in un'ora ciò che finora si produceva in due ore, deprezza tutti i prodotti dello stesso genere che si trovino sul mercato. La concorrenza costringe il produttore a vendere il prodotto di due ore così a buon mercato come il prodotto di un'ora. La concorrenza realizza la legge secondo la quale il valore relativo di un prodotto è determinato dal tempo di lavoro necessario a produrlo. Il fatto che il tempo di lavoro serve di misura al valore di scambio, diviene in tal modo la legge di un deprezzamento continuo del lavoro. Più ancora: il deprezzamento si estende non solo alle merci portate sul mercato, ma anche agli strumenti di produzione e a intere fabbriche. A questo fatto accenna già Ricardo, quando dice:

"Aumentando costantemente la produttività, noi diminuiamo costantemente il valore di alcune cose già prima prodotte." (Vol. II, p.59.)

Sismondi va oltre. Egli vede in questo "valore costituito" dal tempo di lavoro la fonte di tutte le attuali contraddizioni tra commercio e industria.

"Il valore mercantile", egli dice "è sempre determinato, in ultima analisi, dalla quantità di lavoro necessaria per procurarsi l'oggetto valutato; non da quella che esso è costato a suo tempo, ma da quella che ormai costerebbe con dei mezzi in qualche modo perfezionati; e questa quantità, sebbene difficile da valutare, viene sempre esattamente stabilita dalla concorrenza... È su questa base che viene calcolata tanto la domanda del venditore come l'offerta del compratore. Il primo affermerà forse che l'oggetto gli è costato dieci giornate di lavoro; ma se l'altro si convince che esso può essere prodotto in otto giornate di lavoro, e la concorrenza lo dimostra ai due contraenti, il valore si ridurrà a otto giornate soltanto e l'affare si concluderà a questo prezzo. È vero che sia l'uno che l'altro contraente sono convinti che l'oggetto è utile, che è desiderato, che senza desiderio non esisterebbe vendita; ma la determinazione del prezzo non dipende in alcun modo dall'utilità." ("Études ecc.", vol. II, p. 267, ediz. di Bruxelles.)

È importante insistere su questo punto, che cioè a determinare il valore non è il tempo in cui la cosa è stata prodotta, bensì il minimo di tempo in cui essa è suscettibile di essere prodotta, minimo che viene rivelato appunto dalla concorrenza. Supponete per un istante che non esista più concorrenza, e che quindi non esista più alcun mezzo per constatare il minimo di lavoro necessario alla produzione di una merce; che accadrà? Sarà sufficiente impiegare nella produzione di un oggetto sei ore di lavoro per essere in diritto, secondo Proudhon, di esigere in cambio il sestuplo di colui che per la produzione del medesimo oggetto abbia impiegato solo un'ora.

Invece del "rapporto di proporzionalità" abbiamo un rapporto di sproporzionalità, sempre che teniamo a rimanere nei rapporti, buoni o cattivi che siano.

Il continuo deprezzamento del lavoro non è che un solo aspetto, una sola conseguenza della valutazione delle merci in base al tempo di lavoro. L'aumento dei prezzi, la sovrapproduzione, e numerosi altri fenomeni di anarchia industriale, trovano la loro spiegazione in questo sistema di valutazione.

Ma il tempo di lavoro preso come misura del valore determina almeno quella varietà proporzionale nei prodotti che manda così in estasi Proudhon?

Al contrario: al suo seguito il monopolio, in tutta la sua monotonia, invade il mondo dei prodotti, allo stesso modo che - come a tutti è dato constatare - il monopolio invade il mondo dei mezzi di produzione. Solo qualche ramo dell'industria, come quella cotoniera, è in grado di fare progressi molto rapidi. La conseguenza naturale di questi progressi è che, ad esempio, i prodotti della manifattura cotoniera diminuiscono rapidamente di prezzo; ma a misura che il prezzo del cotone diminuisce, il prezzo del lino deve proporzionalmente aumentare. Che accade allora? Il lino viene sostituito dal cotone. In questo modo il lino è stato eliminato da quasi tutta l'America del Nord. E noi abbiamo ottenuto, invece della varietà proporzionale dei prodotti, il regno del cotone. Cosa resta di questo "rapporto di proporzionalità"? Niente altro che i voti di un galantuomo il quale vorrebbe che le merci venissero prodotte in proporzioni tali da potersi vendere a un prezzo onesto. In ogni tempo i buoni borghesi e gli economisti filantropi si sono compiaciuti di formulare questi voti innocenti. Lasciamo parlare il vecchio Boisguillebert:

"Il prezzo delle derrate", egli dice, "deve sempre essere proporzionato, poiché solo tale accordo reciproco permette loro di esistere in modo tale che ad ogni momento esse si riproducano a vicenda" (la scambiabilità continua di Proudhon) "... Poiché dunque la ricchezza non è che questo continuo rapporto di scambio fra uomo e uomo, fra mestiere e mestiere, significa essere terribilmente ciechi l'identificare la causa della miseria in qualcosa di diverso dalla interruzione di un simile commercio, provocata dall'alterazione delle proporzioni dei prezzi." ("Dissertation sur la nature des richesses", ed. Daire [pp. 405 e 408].)

Ed ora ascoltiamo un economista moderno:

"Una grande legge da applicare alla produzione è la legge della proporzionalità (the law of proportion) che sola può preservare la continuità del valore... L'equivalente deve essere garantito... Tutte le nazioni hanno tentato in diverse epoche, per mezzo di numerosi regolamenti e di restrizioni commerciali, di realizzare fino a un certo punto, questa legge della proporzionalità, ma l'egoismo inerente alla natura dell'uomo lo ha spinto a sconvolgere tutto questo regime di regolamentazioni. Una produzione proporzionata (proportionate production) è la realizzazione della intera verità della scienza dell'economia sociale." (W. Atkinson, "Principles of Political Economy", London 1840, pp. 170-195.)

Fuit Troia! [*14]

Questa giusta proporzione tra l'offerta e la domanda, che ricomincia ad essere l'oggetto di tanti pii desideri, da molto tempo ha cessato di esistere. E' ormai divenuta una cosa antiquata. E' stata possibile solo nei tempi in cui i mezzi di produzione erano limitati, in cui lo scambio si muoveva entro limiti estremamente ristretti; con la nascita della grande industria, questa giusta proporzione doveva cessare, e la produzione è stata fatalmente costretta a passare, in successione continua, attraverso vicissitudini di prosperità, di depressione, di crisi, di ristagno, di nuova prosperità, e via di seguito. Coloro che, come Sismondi, vogliono ritornare alla giusta proporzionalità della produzione, pur conservando le basi attuali della società, sono dei reazionari, poiché, per essere conseguenti, devono anche voler ripristinare tutte le altre condizioni dell'industria dei tempi passati.

Cos'era che manteneva la produzione nelle giuste proporzioni, o quasi? La domanda che si imponeva all'offerta, precedendola. La produzione seguiva passo passo il consumo. La grande industria, costretta dagli stessi strumenti di cui dispone a produrre su scala sempre più vasta, non può più attendere la domanda. La produzione precede il consumo l'offerta fa violenza alla domanda.

Nella società attuale, con l'industria basata sugli scambi individuali, l'anarchia della produzione, che è fonte di tanta miseria, è contemporaneamente la causa di ogni progresso.

Così, di due cose, l'una:

O volete le giuste proporzioni dai secoli passati, con i mezzi di produzione della nostra epoca, e allora siete al contempo reazionari e utopisti.

O volete il progresso senza l'anarchia; e allora, per conservare le forze produttive, dovete abbandonare gli scambi individuali.

Gli scambi individuali infatti non sono conciliabili se non con la piccola industria dei secoli passati, e con il suo corollario di "giusta proporzione", ovvero anche con la grande industria, ma in questo caso con tutto il suo seguito di miseria e di anarchia.

In conseguenza di quel che abbiamo detto, la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro, cioè la formula che Proudhon ci dà quale rigeneratrice dell'avvenire, non è che l'espressione scientifica dei rapporti economici della società attuale come Ricardo ha già chiaramente e nettamente dimostrato assai prima di Proudhon.

Ma l'applicazione "egualitaria" di questa formula appartiene, almeno essa, a Proudhon? È stato lui per primo ad immaginare di riformare la società, trasformando tutti gli uomini in lavoratori immediati, che scambiano quantità di lavoro eguali? Spetta a lui di muovere ai comunisti - questa gente sprovvista di ogni conoscenza di economia politica, questi "uomini ostinatamente idioti" [I, p. 45], questi "sognatori paradisiaci" [I, p. 89] - il rimprovero di non aver trovato prima di lui questa "soluzione del problema del proletariato"? [8]

Chiunque abbia un minimo di familiarità con lo sviluppo dell'economia politica in Inghilterra, non può non sapere che quasi tutti i socialisti di questo paese hanno proposto in epoche diverse l'applicazione egualitaria della teoria ricardiana. Potremmo citare a Proudhon. L' "Economia politica" di Hopkins, 1822 [9]; William Thompson: "An Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealt most conducive to Human Happines", 1824 [10]; T.R. Edmonds: "Pratical Moral and Political Economy", 1828, ecc. ecc., e altre quattro pagine di ecc. Ci contenteremo di lasciar parlare un comunista inglese, Bray. Riporteremo i passi decisivi della sua notevole opera "Labour's Wrongs and Labour's Remedy", Leeds 1839, e su di essi ci soffermeremo alquanto: in primo luogo perché Bray è ancora poco conosciuto in Francia, poi perché riteniamo di aver trovato in lui la chiave delle opere passate, presenti e future di Proudhon.

"Il solo mezzo di arrivare alla verità è di chiarirsi decisamente i primi principi. Risaliamo dapprima all'origine stessa dei governi. Troveremo che ogni forma di governo, che ogni ingiustizia sociale e politica deriva dal sistema sociale attualmente in vigore, dall'istituzione della proprietà quale esiste al momento presente (the institution of property as it at present exists), e che quindi per metter fine per sempre alle ingiustizie e alle miserie di oggi, bisogna sovvertire da cima a fondo lo stato attuale della società ... Attaccando gli economisti sul loro proprio terreno e con le loro stesse armi, eviteremo l'assurdo cicaleccio sui visionari e sui teorici che essi son sempre pronti a sciorinare. A meno di negare o di disapprovare le verità e i principi riconosciuti, sui quali si fondano i loro stessi argomenti, gli economisti non potranno più rigettare le conclusioni alle quali noi arriviamo con questo metodo." (Bray, pp. 17 e 41.) "Il lavoro solo produce valore (it is labour alone which bestows value)... Ogni uomo ha un diritto incontestabile su ciò che il suo onesto lavoro può procurargli. Appropriandosi perciò i frutti del suo lavoro, egli non commette alcuna ingiustizia nei riguardi degli altri uomini; poiché non interferisce nel diritto di qualsiasi altro di agire nello stesso modo... Tutte le idee di superiorità e di inferiorità, di padrone e di lavoratore salariato; nascono dal fatto che sono stati trascurati i primi princìpi, e che di conseguenza il possesso è divenuto ineguale (and to the consequent rise of inequality of possessions). Fin quando questa ineguaglianza verrà mantenuta, sarà impossibile sradicare queste idee o rovesciare le istituzioni che poggiano su di esse. Fino ad oggi si è avuta sempre la vana speranza di rimediare ad uno stato di cose che, come esiste oggi, è contro natura, distruggendo l'ineguaglianza esistente, e lasciando sussistere la causa dell'ineguaglianza; ma noi dimostreremo tra breve che il governo non è una causa, bensì un effetto, che esso non crea bensì è creato; che, in una parola, esso è il risultato dell'ineguaglianza del possesso ( the off-spring of inequality of possessions) e che l'ineguaglianza del possesso è inseparabilmente congiunta al sistema sociale attuale." (Bray, pp. 33, 36 e 37.)

"Il sistema dell'eguaglianza ha dalla sua non solo i vantaggi più cospicui, ma anche la giustizia più rigorosa... Ciascun uomo è un anello, e un anello indispensabile nella catena degli effetti che ha il suo punto di partenza in un'idea per finire magari nella produzione di una pezza di stoffa. Così, dal fatto che le nostre preferenze per le diverse professioni non sono le stesse, non bisogna concludere che il lavoro di Tizio debba essere meglio retribuito del lavoro di Caio. L'inventore riceverà sempre, oltre alla sua giusta ricompensa in danaro, il tributo della nostra ammirazione, che solo il genio può ottenere da noi...

Data la natura stessa del lavoro e dello scambio, la superiore giustizia chiede che tutti coloro che operano degli scambi ottengano benefici non solo reciproci, ma eguali (all exchangers shoud be not only mutually but they should likewise be equally benefitted). Non vi sono che due cose che gli uomini possono scambiare tra loro: il lavoro e il prodotto del lavoro. Se gli scambi si operassero secondo un sistema equo, il valore di tutti gli articoli sarebbe determinato dall'intero costo della produzione; e si scambierebbero sempre valori eguali con eguali valori (If a just system of exchanges were acted upon the value of all articles would be determined by the entire cost of production, and equal values should always exchange for equal va1ues ). Se, ad esempio, un cappellaio impiega una giornata per fare un cappello, e un calzolaio il medesimo tempo per fare un paio di scarpe (supponendo che le materie prime che essi adoperano abbiano il medesimo valore), se essi scambiano questi articoli tra loro, il beneficio che ne traggono è al contempo reciproco ed uguale. Il vantaggio che ne deriva per ciascuna delle parti non può essere uno svantaggio per l'altra, poiché ciascuno ha fornito la medesima quantità di lavoro e poiché i materiali di cui le parti si sono servite erano di eguale valore. Ma se il cappellaio avesse ottenuto due paia di scarpe per un cappello, sempre restando nella nostra prima supposizione, è evidente che lo scambio sarebbe ingiusto. Il cappellaio toglierebbe al calzolaio una giornata di lavoro; e se egli agisse in tal modo per tutti i suoi scambi, riceverebbe contro il prodotto di mezzo anno, il prodotto di tutto un anno di un'altra persona. Fin qui, abbiamo sempre seguito questo sistema di scambio quanto mai ingiusto: gli operai hanno dato al capitalista il lavoro di tutto un anno contro il valore di un mezzo anno (the workmen have given the capitalist the labour of a whole year, in exchange for the value of only half a year) e da questo, e non da una supposta ineguaglianza delle forze fisiche e intellettuali degli individui, è derivata l'ineguaglianza della ricchezza e del potere. L'ineguaglianza degli scambi, la differenza dei prezzi negli acquisti e nelle vendite, non può esistere che alla condizione che i capitalisti restino per sempre capitalisti e gli operai per sempre operai, gli uni una classe di tiranni, gli altri una classe di schiavi... Questo processo dimostra dunque chiaramente che i capitalisti e i proprietari danno all'operaio, per il suo lavoro di una settimana, solo una parte della ricchezza che essi hanno ottenuto da lui la settimana trascorsa, ossia che per qua1cosa essi non gli danno nulla (nothing for something) ... La transazione fra il lavoratore e il capitalista è una mera farsa; di fatto essa non è, in moltissimi casi, se non un furto impudente, seppur legale. (The whole transaction between the producer and the capitalist is a mere farce; it is in fact, in thousands of instances, no other than a barefaced though legal robbery.)" (Bray, pp. 45, 48, 49 e 50.)

"Il beneficio dell'imprenditore sarà una perdita per l'operaio finché gli scambi fra le parti non divengano eguali; e gli scambi non possono essere eguali finché la società sia divisa fra capitalisti e prestatori d'opera, e finché questi ultimi vivano del proprio lavoro mentre i primi si impinguano del profitto di questo lavoro...

"È chiaro", continua Bray, "che voi avrete un bello stabilire questa o quella forma di governo..., che avrete un bel predicare, in nome della morale e dell'amore fraterno... la reciprocità è incompatibile con l'ineguaglianza degli scambi. L'ineguaglianza degli scambi, in quanto fonte dell'ineguaglianza dei possessi, è il nemico segreto che ci divora. (No reciprocity can exist where there are unequal exchanges. Inequality of exchanges, as being the cause società quale ora esiste, e può prepararla a ulteriori cambiamenti." (Bray, pp. 51-52.)

"La considerazione dello scopo finale della società m'autorizza a concludere che non solo tutti gli uomini devono lavorare per mettersi in grado di operare gli scambi, ma che valori eguali debbono essere scambiati con valori eguali. Inoltre, poiché il beneficio di uno non deve costituire una perdita per l'altro, il valore deve essere determinato dal costo di produzione. Abbiamo visto tuttavia che, nel regime sociale attuale, il profitto del capitalista e del ricco sono sempre a detrimento dell'operaio - che tale conseguenza è inevitabile, e che il povero resta interamente abbandonato alla mercé del ricco, sotto qualunque forma di governo, finché sussiste l'ineguaglianza degli scambi - e che l'eguaglianza degli scambi può essere assicurata soltanto da un regime sociale che riconosca l'universalità del lavoro... L'eguaglianza degli scambi determinerebbe un graduale trasferimento della ricchezza dalle mani degli attuali capitalisti in quelle delle classi lavoratrici." (Bray, pp. 53-55.)

"Fintanto che vigerà il sistema dell'ineguaglianza degli scambi, coloro che producono saranno sempre tanto poveri, ignoranti e sovraccarichi di lavoro come sono oggi, anche se venissero abolite tutte le tasse e le imposte governative... Solo un cambiamento totale del sistema, l'introduzione dell'eguaglianza del lavoro e degli scambi, può migliorare questo stato di cose e assicurare agli uomini la vera eguaglianza dei diritti... Coloro che producono devono solo compiere uno sforzo - sono appunto loro che debbono fare ogni sforzo per la loro stessa salvezza - e le loro catene saranno spezzate per sempre... Come fine l'eguaglianza politica è un errore; ed errore è anche come mezzo. (As an end, the political equality is there a failure, as a means, also; it is there a failure.)

Con l'eguaglianza degli scambi, il profitto di uno non può significare la perdita di un altro: ogni scambio infatti, non essendo che un semplice trasferimento di lavoro e di ricchezze, non esige alcun sacrificio. Così, in un sistema sociale basato sull'eguaglianza degli scambi, il produttore potrà anche giungere alla ricchezza attraverso i propri risparmi, ma la sua ricchezza non sarà più se non il prodotto accumulato del proprio lavoro. Egli potrà scambiare la sua ricchezza o donarla ad altri; ma gli sarà impossibile rimanere ricco, per un tempo un poco prolungato, dopo che avrà cessato di lavorare. Con l'eguaglianza degli scambi la ricchezza perde il suo potere attuale di rinnovarsi e di riprodursi per così dire da se stessa: essa non potrà più colmare il vuoto creato dal consumo, poiché, a meno di non venire riprodotta dal lavoro, una volta consumata, la ricchezza è perduta per sempre. Ciò che noi ora chiamiamo profitto e interesse non potrà più esistere in regime di scambi eguali. In un simile regime il produttore e il distributore saranno egualmente retribuiti e la somma totale del loro lavoro servirà a determinare il valore di ogni articolo creato e messo a disposizione del consumatore...

Il principio dell'eguaglianza degli scambi deve dunque condurre per necessità al lavoro universale." (Bray, -pp. 67, 88, 89, 94 e 109-110.)

Dopo aver confutato le obiezioni degli economisti contro il comunismo, Bray prosegue:

"Se è indispensabile un mutamento dei caratteri perché un sistema sociale comunitario possa affermarsi nella sua forma perfetta; se, d'altra parte, il regime attuale non presenta né le circostanze né le possibilità richieste per arrivare a questo mutamento dei caratteri e preparare gli uomini a uno stato migliore che tutti desideriamo, è evidente che le cose debbono necessariamente rimanere quelle che sono, a meno che non si scopra e non si applichi un modo preparatorio di sviluppo - un processo che partecipi del sistema attuale come di quello avvenire (sistema comunitario [*15] una sorta di tappa intermedia, in cui la società possa entrare con tutti i suoi eccessi e le sue follie, per lasciarla quindi, ricca delle qualità e capacità che sono le condizioni vitali del sistema comunitario." (Bray, p. 134.)

"L'intero processo non esigerebbe che la cooperazione nella sua forma più semplice... Il costo di produzione determinerebbe in ogni circostanza il valore del prodotto, e valori eguali verrebbero scambiati sempre con valori eguali. Di due persone, di cui una avesse lavorato una settimana intera e l'altra mezza settimana, la prima riceverebbe il doppio della remunerazione della seconda; ma questa paga maggiore non verrebbe corrisposta all'una a detrimento dell'altra: la perdita che la seconda si sarebbe procurata non spetterebbe in alcun modo alla prima. Ognuno scambierebbe il suo salario individuale contro oggetti del medesimo valore del proprio salario, e in nessun caso il profitto realizzato da un uomo o da un'industria costituirebbe la perdita di un altro uomo o di un altro ramo d'industria. Il lavoro di ogni individuo sarebbe la sola misura dei suoi profitti e delle sue perdite...

...Per mezzo di camere di commercio (boards of trade) generali e locali verrebbe determinata la quantità dei diversi oggetti richiesti per il consumo, il valore relativo di ciascun oggetto comparato agli altri (il numero degli operai da impiegare nei vari rami di lavoro), in una parola, tutto ciò che riguarda la produzione e la distribuzione sociale. Queste operazioni verrebbero effettuate, per una nazione, nel medesimo breve lasso di tempo e con la stessa facilità con cui vengono fatte nel regime attuale per una società privata... Gli individui si raggrupperebbero in famiglie, le famiglie in comuni, come nel regime attuale; non verrebbe neppure abolita direttamente la distribuzione della popolazione nella città e nella campagna, per quanto dannosa essa sia... In questa associazione, ogni individuo continuerebbe a godere della libertà, che attualmente possiede, di accumulare ciò che gli piace e di fare di queste accumulazioni l'uso che egli ritenesse conveniente... La nostra società sarebbe per cosí dire una grande società per azioni, composta di un numero infinito di piccole società per azioni, le quali tutte lavorano, producono e scambiano i loro prodotti sul piano della più perfetta eguaglianza... Il nostro nuovo sistema di società per azioni", che non è se non una concessione fatta alla società attuale per giungere al comunismo, "ordinato in modo da far coesistere la proprietà individuale dei prodotti con la proprietà in comune delle forze produttive, fa dipendere la sorte di ciascun individuo dalla sua propria attività e gli accorda una parte eguale in tutti i vantaggi forniti dalla natura e dal progresso della tecnica. Perciò essa può essere applicata alla società quale ora esiste, e può prepararla ad altri e migliori cambiamenti."(Bray, pp. 158, 160, 162, 163, 168, 170 e 194.)

Non abbiamo che poche parole da rispondere a Bray, che, nostro malgrado, si trova ad aver soppiantato Proudhon, con la differenza che, lungi dal voler dire la parola definitiva per l'umanità, propone solo delle misure che egli ritiene adatte ad un'epoca di transizione fra la società attuale e il sistema comunitario.

Un'ora di lavoro di Pietro si scambia con un'ora di lavoro di Paolo. Ecco l'assioma fondamentale di Bray.

Supponiamo che Pietro abbia davanti a sé dodici ore di lavoro e Paolo soltanto sei. Pietro, con Paolo, potrà operare soltanto uno scambio di sei ore contro sei. Pietro avrà di conseguenza sei ore di lavoro d'avanzo. Che ne farà? O non ne farà nulla, il che significa che avrà lavorato sei ore per niente; oppure si asterrà dal lavoro per altre sei ore per mettersi alla pari, ovvero ancora - ed è questa la sua ultima risorsa - darà a Paolo per soprammercato queste sei ore di cui non sa cosa fare.

Cosí, tirando le somme, che cosa avrà guadagnato Pietro in confronto a Paolo? Delle ore di lavoro? No. Semplicemente delle ore di ozio: sarà costretto a fare il fannullone per sei ore. E perché questo nuovo diritto al non far nulla venga non solo ammesso, ma anche apprezzato nella nuova società, bisogna che questa trovi la sua più alta felicità nella pigrizia, e che il lavoro le pesi come una catena da cui deve sbarazzarsi, costi quel che costi. E ancora, per tornare al nostro esempio, se almeno le ore di inattività guadagnate da Pietro su Paolo fossero un guadagno reale! Ma no. Paolo, cominciando a lavorare solo per sei ore, giunge, mediante un lavoro regolare e regolato, al risultato che Pietro ottiene solo cominciando con un eccesso di lavoro. Ciascuno vorrà essere Paolo; si avrà una grande concorrenza per conquistare il posto di Paolo: concorrenza di pigrizia.

Ebbene: che ci ha dunque dato lo scambio di eguali quantità di lavoro? Sovrapproduzione, deprezzamento, eccesso di lavoro seguito da stagnazione: in una parola, i medesimi rapporti economici che vediamo esistere nella società attuale, ad eccezione della concorrenza di lavoro. Ma no, sbagliamo. Resta ancora un espediente per salvare la società nuova, la società dei Pietri e dei Paoli. Pietro mangerà da solo il prodotto delle sei ore di lavoro che gli rimangono. Però, dal momento che il fatto di aver prodotto non lo obbliga più ad operare lo scambio, non deve neppure produrre per scambiare, onde cadrebbe tutta l'ipotesi di una società fondata sullo scambio e la divisione del lavoro. La eguaglianza degli scambi verrà salvata per il fatto stesso che gli scambi avranno cessato di esistere: Paolo e Pietro tornerebbero cioè allo stato di Robinson.

Dunque, se si suppone che tutti i membri della società siano lavoratori immediati, lo scambio di quantità eguali di ore di lavoro è possibile solo alla condizione che sia stato convenuto in anticipo il numero delle ore che sarà necessario impiegare nella produzione materiale. Ma una simile convenzione esclude lo scambio individuale.

Arriviamo alla stessa conseguenza anche prendendo come punto di partenza non più la distribuzione dei prodotti finiti, ma l'atto della produzione. Nella grande industria, Pietro non è libero di fissare da sé il tempo del proprio lavoro, poiché il lavoro di Pietro non è nulla senza il concorso di tutti i Pietri e di tutti i Paoli della fabbrica. E questo spiega assai bene la resistenza accanita che i fabbricanti inglesi opposero alla Legge delle 10 ore [11]. Essi sapevano troppo bene che una diminuzione di due ore di lavoro accordata alle donne e ai ragazzi implicava egualmente una diminuzione del tempo di lavoro per gli uomini adulti. È proprio della natura della grande industria che il tempo di lavoro sia eguale per tutti. Quello che è oggi il risultato del capitale e della concorrenza degli operai fra loro, domani, eliminato il rapporto del lavoro col capitale, sarà il risultato di una convenzione, basata sul rapporto fra la somma delle forze produttive e la somma dei bisogni esistenti [12].

Ma tale convenzione è la condanna dello scambio individuale: ed eccoci giunti di nuovo al nostro primo risultato.

Alla radice, non si ha scambio di prodotti, ma scambio di lavori che concorrono alla produzione. È dal modo di scambio delle forze produttive che dipende il modo di scambio dei prodotti. In generale, la forma dello scambio dei prodotti corrisponde alla forma della produzione. Mutate quest'ultima, e di conseguenza muterà la prima. Così, anche nella storia della società vediamo che il modo di scambiare i prodotti viene regolato dal modo di produrli. Lo scambio individuale corrisponde pertanto a un determinato modo di produzione, il quale a sua volta corrisponde all'antagonismo delle classi. Non può esistere perciò scambio individuale senza l'antagonismo delle classi.

Ma le oneste coscienze si rifiutano di accettare questa evidenza. Finché si è borghesi, non si può fare a meno di vedere in questo rapporto antagonistico un rapporto di armonia e di giustizia eterna, che non permette ad alcuno di farsi valere a spese altrui. Per il borghese, lo scambio individuale può sussistere senza l'antagonismo delle classi; per lui si tratta di due cose del tutto disparate. Lo scambio individuale, come se lo figura il borghese, non somiglia affatto allo scambio individuale quale esso è effettivamente.

Bray fa dell'illusione dell'onesto borghese l'ideale che egli vorrebbe realizzare. Purificando lo scambio individuale, sbarazzandolo di tutti gli elementi antagonistici che vi trova, egli crede di rinvenire un rapporto "egualitario" che vorrebbe introdurre nella società.

Bray non pensa che questo rapporto egualitario, questo ideale correttivo che egli vorrebbe applicare al mondo, è esso stesso il riflesso del mondo attuale, e che di conseguenza è del tutto impossibile ricostituire la società su una base che è solo l'ombra ingentilita di questa società. Man mano che l'ombra prende forma, ci si avvede che questa forma, lungi dall'essere la sognata trasfigurazione della società, è proprio la forma attuale di essa [*16].  :

 

 

3. Applicazione della legge della proporzionalità del valore

a) La moneta [13]

"L'oro e l'argento sono le prime merci il cui valore sia giunto alla propria costituzione." [I, p. 69.]

Dunque l'oro e l'argento sono le prime applicazioni del "valore costituito"... da Proudhon. E poiché Proudhon costituisce il valore dei prodotti determinandolo mediante la quantità comparativa di lavoro in essi inglobata, l'unica cosa che doveva fare era di dimostrare che le variazioni sopravvenute nel valore dell'oro e dell'argento si spiegano sempre in base alle variazioni del tempo di lavoro necessario a produrli. Ma Proudhon non vi pensa neppure. Egli non parla dell'oro e dell'argento come merci, ma come moneta. Tutta la sua logica, se logica può dirsi, consiste nell'attribuire la proprietà dell'oro e dell'argento di servire da moneta, a tutte le merci che hanno la proprietà di essere valutate in base al tempo di lavoro. Decisamente in questo giuoco di prestigio c'è più ingenuità che malizia.

Un prodotto utile, essendo valutato in base al tempo di lavoro necessario a produrlo, viene sempre accettato in cambio. La prova, esclama Proudhon, sono l'oro e l'argento, che si trovano nelle condizioni di "scambiabilità" da me poste. Dunque l'oro e l'argento sono il valore giunto allo stadio di costituzione, sono l'idea di Proudhon incarnata. Egli non potrebbe essere più felice nella scelta del suo esempio. L'oro e l'argento, oltre la proprietà che hanno di essere una merce, valutata come qualsiasi altra merce in base al tempo di lavoro, hanno anche quella dì essere mezzo universale di scambio, di essere moneta. Assumendo ora l'oro e l'argento come un'applicazione del "valore costituito" in base al tempo di lavoro, non v'è certo nulla di più facile che dimostrare che ogni merce il cui valore sia costituito in base al tempo di lavoro sarà sempre passibile di scambio, sarà moneta.

Una domanda assai semplice si presenta allo spirito di Proudhon. Perché proprio l'oro e l'argento hanno il privilegio di essere il tipo del "valore costituito"?

"La funzione particolare che l'uso ha devoluto ai metalli preziosi, di servire come mediatori dello scambio, è puramente convenzionale, e qualsiasi altra merce potrebbe, magari con minor comodità, ma in modo altrettanto genuino, adempiere questa funzione: ciò viene riconosciuto dagli economisti, e se ne può citare più di un esempio. Qual è dunque la ragione di questa preferenza generalmente accordata ai metalli, di servire da moneta, e come si spiega questa specializzazione delle funzioni del denaro, senza precedenti in economia politica?... Ora, è possibile ristabilire la serie donde la moneta sembra esser stata separata, e di conseguenza riportare questa alla sua vera origine?" [I, pp. 68 e 69.]

Col fatto stesso di porre la domanda in questi termini, Proudhon presuppone la moneta. La prima domanda, che egli avrebbe dovuto porsi, era perché, negli scambi quali sono attualmente stabiliti, si sia dovuto per così dire individualizzare il valore di scambio creando uno speciale mezzo di scambio. La moneta non è una cosa, è un rapporto sociale. Perché il rapporto della moneta è un rapporto di produzione, come ogni altro rapporto economico, quale la divisione del lavoro, ecc.? Se Proudhon si fosse ben reso conto di questo rapporto, non avrebbe visto nella moneta una eccezione, un membro distaccato da una serie incognita o da ritrovarsi

Avrebbe al contrario riconosciuto che questo rapporto è solo un anello, e come tale intimamente legato a tutta la catena degli altri rapporti economici, e che questo rapporto corrisponde ad un modo determinato di produzione, né più né meno che lo scambio individuale. Che fa, invece, Proudhon? Comincia a distaccare la moneta dall'insieme del modo di produzione attuale, per farne in seguito il primo membro di una serie immaginaria, di una serie da ritrovarsi.

Una volta riconosciuta la necessità di un mezzo particolare di scambio, cioè la necessità della moneta, non si tratta più di spiegare perché questa funzione particolare sia devoluta all'oro e all'argento piuttosto che a una qualsiasi altra merce. È, questa una questione secondaria che non si spiega più con la catena dei rapporti di produzione, ma semplicemente con le specifiche qualità materiali dell'oro e dell'argento. Se pertanto gli economisti, in questa occasione, "si sono posti fuori del dominio della loro scienza, se hanno fatto della fisica, della meccanica, della storia, ecc." [I, p. 69], come rimprovera loro Proudhon, hanno fatto solo quel che dovevano fare. La questione non è più di competenza dell'economia politica.

"Ciò che nessun economista", dice Proudhon, "ha mai riconosciuto e compreso, è la ragione economica che ha determinato il favore di cui godono i metalli preziosi." [I, p. 69.]

La ragione economica che nessuno, e non senza motivo, aveva né riconosciuta né compresa, lui, Proudhon, l'ha riconosciuta, compresa, e lasciata in legato alla posterità.

"Ora, ciò che nessuno ha osservato, è che di tutte le merci l'oro e l'argento sono le prime il cui valore sia giunto a costituirsi. Nel periodo patriarcale l'oro e l'argento si contrattano ancora e si scambiano in lingotti, ma già con una visibile tendenza a dominare e con una preferenza accentuata. A poco a poco i sovrani se ne impadroniscono e vi appongono il loro sigillo: e da questa consacrazione sovrana nasce la moneta, ossia la merce par excellence [*17], quella che, nonostante tutti gli sbalzi del mercato, conserva un valore proporzionale determinato ed è accettata in ogni pagamento... Il carattere particolare assunto dall'oro e dall'argento deriva - ripeto - dal fatto che, grazie alla loro proprietà di metalli, alla difficoltà della loro produzione, e soprattutto all'intervento della pubblica autorità, essi hanno rapidamente conquistato, come merce, la fissità e l'autenticità." [I, pp. 69-70.]

Dire che, di tutte le merci, l'oro e l'argento sono le prime il cui valore sia giunto a costituirsi, significa dire, dopo tutto ciò che precede, che l'oro e l'argento sono stati i primi a diventare moneta. Ecco la grande rivelazione di Proudhon; ecco la verità che nessuno aveva scoperto prima di lui! Se con queste parole Proudhon ha voluto dire che tra tutte le merci l'oro e l'argento sono le prime di cui si conobbe il tempo di lavoro necessario alla loro produzione, questa sarebbe proprio una di quelle supposizioni che egli con tanta facilità elargisce ai suoi lettori. Se volessimo attenerci a questa erudizione patriarcale diremmo a Proudhon che prima di tutto è stato conosciuto il tempo di lavoro necessario alla produzione degli oggetti di prima necessità, quali il ferro ecc. Gli risparmieremo il classico arco di Adam Smith [14].

Ma, dopo tutto questo, come può ancora Proudhon parlare di costituzione di un valore, dato che un valore non ha mai potuto costituirsi isolatamente? Esso infatti non viene costituito dal tempo necessario a produrlo isolatamente, bensì in rapporto alla quantità di tutti gli altri prodotti che possono essere creati nel medesimo tempo. Così la costituzione del valore dell'oro e dell'argento presuppone già avvenuta la costituzione [*18] di una moltitudine di altri prodotti.

Non è dunque stata la merce a diventare "valore costituito" nell'oro e nell'argento; ma è stato il "valore costituito" di Proudhon a diventare moneta nell'oro e nell'argento.

Esaminiamo ora più da vicino le ragioni economiche che, secondo Proudhon, hanno valso all'oro e all'argento il privilegio di essere elevati a moneta a preferenza di tutti gli altri prodotti, mediante il costituirsi del loro valore.

Queste ragioni economiche sono: la "visibile tendenza a dominare", la "preferenza accentuata" già nel "periodo patriarcale", ed altre perifrasi del semplice fatto, le quali aumentano la difficoltà, dato che moltiplicano il fatto moltiplicando i casi che Proudhon adduce per spiegare il fatto. Tuttavia Proudhon non ha ancora esaurito tutte le sue pretese ragioni economiche. Eccone appunto una, di una forza sovrana, irresistibile:

"La moneta nasce dalla consacrazione sovrana: i sovrani si impadroniscono dell'oro e dell'argento e vi appongono il loro sigillo."[I, p. 69.]

È dunque l'arbitrio dei sovrani, per Proudhon, la ragione suprema in economia politica!

Davvero bisogna essere sprovvisti di ogni conoscenza storica per ignorare che i sovrani di tutti i tempi hanno dovuto adattarsi alle condizioni economiche, e non sono mai stati essi a far legge in questo campo. La legislazione sia politica che civile non fa che proclamare, verbalizzare, il potere dei rapporti economici.

È stato il sovrano ad impadronirsi dell'oro e dell'argento per farne mezzi universali di scambio imprimendovi il suo sigillo, o non sono stati piuttosto questi mezzi universali di scambio ad impadronirsi del sovrano costringendolo a imprimere su di loro il suo sigillo e a dar loro una consacrazione politica?

L'impronta che si è data e che si dà all'oro non esprime il suo valore, ma semplicemente il suo peso. La fissità e l'autenticità di cui parla Proudhon si riferiscono solo al titolo della moneta; titolo che indica quanta materia metallica vi sia in un pezzo di denaro monetato.

"Il solo valore intrinseco di un marco d'argento", dice Voltaire col suo noto buon senso, "è una mezza libbra d'argento del peso di otto once. Solo il peso e il titolo costituiscono questo valore intrinseco" (Voltaire, "Système de Law".) [15]

Ma la domanda: "Quanto vale un'oncia d'oro o d'argento?" sussiste sempre. Se una pezza di cachemire dei magazzini Grand Colbert portasse il marchio di fabbrica pura lana, questo marchio di fabbrica non vi direbbe certo ancora il valore del cachemire. Rimarrebbe sempre da sapere quanto vale la lana.

"Filippo I, re di Francia", dice Proudhon, "mescola alla lira tornese [*19] [16] un terzo di lega, poiché, possedendo lui solo il monopolio della fabbricazione delle monete, immagina di potersi comportare come un qualsiasi altro commerciante che abbia il monopolio di un prodotto. Che cosa era in effetti questa adulterazione delle monete tanto rimproverata a Filippo e ai suoi successori? Un ragionamento assai giusto dal punto di vista della prassi commerciale, ma assai falso in sede di scienza economica; e cioè che - essendo la domanda e l'offerta a regolare il valore - è possibile, sia producendo una rarità fittizia, sia accaparrando la fabbricazione, far salire la stima, e quindi il valore delle cose: il che si verifica tanto per l'oro e l'argento, quanto per il grano, il vino, l'olio e il tabacco. Pure, appena si ebbe sentore della frode di Filippo, la sua moneta fu ridotta al suo giusto valore ed egli contemporaneamente perdette quello che aveva creduto di guadagnare a spese dei suoi sudditi. E lo stesso risultato ebbero in seguito tutti i tentativi analoghi." [I, pp. 70-71.]

Innanzi tutto si è visto molte e molte volte che, se il principe decide di adulterare la moneta, è lui stesso che ci viene a perdere. Ciò che ha guadagnato in una sola volta per la prima emissione, lo perde per quante volte le monete falsificate gli ritornano sotto forma di imposte, ecc. Ma Filippo e i suoi successori seppero trovare un riparo più o meno efficace a questa perdita, poiché, una volta messa in circolazione la moneta adulterata, la prima cosa che si affrettavano a fare era di ordinare una rifusione generale di tutte le monete secondo l'antico titolo.

E, d'altronde, se Filippo I avesse davvero ragionato come Proudhon, non avrebbe ragionato bene "dal punto di vista commerciale". Né Filippo I, né Proudhon danno prova di avere il bernoccolo del commercio quando immaginano che si possa alterare il valore dell'oro, come quello di ogni altra merce, per la sola ragione che il loro valore è determinato dal rapporto fra l'offerta e la domanda.

Se re Filippo avesse ordinato che un moggio di grano dovesse chiamarsi da quel momento in poi due moggi di grano, sarebbe stato un truffatore. Egli avrebbe ingannato tutti i rentiers, tutti coloro che dovevano ricevere cento moggi di grano; per causa sua tutti costoro, invece di ricevere cento moggi, non ne avrebbero ricevuto che cinquanta. Supposto che il re fosse stato debitore di cento moggi, non ne avrebbe dovuto pagare che cinquanta. Ma in commercio i cento moggi nuovi non avrebbero mai avuto un valore superiore ai cinquanta. Cambiando il nome non si cambia la cosa. La quantità di grano, sia offerta che domandata, non aumenterà né diminuirà per il solo mutamento del nome. Così, rimanendo egualmente invariato il rapporto fra la domanda e l'offerta, ad onta del cambiamento di nome, il prezzo del grano non subirà alcuna alterazione reale. Parlando dell'offerta e della domanda delle cose, non si parla dell'offerta e della domanda del nome delle cose. Filippo I non fabbricava oro e argento, come dice Proudhon; fabbricava solo i nomi delle sue monete. Fate passare i vostri cachemires francesi per autentici cachemires dell'Asia; è possibile che inganniate un compratore o due, ma appena la vostra frode sarà scoperta il prezzo dei vostri sedicenti cachemires d'Asia scenderà al prezzo di quelli francesi. Dando una falsa etichetta all'oro e all'argento, re Filippo poteva imbrogliare il prossimo solo fino a quando la frode non fosse stata conosciuta. Come ogni altro bottegaio, egli imbrogliava i suoi clienti con una falsa denominazione della merce: è chiaro che la cosa non poteva durare a lungo. Presto o tardi anche re Filippo doveva subire il rigore delle leggi del commercio. Era questo che Proudhon voleva dimostrare? No. Secondo lui è dal sovrano e non dal commercio che la moneta riceve il suo valore. E che cosa ha dimostrato, effettivamente, Proudhon? Che il commercio è più sovrano del sovrano stesso. Il sovrano ordini pure che un marco sia, da un certo momento, due marchi; il commercio vi dirà sempre che questi due marchi non valgono che il marco di prima.

Sennonché, con tutto ciò, la questione del valore determinato in base alla quantità di lavoro non ha progredito di un solo passo. Rimane sempre da decidere se questi due marchi, ridivenuti il marco di prima, siano determinati dal costo di produzione o dalla legge dell'offerta e della domanda.

Proudhon continua:

"Si deve pure considerare che se, invece di alterare le monete, il re avesse avuto il potere di raddoppiarne la massa, il valore di scambio dell'oro e dell'argento sarebbe subito diminuito di metà, sempre per questa ragione di proporzionalità e di equilibrio." [I, p. 71.]

Se questa opinione, che Proudhon condivide con gli altri economisti, è giusta, testimonia in favore della loro teoria dell'offerta e della domanda, e per nulla in favore della proporzionalità di Proudhon. Poiché, qualunque fosse la quantità di lavoro inglobata nella massa raddoppiata dell'oro e dell'argento, il suo valore sarebbe diminuito di metà, dato che la domanda sarebbe rimasta la stessa e l'offerta sarebbe raddoppiata. O forse la "legge di proporzionalità" si confonderebbe questa volta con la legge tanto disprezzata dell'offerta e della domanda?

Questa giusta proporzionalità di Proudhon è di fatto talmente elastica, si presta a tante variazioni, combinazioni e permutazioni che potrebbe ben coincidere, una volta tanto, col rapporto fra la domanda e l'offerta

Affermare che "ogni merce [*20] è scambiabile, se non di fatto almeno di diritto" [I, p. 71], basandosi sulla funzione che hanno l'oro e l'argento, significa dunque misconoscere questa funzione. L'oro e l'argento non sono scambiabili [*21] di diritto se non in quanto lo sono di fatto; e lo sono di fatto perché l'organizzazione attuale della produzione ha bisogno di un mezzo universale di scambio. Il diritto non è che il riconoscimento ufficiale del fatto.

Abbiamo già visto che l'esempio del denaro come rappresentazione del valore pervenuto alla sua costituzione, era stato scelto da Proudhon solo per far passare di contrabbando tutta la sua dottrina degli scambi, ossia per dimostrare che ogni merce, valutata secondo il suo costo di produzione, deve diventare moneta. Tutto questo sarebbe bello e buono se non ci fosse l'inconveniente che proprio l'oro e l'argento, in quanto moneta [*22], sono fra tutte le merci le sole non determinate dal loro costo di produzione; tanto è vero che, nella circolazione, possono essere sostituiti dalla carta. Finché fra i bisogni della circolazione e la quantità di moneta emessa sarà osservata una certa proporzione, sia che si tratti di moneta di carta, o d'oro, o di platino, o di rame, non potrà mai esservi questione di proporzione da osservarsi fra il valore intrinseco (costo di produzione) e il valore nominale della moneta. Senza dubbio, nel commercio internazionale la moneta è determinata, come qualsiasi altra merce, in base al tempo di lavoro. Ma anche l'oro e l'argento, nel commercio internazionale, sono mezzi di scambio in quanto prodotti e non in quanto moneta: ossia perdono quel carattere di "fissità e autenticità", di "consacrazione sovrana" che costituiscono, secondo Proudhon, il loro specifico carattere. Ricardo ha talmente compreso questa verità, che benché fondi tutto il suo sistema sul valore determinato in base al tempo del lavoro, e dichiari:

"l'oro e l'argento, come tutte le altre merci, hanno valore solo in proporzione alla quantità di lavoro necessaria a produrli e a farli giungere al mercato"

aggiunge nondimeno che il valore della moneta non è determinato dal tempo di lavoro fissato nella sua materia, ma solo dalla legge dell'offerta e della domanda.

"Sebbene la carta non abbia un valore intrinseco, tuttavia, limitandone la quantità, il suo valore di scambio può eguagliare il valore di una moneta metallica dello stesso taglio o di lingotti valutati in contanti. Ed è ancora in base allo stesso principio, ossia limitando la quantità di moneta, che le monete a titolo basso possono circolare per il medesimo valore che avrebbero se il loro peso e il loro titolo fossero quelli fissati dalla legge e non secondo il valore intrinseco del materiale puro che esse contengono. Ecco perché, nella storia delle monete inglesi, troviamo che il nostro denaro non è mai stato deprezzato nella stessa misura in cui è stato adulterato. La ragione è che esso non è mai stato moltiplicato in proporzione al suo deprezzamento." (Ricardo, loc. cit. [II, pp. 206-207].)

Ecco quanto osserva J.-B. Say a proposito di questo passo di Ricardo:

"Questo esempio dovrebbe bastare, mi sembra, per convincere l'autore che la base di ogni valore non è la quantità di lavoro necessaria per fabbricare una merce, ma il bisogno che di tale merce si ha, combinato alla sua rarità." [17]

Così la moneta, che per Ricardo non è più un valore determinato dal tempo di lavoro, e che appunto per questo viene addotta da J.-B. Say come esempio per convincere Ricardo che neppure gli altri valori potrebbero essere determinati dal tempo di lavoro, la moneta, diciamo, presa da J.-B. Say come esempio di un valore determinato esclusivamente dall'offerta e dalla domanda, diviene per Proudhon l'esempio par excellence dell'applicazione del valore costituito... dal tempo di lavoro.

Per concludere, se la moneta non è un "valore costituito" dal tempo di lavoro, tanto meno può avere qualcosa di comune con la giusta "proporzionalità" di Proudhon. L'oro e l'argento sono sempre scambiabili, poiché hanno la funzione particolare di servire da mezzo universale di scambio e non certo perché esistano in quantità proporzionale all'insieme delle ricchezze; o, per meglio dire, sono sempre proporzionali poiché, soli fra tutte le merci, servono da moneta, da mezzo universale di scambio, qualunque sia il rapporto tra la loro quantità e l'insieme totale della ricchezza.

"La moneta in circolazione non può mai essere tanto abbondante da eccedere, poiché, diminuendone il valore, ne aumenterete nella stessa proporzione la quantità, e aumentandolo, ne diminuirete la quantità." (Ricardo [II, p. 205].)

"Che razza di imbroglio [18]è l'economia politica!" esclama Proudhon. [I, p. 72]

"Oro maledetto! grida con divertente ingenuità un comunista" (per bocca di Proudhon). "Tanto varrebbe gridare: Maledetto frumento, maledette vigne, maledetti montoni! poiché, come l'oro e l'argento, ogni valore commerciale deve giungere alla sua esatta e rigorosa determinazione." [I, p. 73.]

L'idea di attribuire ai montoni e alle vigne la qualità di moneta non è nuova. In Francia appartiene al secolo di Luigi XIV. A quell'epoca, poiché il denaro aveva cominciato a stabilire la sua onnipotenza, ci si lamentava del deprezzamento di tutte le altre merci, e si auspicava con fervore il momento in cui ogni "valore commerciale" potesse arrivare alla sua esatta e rigorosa determinazione, diventare moneta. Ecco che cosa troviamo già in Boisguillebert, uno dei più antichi economisti francesi:

"Allora il denaro, per questo afflusso di innumerevoli concorrenti, le merci stesse ristabilite nei loro giusti valori, verrà nuovamente costretto nei suoi limiti naturali." ( "Economistes financiers du dix-huitième siècle", p. 422, ed. Daire).

Si vede così come le prime illusioni della borghesia siano anche le sue ultime.

b) L'eccedenza del lavoro

"Si legge nei libri di economia politica questa ipotesi assurda: Se i1 prezzo di tutte le cose raddoppiasse ... Come se il prezzo di tutte le cose non fosse la proporzione delle cose, e si potesse raddoppiare una proporzione, un rapporto, una legge!" (Proudhon, vol. I, p. 81.)

Gli economisti sono caduti in questo errore per non avere saputo applicare la "legge della proporzionalità" e del "valore costituito".

Sfortunatamente, nella stessa opera di Proudhon (vol. I, p. 110), si legge questa ipotesi assurda: se il salario aumentasse in generale, aumenterebbe il prezzo di tutte le cose.

Aggiungiamo poi che, se nelle opere di economia politica si trova la frase in questione, se ne trova anche la spiegazione.

"Se si dice che il prezzo di tutte le merci aumenta o diminuisce, si esclude sempre l'una o l'altra delle merci: quella esclusa è generalmente il denaro o il lavoro." ("Encyclopaedia Metropolitana or Universal Dictionary of Knowledge", vol. IV, all'articolo "Political Economy", di Senior, London 1836). Vedere inoltre a proposito di questa espressione: J. St. Mill, "Essays on Some Unsettled Questions of Political Economy", London 1844, e Tooke, "A history of prices, ecc.", London 1838.)

Passiamo ora alla seconda applicazione del "valore costituito" e di altre proporzionalità il cui solo difetto è di essere poco proporzionate; e vediamo se Proudhon è qui più fortunato che nella monetizzazione dei montoni.

"Un assioma ammesso all'unanimità dagli economisti è che ogni lavoro deve lasciare un'eccedenza. Per me, questa proposizione ha un valore universale e assoluto: è il corollario della legge della proporzionalità, che può essere considerata come il sommario di tutta la scienza economica. Ma, ne chiedo scusa agli economisti, il principio che ogni lavoro deve lasciare un'eccedenza non ha senso nella loro teoria, e non è suscettibile di alcuna dimostrazione." (Proudhon [I, p. 73].)

Per dimostrare che ogni lavoro deve lasciare un'eccedenza, Proudhon personifica la società, ne fa una società-persona: società che non è - per carità! - la società delle persone, poiché ha le sue leggi a parte, che non hanno nulla in comune con le persone di cui si compone la società, e possiede una "sua propria íntelligenza", che non è l'intelligenza degli uomini comuni, bensì un'intelligenza priva di senso comune. Proudhon rimprovera agli economisti di non aver compreso la personalità di questo ente collettivo. Ci piace contrapporgli il passo seguente di un economista americano che rimprovera agli altri economisti proprio il contrario.

"L'entità morale (the moral entity), l'ente grammaticale (the grammatical being) che si chiama società è stato rivestito di attribuzioni che esistono solo nell'immaginazione di coloro che di una parola fanno una cosa... Ciò ha dato luogo a tante difficoltà e a tanti deplorevoli errori in economia politica." (Th. Cooper "Lectures on the Elements of Political Economy", Columbia 1826 [19]. )

"Questo principio dell'eccedenza di lavoro" continua Proudhon, "si avvera per gli individui solo in quanto emana dalla società, che in tal modo conferisce loro il beneficio delle sue leggi." [I, p. 75.]

Vuol forse Proudhon dire con questo semplicemente che la produzione dell'individuo sociale sorpassa quella dell'individuo isolato? Vuol parlare dell'eccedenza della produzione degli individui associati sulla produzione degli individui non associati? Se è così, gli potremo citare allora anche cento economisti che hanno espresso questa semplice verità senza tutto il misticismo di cui si ammanta Proudhon. Ecco, per esempio, quel che ne dice Sadler:

"Il lavoro combinato dà risultati che il lavoro individuale non potrebbe mai produrre. Man mano che l'umanità aumenterà di numero, i prodotti del lavoro complessivo eccederanno di molto la somma risultante da una semplice addizione di quest'aumento... Nelle industrie meccaniche, come nel campo scientifico, un uomo può fare oggi in un giorno più di quanto un individuo isolato potrebbe fare in tutta la sua vita. L'assioma dei matematici che il tutto è uguale alla somma delle parti, non è più vero se applicato al nostro caso. Quanto al lavoro, questo grande pilastro dell'esistenza umana (the great pillar of human existence), si può dire che il prodotto degli sforzi accumulati eccede di molto tutto quello che gli sforzi individuali e separati possano mai produrre." (Th. Sadler, "The law of population", London 1830.)

Torniamo a Proudhon. L'eccedenza di lavoro, egli dice, si spiega con la società-persona. La vita di questa persona segue leggi opposte a quelle che fanno agire l'uomo come individuo; vuole provarlo con dei "fatti".

"La scoperta di un procedimento economico non può mai procurare all'inventore un profitto pari a quello che egli procura alla società... E' stato osservato che le imprese ferroviarie sono una fonte di ricchezza assai minore per gli imprenditori che per lo Stato... Il prezzo medio del trasporto delle merci con carri è di diciotto centesimi per tonnellata-chilometro, da magazzino a magazzino. Si è calcolato che a questo prezzo una impresa ferroviaria ordinaria non otterrebbe il 10 per cento di utile netto, risultato press'a poco eguale a quello di una azienda di trasporti con carri. Ma supponiamo che la velocità del trasporto per ferrovia stia a quella del trasporto con carri nel rapporto di 4 a 1: poiché nella società il tempo stesso è valore, a prezzo eguale la ferrovia presenterà sul trasporto con carri un guadagno del 400 per cento. Tuttavia questo guadagno enorme, guadagno che si realizza effettivamente per la società, è ben lungi dal realizzarsi nella stessa proporzione per l'imprenditore dei trasporti, il quale, mentre procura alla società un utile del 400 per cento, non riceve personalmente neppure il 10 per cento. Supponiamo, infatti, per rendere la cosa più tangibile, che la ferrovia porti le sue tariffe a 25 cent., restando invece quelle dei trasporti su carro a 18: le ferrovie perderanno istantaneamente tutte le ordinazioni. Spedizionieri, destinatari, tutti ritorneranno a usare il vecchio calesse e magari il barroccio. Non si farà più uso delle ferrovie: un profitto sociale del 400 per cento verrà sacrificato a una perdita privata del 35 per cento. La ragione si comprende facilmente: il profitto risultante dalla velocità della ferrovia è puramente sociale, ed ogni individuo non vi partecipa che in proporzione minima (non dimentichiamo che si tratta in questo momento solo del trasporto delle merci), mentre la perdita colpisce direttamente e personalmente il consumatore. Un profitto sociale pari al 400 per cento, in una società composta di un milione di uomini, rappresenta per l'individuo quattro decimillesimi, mentre una perdita del 33 per cento per il consumatore presupporrebbe un deficit sociale di 33 milioni." (Proudhon [I, pp. 87, 75-76].)

Passi il fatto che Proudhon faccia ammontare una velocità quadruplicata al 400 per cento della velocità primitiva; ma quando mette in rapporto le percentuali della velocità colle percentuali del profitto e stabilisce una proporzione fra due cose che, pur essendo misurata ciascuna in percentuali, sono nondimeno incommensurabili fra loro, questo significa stabilire una proporzione fra le percentuali e metter da canto le cose stesse. Una percentuale è sempre una percentuale. 10 per cento e 400 per cento sono commensurabili; stanno l'uno all'altro come 10 sta a 400. Dunque, conclude Proudhon, un profitto del 10 per cento vale 40 volte meno di una velocità quadrupla. Per salvare le apparenze egli dice che, per la società, il tempo è valore ( time is money [*23]). Questo errore deriva dal fatto che egli si ricorda confusamente dell'esistenza di un rapporto fra valore e tempo di lavoro: per cui si dà un gran da fare per assimilare il tempo di lavoro al tempo del trasporto; cioè identifica i pochi macchinisti e il personale addetto ai convogli - il cui tempo di lavoro non è altro che il tempo di trasporto - con la società tutta intera. D'un tratto, ecco la velocità divenuta capitale, e in questo caso, davvero, Proudhon ha ragione di dire: "Un profitto del 400 per cento verrà sacrificato a una perdita del 35 per cento". Dopo aver stabilito in qualità di matematico questa strana proposizione egli ce ne dà la spiegazione come economista.

"Un profitto sociale pari al 400 per cento, in una società composta di un milione di uomini, rappresenta per l'individuo quattro decimillesimi."

D'accordo; ma non si tratta di 400, bensì del 400 per cento; e un profitto del 400 per cento rappresenta per l'individuo il 400 per cento: né più né meno. Qualunque sia il capitale, i dividendi si ripartiranno sempre nella proporzione del 400 per cento. Che fa Proudhon? Prende le percentuali per il capitale, e temendo che la sua confusione non sia abbastanza palese, abbastanza "tangibile", continua:

"Una perdita del 33 per cento per il consumatore presupporrebbe un deficit sociale di 33 milioni". 33 per cento di perdita per il consumatore resta 33 per cento di perdita per un milione di consumatori. Come può quindi Proudhon dire ragionevolmente che il deficit sociale, nel caso di una perdita del 33 per cento, si eleva a 33 milioni, quando non conosce né il capitale sociale e neppure il capitale di uno solo degli interessati? Così non era sufficiente per lui l'aver confuso il capitale e le percentuali; egli supera se stesso, addirittura, identificando il capitale investito in un'impresa col numero degli interessati.

"Supponiamo, infatti, per rendere la cosa più tangibile", un determinato capitale, un profitto sociale del 400 per cento, ripartito su un milione di azionisti, interessati ciascuno per un franco, procura 4 franchi di utile a testa, e non 0,0004, come pretende Proudhon. Così pure, una perdita del 33 per cento per ciascuno degli azionisti rappresenta un deficit sociale di 330.000 franchi e non di 33 milioni (100/33=1.000.000/330.000).

Proudhon, preoccupato della sua teoria della società-persona, dimentica di far la divisione per cento e ottiene così 330.000 franchi di perdita: ma 4 franchi di profitto a testa fanno per la società 4 milioni di franchi di profitto. Resta per la società un profitto netto di 3.670.000 franchi. Questo conto esatto dimostra esattamente il contrario di quello che voleva dimostrare Proudhon: cioè che gli utili e le perdite della società non sono affatto in ragione inversa degli utili e delle perdite degli individui.

Dopo aver rettificato questi errori - puri e semplici errori di calcolo -vediamo un poco le conseguenze cui si arriverebbe, se si volesse ammettere per le ferrovie quel rapporto fra velocità e capitale che stabilisce Proudhon, meno gli errori di calcolo. Supponiamo che un trasporto quattro volte più rapido costi quattro volte di più; questo trasporto non darà meno profitto di quello con carri che è quattro volte più lento e comporta un quarto di spese. Dunque se il trasporto su carri costa 18 centesimi, la ferrovia potrebbe costare 72 centesimi. Sarebbe, secondo "rigore matematico", la conseguenza del presupposto di Proudhon, sempre evitando i suoi errori di calcolo. Ma ecco che improvvisamente egli ci dice che se invece di 72 centesimi la ferrovia ne chiedesse solo 25, perderebbe istantaneamente tutte le ordinazioni. Davvero bisogna ritornare al calesse e magari al barroccio. Solo un consiglio dobbiamo dare a Proudhon: di non dimenticare nel suo "Programme de l'Association progressive" di fare la divisione per cento. Ma purtroppo non c'è da sperare d'essere ascoltati, perché Proudhon è talmente rapito dal suo calcolo "progressivo", corrispondente alla "associazione progressiva", che esclama con molta enfasi:

"Ho già dimostrato, al capitolo II, con la risoluzione dell'antinomia del valore, che il vantaggio di ogni scoperta utile è incomparabilmente minore per l'inventore, checché egli faccia, che per la società; e ho condotto la dimostrazione di questo punto fino al rigore matematico!"[I, p. 241.]

Torniamo alla finzione della società-persona, finzione che aveva solo lo scopo di dimostrare questa semplice verità: una nuova invenzione, facendo produrre con la stessa quantità di lavoro una maggiore quantità di merci, fa diminuire il prezzo di mercato del prodotto. La società realizza dunque un profitto, non perché ottenga un maggior valore di scambio, ma perché ottiene un maggior numero di merci per lo stesso valore. Quanto all'inventore, la concorrenza fa scendere successivamente il suo profitto fino al livello generale dei profitti. Ha dimostrato Proudhon questa proposizione, come era sua intenzione di fare? No. Pure ciò non gli impedisce di rimproverare agli economisti di non aver saputo fornire questa dimostrazione. Per provargli il contrario gli citeremo solo Ricardo e Lauderdale: Ricardo, il capo della scuola che determina il valore in base al tempo di lavoro; Lauderdale, uno dei più decisi difensori della determinazione del valore in base all'offerta e alla domanda. Entrambi hanno sviluppato la medesima tesi.

"Aumentando costantemente la facilità della produzione, noi diminuiamo costantemente il valore di alcune delle cose prodotte precedentemente, sebbene con questo stesso mezzo, non solo aumentiamo la ricchezza nazionale, ma aumentiamo anche la facoltà di produrre per l'avvenire... Non appena per meno delle macchine, o grazie alle nostre conoscenze della fisica, costringiamo gli agenti naturali a compiere l'opera per l'innanzi compiuta dall'uomo, il valore di scambio del prodotto diminuisce di conseguenza. Se fossero necessari dieci uomini per azionare un mulino, e si scoprisse che per mezzo del vento o dell'acqua il lavoro di questi dieci uomini potrebbe venire risparmiato, la farina prodotta dall'azione del mulino diminuirebbe istantaneamente di valore, in proporzione alla somma di lavoro risparmiata; e la società si troverebbe arricchita di tutto il valore delle cose che potrebbero essere prodotte dal lavoro di dieci uomini, non essendo per questo affatto diminuiti i fondi destinati al mantenimento dei lavoratori." (Ricardo [II, p. 59] .)

Lauderdale, a sua volta, dice:

"Il profitto dei capitali proviene sempre dal fatto che essi suppliscono a una porzione del lavoro che l'uomo dovrebbe compiere con le sue mani, ovvero dal fatto che essi compiono una porzione di lavoro che va oltre gli sforzi personali dell'uomo e che l'uomo da solo non potrebbe eseguire. L'esiguo guadagno realizzato in generale dai proprietari di macchine, paragonato al prezzo del lavoro che esse sostituiscono, potrà forse far nascere dei dubbi sulla giustezza di questa opinione. Una pompa a vapore, per esempio, estrae in un giorno più acqua da una miniera di carbone di quanta non potrebbero estrarne trecento uomini, anche usando secchie a catena; e non v'è dubbio che essa sostituisce il loro lavoro con una spesa molto inferiore. È questo il caso di tutte le macchine. Il lavoro che si faceva manualmente dall'uomo, e che esse hanno sostituito, deve essere compiuto da esse a prezzo più basso... Supponiamo che venga concesso un brevetto all'inventore di una macchina che compie l'opera di quattro operai: dato che il privilegio dell'esclusività impedisce ogni concorrenza, ad eccezione di quella che risulta dal lavoro degli operai, è chiaro che il salario di costoro, per tutta la durata dell'esclusività, sarà la misura del prezzo che l'inventore fisserà per i suoi prodotti: ossia, per assicurarsi le ordinazioni, egli esigerà poco meno del salario del lavoro che la sua macchina ha sostituito. Ma alla fine del periodo di esclusività, altre macchine dello stesso tipo compariranno ed entreranno in concorrenza con la sua. Allora egli regolerà il suo prezzo in base al principio generale, facendolo dipendere dalla quantità delle macchine. Il profitto dei capitali investiti..., quantunque risulti da un lavoro sostituito, si regola infine non in base al valore di questo lavoro, ma, come in ogni altro caso, in base alla concorrenza che si stabilisce tra i proprietari dei capitali e il suo grado viene sempre fissato dalla proporzione fra la quantità dei capitali offerti per questa funzione, e la domanda di tali capitali." [pp. 119, 123, 124, 125 e 134.]

In ultima analisi, dunque, per tutto il periodo in cui il profitto sarà maggiore che nelle altre industrie, vi saranno capitali che saranno investiti nella nuova industria, finché il tasso dei profitti non sia sceso al livello comune.

Abbiamo visto che l'esempio della ferrovia non era precisamente il più adatto a far luce sulla finzione della società-persona. Nondimeno, Proudhon riprende imperterrito il suo discorso:

"Delucidati questi punti, nulla di più facile che spiegare come il lavoro debba lasciare ad ogni produttore un sovrappiù." [I, p. 77.]

Quel che ora segue, appartiene all'antichità classica. È un racconto poetico per recare sollievo al lettore dopo la fatica che gli deve esser costata la rigorosità delle dimostrazioni matematiche che precedono. Proudhon dà alla società personificata il nome di Prometeo, del quale egli glorifica le alte gesta in questi termini:

"In principio, Prometeo, uscendo dal seno della natura, si desta alla vita in una inerzia piena di incanti, ecc. ecc. Prometeo si mette all'opera, e fin dalla sua prima giornata, prima giornata della seconda creazione, il prodotto di Prometeo, cioè la sua ricchezza, il suo benessere, è eguale a dieci. Il secondo giorno Prometeo divide il suo lavoro e il prodotto diviene eguale a cento. Il terzo giorno e ciascuno dei giorni seguenti, Prometeo inventa delle macchine, scopre nei corpi nuove possibilità di impiego utile, nuove forze nella natura... Ad ogni passo innanzi della sua industria, la cifra della sua produzione aumenta annunciandogli un aumento di benessere. E poiché infine, per lui, consumare è produrre, è chiaro che ogni giornata di consumo, non consumando egli che il prodotto della vigilia, lascia un sovrappiù di prodotto per la giornata dell'indomani." [I, pp. 77-78.]

Questo Prometeo di Proudhon è un curioso personaggio: così debole in logica, come in economia politica. Finché si limita ad insegnarci che la divisione del lavoro, l'impiego delle macchine, lo sfruttamento delle forze naturali e delle scienze tecniche moltiplicano la forza produttiva dell'uomo e determinano un'eccedenza rispetto a ciò che produce il lavoro isolato, questo nuovo Prometeo ha solo la sfortuna dì arrivare troppo tardi. Ma quando poi si ingolfa a parlare di produzione e di consumo, allora diventa davvero grottesco. Consumare, per lui, è produrre; egli consuma l'indomani ciò che ha prodotto il giorno prima e perciò si trova sempre una giornata d'avanzo; questa giornata d'avanzo è la sua "eccedenza di lavoro". Ma per consumare l'indomani ciò che ha prodotto la vigilia, bisogna pure che il primo giorno - che non era preceduto da alcuna vigilia - egli abbia lavorato per due giornate, per poter poi avere una giornata di avanzo. Come ha fatto dunque Prometeo ad ottenere nel primo giorno questa eccedenza, dato che non vi erano né divisione del lavoro, né macchine, né altre conoscenze delle forze fisiche all'infuori di quella del fuoco? Così la questione, per il fatto d'essere stata risospinta indietro "fino al primo giorno della seconda creazione", non ha compiuto un sol passo in avanti. Questo modo di spiegare le cose ha contemporaneamente del greco e dell'ebreo; è nello stesso tempo mistico e allegorico, e, senza dubbio alcuno, dà pienamente a Proudhon il diritto di dire:

"Ho dimostrato in teoria e coi fatti il principio che ogni lavoro deve lasciare una eccedenza." [I, p. 79.]

I fatti, sono il famoso calcolo progressivo; la teoria, il mito di Prometeo.

"Ma", continua Proudhon, "questo principio, certo quanto una proposizione aritmetica, è ancora lungi dal realizzarsi per tutti. Mentre, col progresso dell'industria collettiva, ogni giornata di lavoro individuale ottiene un prodotto sempre maggiore, e quindi, per conseguenza necessaria, il lavoratore, pur con lo stesso salario, dovrebbe divenire di giorno in giorno più ricco, esistono tuttavia nella società strati che si arricchiscono ed altri che deperiscono." [I, pp. 79-80.]

Nel 1770, la popolazione del regno unito di Gran Bretagna era di 15 milioni, e la popolazione produttiva di 3 milioni. Il potenziale delle forze tecniche produttive corrispondeva circa a una popolazione di 12 milioni; dunque, in sostanza vi erano 15 milioni di forze produttive. Di modo che queste stavano alla popolazione come 1 sta a 1, e la potenza tecnica stava al potenziale manuale come 4 sta a 1.

Nel 1840, la popolazione non oltrepassava i 30 milioni: la popolazione produttiva era di 6 milioni, mentre la potenza tecnica saliva a 650 milioni, ossia stava all'intera popolazione come 21 sta a 1, e al potere manuale come 108 sta a l.

Nella società inglese, la giornata di lavoro ha dunque acquistato in 70 anni una eccedenza del 2.700 per cento di produttività: vale a dire, nel 1840, essa ha prodotto 27 volte quello che aveva prodotto nel 1770. Secondo Proudhon, bisognerebbe porsi la domanda seguente: perché l'operaio inglese del 1840 non era ventisette volte più ricco di quello del 1770? Con una simile domanda, si supporrebbe naturalmente che gli inglesi avessero potuto produrre tali ricchezze senza che fossero esistite le condizioni storiche nelle quali appunto sono state prodotte: accumulazione privata dei capitali, divisione moderna del lavoro, officine meccanizzate, concorrenza anarchica, sistema salariale, e insomma tutto ciò che si basa sull'antagonismo delle classi. Ora, erano precisamente queste le condizioni di esistenza per lo sviluppo delle forze produttive e dell'eccedenza di lavoro. Dunque è stato necessario, per ottenere questo sviluppo delle forze produttive e questa eccedenza di lavoro, che ci fossero delle classi che profittavano e delle classi che si immiserivano.

Che cosa è dunque, in definitiva, questo Prometeo risuscitato da Proudhon? È la società, sono i rapporti sociali basati sull'antagonismo delle classi. Questi rapporti non sono rapporti fra individuo e individuo, ma fra operaio e capitalista, fra contadino e proprietario fondiario, ecc. Cancellate questi rapporti e avrete annullato tutta la società, e il vostro Prometeo non sarà più che uno spettro senza braccia e senza gambe, ossia senza fabbrica meccanizzata, senza divisione del lavoro, privo infine di tutto ciò che originariamente gli avete attribuito per fargli ottenere questa eccedenza di lavoro.

Se dunque in teoria fosse sufficiente, come fa Proudhon, interpretare la formula dell'eccedenza di lavoro nel senso egualitario, prescindendo dalle condizioni attuali della produzione, in pratica dovrebbe essere sufficiente attuare fra gli operai una ripartizione egualitaria di tutte le ricchezze attualmente acquistate, senza nulla mutare delle condizioni attuali della produzione. Questa ripartizione non assicurerebbe certo un grande benessere a ciascuno dei partecipanti.

Ma Proudhon non è così pessimista come si potrebbe credere. Poiché la proporzionalità per lui è tutto, bisogna bene che egli veda nel suo Prometeo bell'e fatto, ossia nella società attuale, un principio di realizzazione della sua idea favorita.

"Ma ovunque il progresso della ricchezza, ossia la proporzionalità dei valori, è la legge dominante; e quando gli economisti oppongono alle lamentele del partito sociale l'accrescimento progressivo della ricchezza pubblica e i miglioramenti avvenuti nelle condizioni delle classi anche più disagiate, essi proclamano senza accorgersene una verità che è la condanna delle loro teorie." [I, p.80.]

Che cosa è, in effetti, la ricchezza collettiva, la ricchezza pubblica? È, la ricchezza della borghesia nel suo complesso e non quella del singolo borghese. Ebbene! Gli economisti non hanno fatto altro che dimostrare come, nei rapporti di produzione quali esistono, la ricchezza della borghesia si sia sviluppata e debba ancora accrescersi. Quanto alle classi operaie, è una questione ancora assai contestata il sapere se la loro condizione sia migliorata in seguito all'accrescimento della ricchezza cosiddetta pubblica. Se gli economisti citano, a conforto delle loro tesi ottimistiche, l'esempio degli operai inglesi impiegati nell'industria cotoniera, essi considerano la situazione di questi lavoratori solo nei rari momenti di prosperità commerciale. Questi momenti di prosperità stanno alle epoche di crisi e di ristagno nella "giusta proporzionalità" di 3 a 10. Ma potrebbe anche darsi che, parlando di miglioramenti, gli economisti abbiano voluto parlare di quei milioni di operai che hanno dovuto morire nelle Indie Orientali, per procurare al milione e mezzo di operai, occupati in Inghilterra nella medesima industria, tre anni di prosperità su dieci.

Quanto alla partecipazione temporanea all'accrescimento della ricchezza pubblica, la cosa è differente. Il fatto della partecipazione temporanea si spiega con la teoria degli economisti, e ne è la conferma e non la "condanna" come vorrebbe Proudhon. Se qualcosa vi fosse da condannare, sarebbe senza dubbio il sistema di Proudhon, il quale ridurrebbe, come abbiamo dimostrato, l'operaio al minimo di salario, ad onta dell'accrescimento delle ricchezze. Solo riducendo l'operaio al minimo di salario egli farebbe un'applicazione della giusta proporzionalità dei valori, del "valore costituito" in base al tempo di lavoro. E poiché il salario, a causa della concorrenza, oscilla al disopra o al disotto del prezzo dei viveri necessari al sostentamento dell'operaio, questi può partecipare in una certa misura allo sviluppo della ricchezza collettiva, ma può anche perire di miseria. E questa è la teoria degli economisti che non si fanno illusioni.

Dopo le sue lunghe divagazioni intorno alle ferrovie, a Prometeo, e alla nuova società da ricostituire sul "valore costituito", Proudhon si raccoglie; l'emozione lo vince ed egli esclama in tono paterno:

"Io scongiuro gli economisti ad interrogarsi un momento, nel silenzio del loro cuore, lungi dai pregiudizi che li turbano e senza riguardo ai posti che occupano o che si aspettano, agli interessi che servono, ai plausi cui ambiscono, ai riconoscimenti che cullano dolcemente la loro vanità: dicano se fino ad oggi il principio che ogni lavoro deve lasciare un'eccedenza era loro apparso unito a questa catena di premesse e di conseguenze che noi abbiamo mostrato." [I, p. 80.]

 

Note

*1. (di scambio): aggiunta di Marx.

*2. (valore d'uso): aggiunta di Marx.

1. Il riferimento è all'opera di Adam Anderson, An historical and chronological deduction of the origin of commerce... (cfr. Indice bibliografico), una storia del commercio di carattere compilatorio ("annali commerciali" la definirà Marx nel libro primo dei Capitale) pubblicata in due volumi nel 1764 a Londra e ristampata in seguito una sola volta nel 1801 (London, 4 vv.). L'opera è citata con un titolo francese nonostante non sia mai stata tradotta in tale lingua.

2. Proudhon (I, pp. 40-41) parla di "liberté" e "libre arbitre", Marx scrive erroneamente "l'arbitraire". Nella traduzione tedesca del 1885 (cfr. MEW, v. 4, p. 73) è tradotto con "der freie Wille" (il libero arbitrio).

*3. (di scambio): aggiunta di Marx.

3. Marx si riferisce qui alla prima edizione dell'opera di Ricardo On the principles... apparsa a Londra nel 1817, mentre solitamente quest'opera è citata nella traduzione francese del 1835.

4. Riferimento non molto chiaro: il passo citato tra virgolette da Marx è di Ricardo (p.9 della trad. francese dei Princípi citata da Marx) che poco sopra (ibid., pp. 6-8) aveva appunto citato la Ricchezza delle nazioni di Smith (libro I, capitolo V).

*4. Ricardo, com'è noto, determina il valore di una merce mediante la "quantità di lavoro necessaria per la sua produzione". Ma la forma di scambio dominante in ogni sistema di produzione fondato sulla produzione di merci, e quindi anche nel sistema di produzione capitalistico, comporta che questo valore non venga espresso direttamente in quantità di lavoro, ma in quantità di un'altra merce. Il valore di una merce, espresso in una quantità di altra merce (denaro o non) è chiamato da Ricardo il valore relativo della merce. F. E. [Nota all'edizione tedesca del 1885.]

5. Probabile riferimento alle opere Êconomie politique ou principes de la science des richesses (Paris, 1829) di François-Xavier-Joseph Droz, Histoire d'économie politique en Europe, depuis les anciens iusqu'à nos jours; suivie d'une bibliographie raisonnée des principaux ouvrages d'economie politique (2 vv., II ediz., Paris, 1842) di Jerôme-Adolphe Blanqui e Cours d'économie politique (2 vv., Paris, 1841-1842) di Pellegrino Rossi.

*5. La tesi che il prezzo "naturale", cioè normale, della forza lavorativa coincide con il salario minimo, cioè con l'equivalente di valore dei mezzi di sussistenza assolutamente necessari alla vita e alla riproduzione dell'operaio, questa tesi fu posta per la prima volta da me nei "Lineamenti di una critica dell'economia politica" ("Deutsch-Französische Jahrbücher", Paris 1844) e nella "Situazione della classe operaia in Inghilterra". Come qui si vede, Marx aveva accettato allora questa tesi. Lassalle la riprese da noi due. Ma anche se nella realtà il salario ha la tendenza costante ad avvicinarsi al suo minimo, la tesi sopra riportata è tuttavia errata. Il fatto che la forza lavorativa di regola e in media è pagata al di sotto del suo valore, non può cambiare quest'ultimo. Nel "Capitale" Marx ha rettificato la tesi sopra riportata (sezione: Compra e vendita della forza lavorativa) e ha anche sviluppato (cap. XXIII, Legge generale dell'accumulazione capitalistica) le circostanze che permettono alla produzione capitalistica di abbassare sempre più al disotto del suo valore il prezzo della forza lavorativa. F.E. [Nota all'edizione tedesca del 1885.]

*6. Nella traduzione tedesca del 1885: fra il produttore immediato (l'operaio).

6. Marx intende riferirsi a Thomas Cooper, Lectures on tbe elements of political economy, II ediz. con aggiunte, Columbia, 1829 (ma in realtà 1830). Per i suoi estratti dall'opera di Cooper nell'estate del 1845 a Manchester Marx utilizzò proprio la II ediz. e non la prima del 1826 che cita più avanti (cfr. sopra p. 54).

*7. Nelle traduzione tedesca del 1885: lavoro semplice (non qualificato)... lavoro complesso (qualificato).

*8. (leggere: Proudhon): aggiunta di Marx.

*9. i veri nomi delle cose.

*10. servo da servire.

*11. Nell'esemplare con dedica, dopo "Le travail" (Il lavoro) sono aggiunte le parole "la force du travail" (la forza-lavoro).

*12. E per amor della vita perdere i motivi del vivere! (Giovenale, "Satire", VIII, 84).

7. Proudhon (I, p. 58) si riferisce a Charles Dunoyer, la cui opera principale era apparsa già nel 1825 con il titolo: L'industrie et la morale considérées dans leur rapports avec la liberté (Paris, 1825). L'accenno di Proudhon è invece all'opera piú recente di Dunoyer, De la liberté du travail ou simple exposé des conditions dans lesquelles les forces humaines s'exercent avec le plus de puissance (3 vv., Paris, 1845), e precisamente alle pp. 116 - 190 del II volume.

*13. Nella lista di Engels, a questo punto era segnata la seguente aggiunta: dans les socíétés fondées sur les échanges individuels [nelle società fondate sugli scambi individuali]. Nell'esemplare con dedica era segnata la stessa aggiunta senza la parola: individuels.

*14. Troia non è più (Virgilio, "Eneide", canto II, v. 325).

8. Una esposizione complessiva del socialismo comunismo si trova nel volume II (pp. 330-396) dell'opera di Proudhon.

9. Marx intendeva probabilmente indicare l'opera di Thomas Hopkins, Economical enquiries relative to the laws which regulate rent, profit, wages, and the value of money, London, 1822. Nella seconda edizione tedesca (1892) di Miseria della filosofia Engels sostituì il nome di Hodgskin a quello di Hopkins, citato da Marx nel 1847, avvertendo della correzione nella nota preliminare a questa edizione. Gli editori dei MEW hanno ristabilito il nome Hopkins (delle cui opere Marx fece degli estratti nei quaderni del luglio 1850 e dell'ottobre-dicembre 1859), anche se indubbiamente la qualifica di "ricardiano" si attaglia più a Hodgskin che aveva pubblicato Popular political economy... a Londra nel 1827 (Engels, tuttavia, nella succitata correzione, lasciò inalterata la data di edizione: 1822).

10. Nella prima edizione francese del 1847, come anno di pubblicazione dell'opera di Thompson era indicato erroneamente il 1827 invece del 1824. Anche in questo caso Engels apportò la correzione nella seconda edizione tedesca del 1892, precisandolo nella nota preliminare.

*15. (sistema comunitario): aggiunta di Marx.

11. La Legge delle dieci ore (Ten hours act for women and young persons), che tutelava soltanto i ragazzi e le donne, fu approvata dal parlamento inglese l'8 giugno 1847; tuttavia molti fabbricanti non la osservavano.

12. Nell'esemplare a mano, ove annotò cambiamenti e miglioramenti del testo, Marx si riferisce qui a un passo dello scritto di Engels, Lineamenti di una critica dell'economia politica: "La verità del rapporto di concorrenza è il rapporto della forza consumatrice alla forza produttrice. In una condizione degna dell'umanità non ci sarà altra concorrenza che questa. La comunità dovrà calcolare quanto essa potrà produrre con i mezzi a sua disposizione e determinare, secondo il rapporto di questa forza produttiva con la massa dei consumatori, in che misura dovrà accrescere o frenare la produzione, far delle concessioni al lusso o limitarlo" (in Marx-Engels, Opere, v. III, Roma, 1976, p. 472).

*16. Come ogni altra teoria, quella di Bray ha trovato i propri fautori che si sono lasciati ingannare dalle apparenze. Sono stati fondati a Londra, a Sheffield, a Leeds e in molte altre città inglesi, degli Equitable Labour-Exchange-Bazaars (empori per lo scambio equo dei prodotti del lavoro) che, dopo aver assorbito considerevoli capitali, sono tutti scandalosamente falliti. E se ne è perduto il gusto per sempre: monito per il signor Proudhon! [Nota di Marx.]

(Si sa che Proudhon non si è preso a cuore quest'ammonimento. Nel 1849 fece egli stesso il tentativo di una nuova banca di scambio a Parigi. Ma questa fallì prima ancora di aver funzionato in pieno; un procedimento giudiziario contro Proudhon dovette essere intentato per coprire il fallimento della banca. F.E.) [Nota di Engels alla nota di Marx nell'edizione tedesca del 1885]

13. Qui e più avanti "monnaie" è sempre tradotto con "moneta", mentre nella versione tedesca di Bernstein e Kautsky rivista da Engels è quasi sempre tradotto con "Geld" (denaro) e solo in qualche caso specifico con "Münze" (moneta).

*17. per eccellenza.

14. Marx allude al seguente passo della Ricchezza delle nazioni (libro I, cap. II) di Adam Smith: "In una tribù di cacciatori o di pastori un individuo fa per esempio archi e frecce con più rapidità e destrezza degli altri. Egli li dà spesso ai suoi compagni in cambio di selvaggina o bestiame, e alla fine si accorgerà che in questo modo può avere più bestiame e selvaggina di quanto ne avrebbe se fosse andato a caccia di persona. Così, nel suo interesse, la fabbricazione di archi e frecce si trasformerà nella sua occupazione principale e diventerà una specie di armaiolo" (nella traduzione francese citata da Marx il passo si trova nel volume I, pp. 32-33).

*18. Nella traduzione tedesca del 1885: la costituzione (del valore).

15. Da Voltaire, Histoire du Parlement de Paris, cap. LX: "Finances et système de Law pendant la régence" (in Oeuvres complètes de Voltaire, Gotha, 1785, v. XXVI, p. 279).

*19. Nella traduzione tedesca del 1885: lira tornese (peso di Carlo Magno).

16. Lira tornese: moneta coniata a Tours, che pesava un quarto meno della lira coniata a Parigi (nel 1796 la lira sarà sostituita dal franco).

*20. Nella traduzione tedesca del 1885: ogni merce (in ogni momento).

*21. Nella traduzione tedesca del 1885: scambiabili (in ogni momento).

*22. Nella traduzione tedesca del 1885: moneta (segno di valore).

17. Si tratta di parte di una nota di Say al testo di Ricardo (v. II, pp. 206-207 della traduzione francese del 1835 citata da Marx).

18. imbroglio: in italiano nel testo.

19. La citazione, che si trova tra gli estratti di Marx, è tratta dalla II edizione ampliata dell'opera di Cooper (cfr. sopra).

*23. il tempo è denaro.

 


Ultima modifica 9.10.2000