Dazio protettivo e libero scambio (1888)


Prefazione alla edizione statunitense del 1888 del "Discorso sul libero scambio" di Karl Marx. Tradotta da Filippo Turati e pubblicata in: Discorso sul libero scambio di Carlo Marx con un Proemio di Federico Engels, Uffici della Critica Sociale, Milano, 1894, pp.3-21. Trascritto da Leonardo M. Battisti, Novembre 2017


Proemio1

Verso la fine del 1847 veniva convocato a Bruxelles un Congresso di libero-scambisti. Era una manifestazione di quella campagna per il libero scambio che si faceva allora dagli industriali inglesi. Vittoriosi in patria per la revoca della legge sui cereali nel 1846, essi passavano sul continente chiedendovi il libero accesso dei prodotti delle manifatture inglesi, in cambio del varco aperto in Inghilterra ai cereali del continente. A quel Congresso Marx si era inscritto fra gli oratori ma, come era da attendersi, le cose vennero condotte per guisa che il Congresso si chiudesse prima del suo turno. Così quel che aveva da dire, dovette esporlo invece all'Associazione democratica internazionale di Bruxelles, di cui era fra i vicepresidenti.

Essendo oggi la questione del libero scambio e del protezionismo all'ordine del giorno, si credette utile pubblicare una versione del discorso di Marx, e me ne è chiesto un proemio.

«Il sistema protezionista, dice Marx2, fu un mezzo artificiale per fabbricare industriali, per espropriare i lavoratori indipendenti, per capitalizzare gli strumenti nazionali di produzione e di sussistenza e per abbreviare colla forza il passaggio dalla forma medievale di produzione alla odierna.» Tale fu il protezionismo al suo sorgere nel secolo XVII e tale è rimasto ben innanzi nel XIX. Esso venne elevato a regola di ogni Stato civile nell'occidente d'Europa. Sole eccezioni i piccoli Stati della Germania e la Svizzera — non perché dissentissero, ma per la impossibilità di applicare il sistema nei loro minuscoli territori.

Fu sotto le materne ali del protezionismo che la moderna industria meccanica, a base di vapore, sorse in Inghilterra e si sviluppò durante gli ultimi trent'anni del secolo XVIII. E, quasi la protezione delle tariffe non bastasse, le guerre contro la Rivoluzione francese contribuirono ad assicurare all'Inghilterra il monopolio dei nuovi sistemi industriali. Per più di vent'anni, vascelli da guerra inglesi tennero lontano i produttori rivali dell'Inghilterra dai rispettivi mercati nelle colonie, aprendoli a forza al commercio inglese. La secessione delle colonie sud-americane dall'egemonia delle madri patrie europee, la conquista inglese di tutte le principali colonie francesi ed olandesi, l'assoggettamento progressivo dell'India, trasformarono gli abitanti di quegli immensi territori in consumatori di prodotti inglesi. L'Inghilterra così associava il protezionismo all'interno col libero scambio imposto ai consumatori dell'estero; e, grazie a questo felice connubio dei due sistemi, finite nel 1815 le guerre, essa ebbe virtualmente conquistato il monopolio del commercio mondiale per tutte le industrie più importanti.

Questo suo monopolio si estese e rafforzò nei successivi anni di pace. Il suo slancio era aumentato di anno in anno. I possibili rivali erano lasciati sempre più addietro. Ormai la sempre crescente esportazione di manifatture divenne per l'Inghilterra una vera questione di vita o di morte. Due soli ostacoli aveva di fronte: le leggi proibitive o protettive di altri paesi e le imposte gravanti la importazione delle materie gregge e dei generi alimentari in Inghilterra.

Allora divennero popolari nella patria di John Bull le dottrine libero-scambiste della economia politica classica — dei fisiocratici francesi e dei loro successori d'Inghilterra, Adamo Smith e Ricardo. Il protezionismo in paese tornava inutile a industriali che vincevano tutti i loro rivali dell'estero e la cui esistenza stessa dipendeva dall'espandersi della loro esportazione. Il protezionismo non giovava che ai produttori di generi alimentari e di materie gregge, agli interessi agricoli, ossia, data l'Inghilterra d'allora, ai percettori di rendita, all'aristocrazia fondiaria. E questa specie di protezionismo era perniciosa agli industriali. Gravando d'imposte le materie prime si aumentava il prezzo dei prodotti manufatti, imponendo i generi alimentari si elevava il Prezzo della mano d'opera; e in ambo i casi l'industriale inglese soffriva uno svantaggio di fronte al suo competitore dell'estero. E siccome tutti gli altri paesi mandavano in Inghilterra principalmente prodotti agricoli, e prendevano dall'Inghilterra prodotti industriali, abolire i dazi protettori inglesi sui cereali e sulle materie prime era nello stesso tempo un far appello agli altri paesi perché togliessero, o almeno riducessero, in compenso, i dazi d'importazione sui prodotti industriali.

Dopo una lunga e violenta lotta, i capitalisti dell'industria che erano già in Inghilterra la classe dirigente e prevalente, riuscirono vincitori. L'aristocrazia fondiaria piegò. I dazi sui cereali ed altre materie prime vennero soppressi. Il libero scambio divenne la parola d'ordine del giorno. Convertire tutti gli altri paesi al libero scambio, e cosi creare un mondo nel quale l'Inghilterra fosse il gran centro manifatturiero e gli altri paesi ne fossero dipendenze agricole: ecco il nuovo problema per gli industriali inglesi o pei loro interpreti, gli economisti.

Fu questa l'epoca del Congresso di Bruxelles e del discorso di Marx. Pur riconoscendo che il protezionismo può, in date circostanze (per esempio nella Germania del 1847), vantaggiare gli industriali, e che il libero scambio non è la panacea dei mali dei lavoratori o può anzi aggravarli; Marx si pronuncia per principio ed in conclusione in favore del libero scambio.

Per lui il libero scambio è la condizione normale della odierna produzione capitalistica. Solo con esso ha pieno sfogo l'immensa energia produttiva del vapore, dell'elettricità, delle macchine, al cui più rapido sviluppo si accompagnano, conseguenze inevitabili: lo scindersi della società in due classi, capitalisti e salariati; ricchezza ereditaria ed ereditaria povertà; l'eccesso di produzione in rapporto al bisogno dei mercati; la assidua vicenda di prosperità, sovrabbondanza, crisi, panico, depressione cronica, indi graduale ma effimero rialzarsi del commercio, per metter capo di nuovo alla crisi di sovraproduzione; in breve, l'espandersi delle forze produttive fino a ribellarsi alle catene di quegli stessi istituti sociali onde ricevettero l'impulso: unica soluzione una rivoluzione sociale, liberatrice delle forze produttive dalle pastoie di un ordine sociale antiquato, liberatrice dei produttori attuali, la grande maggioranza della popolazione, dalla schiavitù del salario. E poiché il libero scambio è l'atmosfera naturale per questa evoluzione storica, l'ambiente economico ad essa più propizio — per ciò, e soltanto per ciò, Marx si dichiarò in favore del libero scambio.

Ad ogni modo gli anni immediatamente successivi al trionfo del libero scambio in Inghilterra sembrarono cresimare le previsioni dei suoi più ottimisti fautori.

Il commercio inglese toccò cifre favolose, il monopolio dell'industria inglese sul mercato mondiale sembrò più che mai consolidato, spuntarono a centinaia ferriere e tessiture, dappertutto nuove industrie allignarono. Una seria crisi scoppiò nel 1857, ma fu superata, e il progresso dell'industria e del commercio si riaccelerò tino al nuovo panico del 1866, un panico destinato pare, a far epoca nella storia economica del mondo.

L'espansione senza esempio della industria e del commercio inglese fra il 1848 ed il 1866 era dovuta principalmente all'abolizione dei dazi di protezione sui generi alimentari e sulle materie prime. Ma non solo a questo. Altri gravi fenomeni concorsero. Fu in quel torno la scoperta e l'esercizio dei campi d'oro d'Australia e di California, che moltiplicarono il numerario; il trionfo del vapore come mezzo di trasporto, dei piroscafi n sui velieri, delle ferrovie sulle strade comuni fece i trasporti quattro volte più rapidi e quattro volte meno costosi. Qual maraviglia che, in condizioni così favorevoli, le fabbriche inglesi animate dal vapore si estendessero a spese delle industrie casalinghe straniere fondate sul lavoro a mano? Ma potevan le altre nazioni starsene chete a una riforma che le umiliava a semplici appendici agricole dell'Inghilterra, «l'officina del mondo»?

Non potevano. La Francia da quasi due secoli riparava le sue manifatture dietro una vera muraglia dona China di protezionismo e proibizionismo od aveva raggiunto in tutti gli articoli di lusso o di gusto una supremazia che l'Inghilterra non pretendeva neppure di disputarle. La Svizzera, sotto un regime di perfetto libero scambio, possedeva manifatture relativamente importanti cui la concorrenza inglese non poteva toccare. La Germania, con una tariffa assai più liberalo di quella di ogni altro grande paese del continente, andava sviluppando i propri opifici con una celerità relativamente ancora maggiore dell'Inghilterra. E l'America, ridotta dalla guerra civile del 1861 alle sole proprie risorse, doleva far fronte ad un subitaneo bisogno di manifatture d'ogni specie, né il poteva se non creando opifici propri nel paese. I bisogni sorti colla guerra, colla guerra cessarono; ma i nuovi opifici rimasero e dovettero la concorrenza britannica. Inoltre la guerra aveva maturato in America il pensiero che una popolazione di 35 milioni, raddoppiante in quarant'anni al più, ricchissima di risorse e attorniata da vicini quasi unicamente agricoltori, era «manifestamente destinata» a diventare indipendente, sì in pace che in guerra, dall'industria straniera per i principali suoi consumi. Ed allora l'America diventò protezionista.

Saranno ora quindici anni, io viaggiai in ferrovia con un avveduto commerciante (credo in ferro) di Glasgow, che, parlando dell'America, mi ammanniva i vecchi ritornelli libero-scambisti: «Non era egli assurdo che negoziatori scaltri, come gli americani, si addossassero tributi per arricchire industriali e padroni di ferriere indigeni, mentre qui da noi trovavano la stessa od anche una miglior merce a tanto minor prezzo?» E citava esempi, calcolando le cifre dello sperpero.

«Credo» — risposi — «che la questione abbia un altro lato. Sapete che in carboni, forze idrauliche, minerali d'ogni genere, alimenti a buon mercato, cotoni indigeni ed altre materie prime, l'America ha risorse che nessun paese d'Europa eguaglia; e che non possono svolgersi appieno finché l'America non diventi paese industriale. Ammetterete anche, che oggi una così grande nazione non saprebbe essere esclusivamente agricola; ciò equivarrebbe a murarsi nella inferiorità e nella barbarie; nessuna grande nazione può vivere oggi senza opifici propri. Ora, se l'America deve diventare nazione industriale, e tutto fa credere che essa non solo vi riesca, ma possa scavalcare i suoi rivali, non ha che due vie; o continuare, poniamo per cinquant'anni, col libero scambio una costosissima guerra di concorrenza contro opifici inglesi che hanno circa un secolo di vantaggio, oppure escludere mercé dazi protettivi le manifatture inglesi, poniamo per venticinque anni, colla certezza quasi assoluta che alla fine dei venticinque anni essa potrà reggersi nel mercato aperto del mondo. Quale delle due vie sarà meno lunga e meno costosa? Ecco il quesito. Se partite da Glasgow per Londra potete prendere il treno omnibus a due soldi per miglio o percorrere dodici miglia all'ora. Ma voi, no: il vostro tempo ha troppo valore e voi prendete il diretto, pagate quattro soldi per miglio e ne fate quaranta all'ora. Benissimo; gli americani preferiscono pagare la tariffa del diretto e andare colla velocità del diretto.» Il mio scozzese libero scambista non ribatté verbo.

Il protezionismo, essendo un sistema artificiale per fabbricare industriali, può dunque sembrar utile non solo ad una classe capitalista tuttora in via di sviluppo ed in lotta col feudalismo, ma eziandio alla classe capitalista nascente d'un paese che, come l'America, non ha mai conosciuto il feudalismo ma che tocca quella fase di evoluzione che impone il passaggio dalla agricoltura alla industria. L'America, in queste condizioni, si decise per il protezionismo. Da quel giorno i venticinque anni, di cui io parlavo col mio compagno di viaggio, sono supergiù trascorsi e, se io non calcolavo male, il protezio-nismo dovrebbe ormai aver fatto il suo ufficio a pro dell'America e starebbe ora per divenirle un imbarazzo.

Da qualche tempo questa è la mia opinione. Circa due anni fa dicevo ad un americano protezionista: «Sono convinto che, se l'America inaugura il libero scambio, fra dieci anni avrà battuto l'Inghilterra sul mercato mondiale.»

Il protezionismo è, nella migliore ipotesi, una vite senza fine, e non si sa mai quando sbarazzarsene. Proteggendo un'industria, direttamente o indirettamente danneggiate tutte le altre e quindi dovrete proteggere anche queste. Ma in tal modo danneggiate a sua volta l'industria che avete protetta per la prima e siete tenuti a compensarla: ma questo compenso reagisce come prima su tutti gli altri commerci, onde spetta a questi un compenso, e cosi via all'infinito. L'America sotto questo riguardo ci offre un esempio appropriatissimo del miglior modo di uccidere un'industria importante col protezionismo. Nel 1856 il totale delle importazioni e delle esportazioni per mare degli Stati Uniti ammon-tava a 641.604.850 dollari; di questa somma, il 75,2 per cento venne trasportati su navi americane e solamente il 24,8 per cento su navi forestiere. Già, i piroscafi inglesi vincevano i velieri americani; tuttavia, nel 1860, di un traffico marittimo in totale di 762.288.550 dollari, ancora il 66,5 per cento si esercitava da navi americane.

Sopraggiunta la guerra civile e introdotto il protezionismo per le costruzioni navali americane, ne segui la quasi completa scomparsa della bandiera americana, dai mari. Nel 1887 il commercio marittimo degli Stati Uniti ammontava nel suo insieme a 1.408.502.979 dollari, ma di questa cifra il solo 13.80 per cento veniva effettuato con navi americane, e 1'86,20 per cento con legni d'altre nazioni. Le merci trasportate da battelli americani sommavano, nel 1856, a dollari 482.268.274; nel 1860 a dollari 507.247.757. Nel 1887 si scese a 194.356.746 dollari.3Quarant'anni fa la bandiera americana sfidava sugli oceani la bandiera inglese; ora non la si vede in nessun luogo. La protezione ai cantieri uccise navi e costruttori.

Altro punto. I perfezionamenti nei metodi di produzione si seguono oggi così rapidi e rivoluzionano per modo le industrie, che quella che era ieri una ben calcolata tariffa protezionista, oggi non lo è più. Prendiamo un altro esempio dalla Relazione del segretario del Tesoro americano per il 1887:

«I perfezionamenti di questi ultimi anni nelle macchine per la lavorazione delle lane mutarono talmente il genere dei così detti tessuti pettinati, che questi ultimi hanno largamente sostituito i tessuti lisci (cheviots) per la confezione di vestiti da uomo. Questo mutamento.... danneggiò moltissimo le nostre manifatture nazionali di tessuti pettinati, perché il dazio sulla lana che essi impiegano è identico a quello sulla lana adoperata pei tessuti lisci; ora, mentre il dazio imposto a questi ultimi, commisurato a un prezzo non superiore a 80 soldi4 per libbra, è di 35 soldi per libbra e del 35 per cento ad valorem, il dazio sui tessuti pettinati sempre commisurato ad un prezzo non superiore agli 80 soldi per libbra, è di 10 a 24 soldi per libbra, più il 35 per cento ad valorem. In alcuni casi il dazio sulla lana che si impiega nei tessuti pettinati eccede il dazio imposto sull'articolo finito.» Cosicché ciò che ieri era una protezione per l'industria nazionale, si risolve oggi in un premio per l'importatore estero; e dà modo al segretario del Tesoro di dire: «V'è ragione di credere che la manifattura dei tessuti pettinati dovrà presto cessare in questo paese se non sarà emendata la tariffa» (pag. XIX). Ma per correggerla, voi avrete da combattere i fabbricanti di tessuti lisci, cui giova questo stato di cose; voi dovrete iniziare una campagna regolare per convertire alle idee vostre la maggioranza di entrambe le Camere, ed eventualmente anche la pubblica opinione: ne varrà la pena?

Ma il peggio del protezionismo è che, una volta introdotto, non vi è facile sbarazzarvene. Se un'equa tariffa è difficile da combinare, il ritorno al libero scambio è immensamente più difficile. Le circostanze, che all'Inghilterra permisero il cambiamento in pochi anni, non si rinnoveranno. E anche là la lotta, cominciala dal 1823 (Huskisson), non incontrò qualche successo che nel 1842 (tariffe di Peel) e continuò per anni dopo abolito il dazio sui cereali. Cosi la protezione dei prodotti serici (i soli che temessero ancora la concorrenza estera) venne prolungata per una serie di anni o con modi veramente indegni; mentre le altre industrie tessili subirono il Factory Act, che limitava le ore di lavoro per le donne, per i giovani e per i ragazzi, la industria della seta venne favorita con rilevanti privilegi, autorizzandola all'impiego di teneri fanciulli e per più ore che nelle altre industrie tessili. Il monopolio, che gli ipocriti libero-scambisti abolivano rispetto ai concorrenti dell'estero, lo ricostituivano a spese della salute e della vita di fanciulli inglesi.

Ma nessun paese potrà attendere, per tornare al libero scambio, il tempo felice in cui tutte o quasi le sue industrie sfideranno la concorrenza estera in mercato aperto. La necessità del cambiamento si farà sentire assai prima, or in questo or in quel commercio, e dal conflitto dei rispettivi interessi sorgeranno le più edificanti contese, i peggiori intrighi di camorre e le più scandalose cospirazioni parlamentari. Il meccanico, l'armatore, ecc., troveranno che la protezione consentita al padrone di ferriere eleva il prezzo delle sue merci a tal punto da impedirne l'esportazione; il fabbricante di tessuti di cotone saprebbe escludere i tessuti inglesi dai mercati chinesi ed indiani se non fosse l'alto prezzo che egli deve pagare il filo, stante la protezione accordata ai filatori; e così via. Nell'istante in cui un'industria nazionale ha compiuta la conquista del mercato interno, allora l'esportazione le diviene indispensabile. In capitalismo un'industria o si espande o è condannata a sparire. Un commercio non può restare stazionario: un arresto di sviluppo è il principio della sua rovina: il progresso delle invenzioni meccaniche e chimiche, surrogando sempre più il lavoro dell'uomo e sempre più rapidamente accrescendo ed accentrando il capitale, crea in ogni industria stagnante un ingorgo così di lavoratori come di capitali, ingorgo che non trova sbocco perché lo stesso fenomeno comune a tutte le altre industrie. Così il passaggio da un commercio interno ad un commercio d'esportazione diventa una questione di vita o di morte per le industrie che vi sono interessate; ma esse urtano nei diritti acquisiti, negli interessi degli altri, che trovano ancora nel protezionismo più sicurezza o profitto che nel libero scambio. Ne segue una lotta lunga e tenace fra libero-scambisti e protezionisti, della quale si impadroniscono i politicanti di mestiere, che muovono i fili dei tradizionali partiti politici e il cui interesse non è che il conflitto si risolva, ma anzi è che perduri; e il risultato dl tale sperpero immenso di tempo, di energia e di quattrini è una serie di transazioni, ora favorevoli all'una, ora all'altra parte e tendenti con moto altrettanto lento quanto poco maestoso verso il libero scambio — salvo che il protezionismo, nel frattempo, si renda affatto insopportabile alla nazione, come è appunto probabile stia per accadere in America.

V'è poi un altro genere di protezionismo, il peggiore di tutti, e lo troviamo in Germania. Anche la Germania cominciò a sentire, tosto dopo il 1815, la necessità di un più rapido sviluppo delle sue industrie. Ma la prima condizione ne era la creazione d'un mercato indigeno mercé l'abolizione delle frontiere interne e della disparata legislazione doganale di quei piccoli Stati, ossia la formazione d'una Unione doganale tedesca o Zollverein. Questo presupponeva una tariffa liberista, intesa piuttosto ad accrescere il reddito comune che a proteggere la produzione paesana. Solo questa condizione poteva indurre questi piccoli Stati ad unirsi. Così la nuova tariffa germanica, benché leggermente protezionista per talune industrie, fu per quel tempo un modello di legislazione libero-scambista, e rimase tale, quantunque, già dopo il 1830, la maggioranza degli industriali tedeschi continuasse a reclamare il protezionismo. Ancora, sotto questa tariffa liberalissima, e sebbene le industrie domestiche tedesche fondate sul lavoro manuale fossero spietatamente schiacciate dalla concorrenza delle fabbriche inglesi a vapore, il trapasso dal lavoro manuale alla macchina avvenne gradatamente anche in Germania ed è ora quasi compiuto; la trasformazione della Germania da paese agricolo in paese industriale procedette di pari passo, aiutata, dal 1866, da favorevoli eventi politici: cioè lo stabilirsi di un forte governo centrale e d'un parlamento federale, assicuranti una legislazione uniforme sul commercio, la circolazione, i pesi e le misure; e, da ultimo, l'inondazione dei miliardi francesi. Così, intorno al 1874, il commercio tedesco sul mercato del mondo si schierava accanto a quello della Gran Bretagna5 e la Germania impiegava più macchine a vapore nell'industria e nella locomozione che qualunque altro paese del continente. Fu così dimostrato che anche oggi, a dispetto dell'enorme slancio dell'industria inglese, un grande paese può competere con successo, in mercato aperto, coll'Inghilterra.

Si ebbe allora un cambiamento a vista: la Germania ridivenne protezionista nel momento in cui Il libero scambio appariva per essa più che mai necessario, mutamento assurdo, ma spiegabile. Finché la Germania era esportatrice di grano, tutti i suoi interessi agricoli, non meno che l'interesse generale del commercio marittimo, le imponevano il libero scambio, Ma nel 1874, in luogo di esportare, la Germania requisiva all'estero grandi provviste di grano. In quel torno l'America incominciava ad inondare l'Europa con enormi provviste di grano a buon mercato: dovunque esse arrivavano, scemava il reddito in denaro della terra e quindi la rendita; e da quel momento gli interessi di tutta la restante Europa incominciarono a invocare il protezionismo. Nello stesso tempo gli industriali tedeschi soffrivano per gli effetti del traffico eccessivo prodotto dall'influenza dei miliardi francesi, mentre l'Inghilterra, il cui commercio fin dalla crisi del 1866 era continuamente depresso, innondava tutti i mercati accessibili con prodotti non smerciabili in patria e li offriva fuori a prezzi ruinosamente bassi. Così avvenne che le in-dustrie tedesche, benché dipendenti sopratutto dalla esportazione, incominciarono a ravvisare nel protezionismo il modo di assicurare a sé stesse la fornitura esclusiva del mercato interno. E il Governo, tutto in mano della aristocrazia fondiaria e dei signorotti, fu arcilieto di profittare di tali circostante a loro vantaggio, offrendo dazi protettivi tanto ai signori della terra quanto agli industriali. Nel l878 un'elevata tariffa protezionista fu introdotta, sì per i prodotti agricoli che per quelli dell'industria.

D'allora in poi l'esportazione degl'industriali tedeschi fu mantenuta direttamente a spese dei consumatori del paese. Dovunque fu possibile sì formarono sindacati (rings o trusts) per regolare il commercio di esportazione e financo la produzione. Il commercio tedesco del ferro è in mano di poche grandi case, la più parte compagnie per azioni, le quali insieme possono produrre circa il quadruplo del consumo medio del paese. Per evitare una inutile concorrenza reciproca, queste ditte formarono un sindacato, che divide fra di loro tutti i contratti coll'estero, e determina caso per caso a quale ditta spetti fare l'offerta effettiva. Questo trust alcuni anni fa aveva stretto persino un concordato coi padroni di ferriere inglesi, concordato oggi rescisso. Così pure le miniere di carbone di Westfalia (che producono circa 37 milioni di tonnellate all'anno) avevano formato un sindacato per regolare la produzione, designare gli offerenti per i contratti, fissare i prezzi. Insomma qualunque industriale tedesco potrà dirvi che l'unico vantaggio che gli portano i dazi protettivi è che essi gli permettono di rifarsi sul mercato interno dei prezzi rovinosi ch'egli deve accettare all'estero. E questo non è tutto. L'assurdo sistema di proteggere gli industriali non è che l'offa gettata ai capitalisti dell'industria per indurli a sorreggere un monopolio ancora più iniquo accordato agli interessi fondiari. Non solo ogni produzione industriale viene assoggettata a gravi dazi d'importazione e questi vengono accresciuti ogni anno, ma industrie rurali, condotte sopra latifondi per conto del proprietario, vengono letteralmente premiate coi denari del pubblico. La fabbricazione dello zucchero di barbabietola non è solo protetta, ma riceve somme enormi sotto forma di premi d'esportazione. Persone competenti pensano che, se anche tutto lo zucchero esportato venisse buttato a mare, il fabbricante avrebbe ugualmente un profitto per i soli premi del Governo. Così pure le distillerie d'alcool dí patata ricevono, in conseguenza dí leggi recenti, una regalia, levata dalle tasche del pubblico, di circa 50 milioni di lire all'anno. E siccome quasi ogni grande proprietario nel nord-est della Germania è o un fabbricante dí zucchero di barbabietola o un distillatore d'alcool di patata, o l'uno e l'altro insieme, qual maraviglia che il mondo sia letteralmente inondato dalle loro produzioni?

Questa politica, rovinosa in qualunque circostanza, lo è doppiamente in un paese dove le fabbriche mantengono la loro posizione sui mercati neutri sopratutto mediante il buon mercato della mano d'opera. I salari in termini, mantenuti, nel miglior caso, al minimum delle sussistenze, dalla sovrabbondanza della popolazione (la quale cresce rapidamente malgrado l'emigra. zione), devono crescere in conseguenza del rincaro di tutti i generi di prima necessità causato dal protezionismo: l'industriale tedesco allora non potrà più, come può oggi, troppo spesso conservare i prezzi rovinosi dei suoi articoli con una diminuzione dei suoi salari normali, e verrà così vinto sul mercato. Il protezionismo in Germania sta uccidendo la gallina dalle uova d'oro.

Degli effetti del protezionismo soffro anche la Francia. Qui il protezionismo, dominandovi da due secoli, è divenuto sangue della vita della nazione. Non di meno esso va diventando sempre più un imbarazzo. Mutamenti continui nei metodi di produzione sono all'ordine del giorno, ma il protezionismo sbarra la via. Si fanno oggi velluti di seta col rovescio di filo di cotone fino. Questo filo si fabbrica in Inghilterra assai più a buon mercato che in Francia. Il fabbricante francese deve dunque o pagare l'elevatissimo dritto d'entrata di questo filo, oppure, se vuole ottenerne il rimborso all'atto della esportazione del suo velluto, sottomettersi a cosi interminabili vessazioni burocratiche che assolutamente non ci ha più il tornaconto; e così il commercio del velluto migra da Lione a Crefeld, dove il prezzo di protezione per il filo di cotone fino è sensibilmente più basso. Come già dicemmo, l'esportazione francese consiste specialmente in articoli di lusso, nei quali il buon gusto francese ha tuttora il primato; ma, i consumatori più importanti di questi articoli sono, in tutto il mondo, le nostre moderne intraprese capitaliste, le quali non hanno né educazione né buon gusto, e cui soddisfano altrettanto bene le grossolane imitazioni tedesche e inglesi a buon mercato; anzi spesso queste vengono fornite loro per articoli francesi genuini a prezzi più che fantastici. Per quelle specialità che non si possono fabbricare fuori di Francia il mercato si restringe ogni di più, l'esportazione di manifatture francesi a mala pena si sostiene e presto dovrà declinare; con quali nuovi articoli potrà la Francia surrogare quelli la cui esportazione va cessando? Se qualche cosa può venirle in aiuto è un'ardita introduzione del libero scambio che tolga l'industriale francese alla sua atmosfera di serra calda e lo risospinga nell'aria libera della concorrenza coi rivali stranieri. Certo il commercio francese, nel suo complesso, avrebbe già da tempo incominciato ad intisichire se non era il breve e timido passo verso il libero scambio fatto dal trattato di Cobden del 1860; ma questo ha oramai esaurita la sua azione e v'è bisogno di una dose più forte dello stesso tonico.

Mette appena conto di parlare della Russia. Ivi la tariffa protettiva — poiché i dazi si devono pagare in oro e non nella deprezzata valuta cartacea del paese — serve sopratutto a fornire a quel misero governo la moneta effettiva indispensabile per le transazioni coi creditori stranieri; se un giorno quella tariffa adempisse veramente alla sua missione protettiva coll'escludere affatto le merci estere, quel medesimo giorno il governo russo fallirebbe. Eppure quello stesso governo va divertendo i suoi sudditi col far balenar loro la prospettiva di rendere la Russia, con quella tariffa, un paese del tutto indipendente, non tributario all'estero né di generi alimentari, né di materie, prime né di manifatture, né di opere d'arte. Quei che han fede in questo miraggio di un impero russo isolato dal resto del mondo possono andare a braccetto con quel patriottico luogotenente prussiano, che in una bottega domandava, non un globo terraqueo o celeste, ma un globo di Prussia.

Torniamo all'America. Vi hanno molti sintomi secondo i quali il protezionismo avrebbe ormai esaurita la propria azione a pro degli Stati Uniti e, quanto più presto riceverà il suo congedo, sarà meglio per tutti. Uno di questi sintomi è la formazione di rings e di trusts nel seno delle industrie protette, miranti a sfruttare più profondamente il loro monopolio. Ora, rings e trusts sono in verità instituzioni americane, e là dove esse sfruttano ricchezze naturali essi vengono generalmente, sebbene di mala voglia, sopportati. La trasformazione dei pozzi di petrolio di Pensilvania in un monopolio mediante la Standard Oil Company è un fenomeno affatto consono alle regole della produzione capitalista. Ma se i raffinatori di zucchero tentano di trasformare la protezione, che il paese loro accorda. contro la concorrenza straniera, in un monopolio contro il consumatore indigeno, cioè contro quella stessa, nazione che ha accordata la protezione, allora la cosa, muta aspetto. Eppure i grandi raffinatori hanno firmato un trust che mira appunto a questo. E il sindacato dello zucchero non è il solo. Ora, il formarsi di tali trusts entro industrie protette è il segno più securo che il protezionismo ha compiuta l'opera sua ed ora va mutando carattere; che esso non protegge più l'industriale contro l'importatore, ma lo protegge contro il consumatore del paese; che il protezionismo ha fabbricato, almeno in quel dato ramo speciale, un numero bastante, se non eccessivo, d'industriali; che il danaro da esso accumulato nella loro borsa è denaro sprecato; proprio come in Germania.

In America, come altrove, il protezionismo è sostenuto dall'argomento che il libero scambio gioverebbe soltanto all'Inghilterra. La miglior prova del contrario è che in Inghilterra, non solamente gli agricoltori ed i proprietari fondiari, ma persino gli industriali vanno diventando protezionisti. Nella patria della «scuola di Manchester», il 1.° novembre 1886, la Camera di commercio di Manchester discuteva una proposta nella quale era detto «che, avendo atteso invano per quarant'anni che le altre nazioni seguissero l'esempio libero scambista dell'Inghilterra, la Camera crede venuto il tempo di riesaminare quella situazione»; e la proposta era respinta, ma con soli 22 voti contro 21! E questo nel centro della industria del cotone, l'unica industria inglese la cui supremazia sul mercato aperto sembri ancora indisputata! Ma bisogna dire che persino in quel ramo speciale il genio inventivo è passato dall'Inghilterra all'America. I recentissimi perfezionamenti nelle macchine per filare e tessere il cotone vennero quasi tutti dall'America e Manchester li ha adottati. Nelle invenzioni industriali d'ogni specie, l'America ha chiaramente preso il disopra, mentre la Germania incalza alle reni l'Inghilterra. Questa si va persuadendo che il suo monopolio industriale è irremissibilmente perduto, che essa perde terreno ogni giorno di fronte ai progressi dei suoi competitori, che dovrà ormai contentarsi di essere una fra le tante nazioni industriali, e non più, come aveva sognato, «l'officina del mondo».

È per sottrarsi a questo fato minaccioso che uomini, che, or sono quarant'anni, non vedevano salute che nel libero scambio, oggi invocano con fervore il protezionismo pur tentando mascherarlo coi nomi di «commercio leale» e di reciprocità di tariffe. E quando gli industriali inglesi incominciano ad accorgersi che il libero scambio li rovina e domandano al governo d'essere protetti contro i concorrenti dell'estero, allora è venuto sicuramente il momento per questi rivali di rendere la pariglia buttando a mare un sistema protezionista d'ora innanzi inutile e di combattere il cadente monopolio industriale dell'Inghilterra con la sua propria arma, il libero scambio.

Ma, come già dissi, voi potete facilmente introdurre il protezionismo, ma non potete sbarazzarvene con pari facilità. L'assemblea legislativa adottando misure protezioniste ha fatto sorgere grandi interessi, dei quali deve rispondere. E nessuno di questi interessi — i vari rami dell'industria — è egualmente preparato, in un dato momento, a fare fronte ad una aperta concorrenza. Alcuni si troveranno in arretrato, mentre altri non hanno più bisogno della terapia protezionista. Questa differenza di condizione farà sorgere le solite congiure di anticamera, ed è per sé stessa una sicura garanzia che le industrie protette, se il libero scambio venga adottato, verranno abbandonate davvero molto facilmente, come accadde all'industria della seta in Inghilterra dopo il 1846. È questa una cosa inevitabile nelle attuali condizioni ed il partito libero-scambista dovrà sottomettervisi finché il mutamento venga adottato per principio.

La questione del libero scambio e del protezionismo si agita interamente nella cerchia del sistema presente di produzione capitalista e non ha quindi interesse diretto per noi socialisti che vogliamo farla finita con tale sistema. Indirettamente tuttavia essa ci interessa, in quanto noi dobbiamo desiderare che il presente sistema di produzione si svolga e si espanda liberamente e rapidamente quanto è possibile; poiché insieme con esso si svilupperanno anche quei fenomeni economici che ne sono le necessarie conseguenze e che dovranno distruggere l'intero sistema: miseria della gran massa dovuta alla sovraproduzione; dalla sovraproduzione periodici ingorghi e crisi industriali e commerciali, accompagnate da panico, ovvero un ristagno commerciale cronico; divisione della società in una esigua classe di grandi capitalisti e in un'altra vasta classe condannata alla schiavitù del salario, schiavitù praticamente ereditaria; un proletariato che, mentre cresce di continuo, nello stesso tempo costantemente sostituito da macchine economizzatrici di lavoro; in breve una società sospinta in un cul di sacco senza uscita, se non se ne rimodelli tutta la struttura economica fondamentale.

Fu da questo punto di vista che, quarant'anni fa, Marx si pronunciò in massima a favore del libero scambio, come il sistema più progressivo, come quello che spingerà più presto nel cul di sacco la società capitalista. Ma se fu per questo che Marx si pronunciò pel libero scambio quale misura rivoluzionaria, non dovrebbero dunque i sostenitori dell'ordine presente, i cittadini ben pensanti, dichiararsi pel protezionismo?

Se un paese oggi accetta il libero scambio non lo fa certo per compiacere i socialisti. Lo fa perché il libero scambio è diventato una necessità per i capitalisti delle sue industrie. Ma, quando pure adottasse il protezionismo onde eludere la catastrofe sociale attesa dai socialisti, farebbe pur sempre opera vana.

Il protezionismo, essendo una fabbrica artificiale di industriali, lo è anche di salariati. Quelli suppongono questi. Il salariato segue dovunque le orme dell'industriale; e somiglia al triste affanno d'Orazio che è seduto in groppa col cavaliere e che quest'ultimo non può levarsi d'accanto dovunque egli vada. Non ci è possibile sottrarci al destino; in altre parole non possiamo sottrarci alle conseguenze necessarie delle nostre proprie azioni. Un sistema di produzione, fondato sullo sfruttamento dei salariati ed in cui la ricchezza cresce in proporzione del numero di braccia impiegate e sfruttate, non può che accrescere la classe dei salariati, la classe cioè destinata a distruggere un giorno il sistema medesimo. Nel frattempo non v'è che fare: è necessità che voi continuiate a sviluppare il sistema capitalista, che voi acceleriate la produzione, l'accumulazione e l'accentrazione della ricchezza capitalistica ed insieme con ciò la formazione di una classe rivoluzionaria di lavoratori. Che voi vi gettiate nelle braccia del protezionismo o del libero scambio, ciò non produce in definitiva alcuna differenza, e ben poca nella lunghezza dell'intervallo che vi separa dal giorno della fine. Poiché assai prima di tal giorno il protezionismo sarà diventato una pastoia insopportabile a qualunque paese che aspiri, con qualche probabilità di successo, a tenere il suo posto nel mercato mondiale.

FEDERICO ENGELS.   

Note

1. In questo momento in cui gli agrari rialzano la testa nel parlamento italiano, e già ottennero di viepiù rincarire con l'inasprimento dei dazi di frontiera il pane del povero — e mentre si va novellando di non sappiamo che strane parentele che dovrebbero esistere fra questo sistema di spoliazione e la dottrina socialista; crediamo utile riprodurre dalla Critica Sociale, insieme al «discorso sul libero scambio» pronunciato da Marx fin dal 9 gennaio 1848 alla Associazione democratica di Bruxelles, anche questo proemio col quale Federico Engels accompagnò l'edizione inglese del discorso, uscita in Boston nell'89. — Il testo originario francese del discorso di Marx è oggi irreperibile in commercio; ne esistono bensì, oltre la accennata edizione inglese di Boston, una versione tedesca in appendice al Das Elend der Philosophie dello stesso Marx (Stuttgart, Dietz, 1892) e una traduzione russa di Giorgio Plekanow. In questa riedizione in opuscolo abbiamo curato una più scrupolosa fedeltà della traduzione, la quale nella Critica sociale era riuscita in qualche punto troppo succinta, così da somigliare a un riassunto. (Nota della CRITICA).

2. KARL MARX, Le Capital. Chap. XXXI: ediz. francese, Paris Lachâtre, pag. 338. — Ediz. italiana, Torino, Unione Tipografico-editrice, pag. 661.

3. Annual Report or the Secretary of the Treasury, etc., for the year 1887. - Washington, 1887, pag. 18 e 19.

4. Nel testo cents. Il cent è un centesimo di dollaro, pari a 5 centesimi di lira italiana. (Nota della CRITICA)

5. Commercio generale di esportazione ed importazione nel 1874 in milioni di dollari: Gran Bretagna 3300; Germania 2325; Francia 1665; Stati Uniti 1245 milioni di dollari. (KOLB, Statistik, 7.ª ediz., Lipsia, 1875, pag. 790).

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Discorso sul libero scambio