Discorso difensivo di Schneider II (1849.02.08)


Tradotto da Arturo Labriola (in: Marx, Innanzi ai giurati di Colonia, Roma, Luigi Mongini, 1901) e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, settembre 2018.

Testo fornito dalla Biblioteca Franco Serantini.


«Signori giurati!

Quando la novella della vittoria della controrivoluzione di Vienna corse a Berlino, anche in questa ultima città scoppiò la controrivoluzione. A Berlino come a Vienna, gli strumenti del vecchio potere momentaneamente risorto si affrettarono a perseguitare, sotto il mantello della legge, tutti coloro che in qualche modo avevano partecipato alla precedente rivoluzione. A Vienna la legge fu maneggiata da Windischgratz e dai croati. La Prussia ha invece un Wrangel, degli avversari fiscali e procuratori di Stato. Qui come colà i giudici e le penalità non son misurate secondo il contenuto della legge e la grazia della polvere e del piombo colpisce colui che secondo la lettera di inapplicabili leggi si è reso sospetto di un'azione punibile. Il perseguitato sul quale pesa un sospetto viene, a seconda delle circostanze, regalato di molti anni di lavoro forzato. Poichè si ebbe paura di accusare noi, rei di aver compiuto il nostro dovere, di voler distruggere la costituzione e di eccitare alla guerra civile, ci si persegue in base ad un articolo di Codice assolutamente inapplicabile al caso, e che minaccia soltanto un lieve castigo.

Io vi leggerò comparativamente, o signori, gli articoli 209 e 217 del nostro Codice penale, per farvi vedere subito che essi non hanno niente da fare col caso nostro. Mentre la nostra azione, quando pure non fosse, per motivi politici, insuscettiva di pena, potrebbe cadere sotto il disposto degli articoli 87, 90, 102, come un complotto diretto a suscitare la guerra civile ed a provocare in armi i cittadini del regno contro il potere del re; negli articoli citati dal Pubblico Ministero si tratta solo della concreta resistenza contro alcuni determinati impiegati, come ad esempio per la resistenza d'un contrabbandiere, d'un arrestato renitente e così via.»

A questo punto l'accusato cerca di far meglio emergere questa differenza comparando gli articoli relativi della legge e citando la giurisprudenza esistente e ne ricava che la provocazione riguardata nell'art. 217, abbisogni della parola directement e ciò per analogia dell'art. 102, cioè a dire parli di una provocazione diretta ed immediata. Continua così:

«Tutto ciò non può applicarsi all'appello incriminato. Esso non conteneva nè la provocazione ad un fatto determinato, nè la provocazione diretta ad un tal fatto. Voi, o signori, dovete esaminare semplicemente il contenuto dell'appello in questione e non le nostre eventuali opinioni, a voi apertamente dichiarate, circa il diritto del popolo alla resistenza armata, dal che emerge che noi esprimemmo solo teoreticamente ciò che allo stato dei fatti convenisse fare. Noi non facemmo nessun appello a quelli che dovevano rifiutare le imposte; solo i circoli esistenti sono invitati a far delle proposte nel senso nostro e ad eseguire le eventuali deliberazioni. Ma se, infine, il Pubblico Ministero vuol trovare punibile il nostro eccitamento anche quando dovesse riconoscersi legale la deliberazione circa il rifiuto dell'imposte presa dall'Assemblea nazionale, perchè l'Assemblea non eccitava direttamente alla violenza, io osserverò che questa era la conseguenza necessaria della deliberazione. Già molti giorni prima della deliberazione dell'Assemblea, noi, cioè il Comitato provinciale dei circoli democratici, avevamo raccomandato il rifiuto dell'imposte come una necessità politica; ma nel contempo avevamo sconsigliato da ogni resistenza violenta. (L'accusato legge l'appello, datato: 14 novembre). Preso cognizione del deliberato dell'Assemblea nazionale di rifiutare le imposte noi, riferendoci ad esso, dichiarammo autorizzata ogni specie di resistenza. Solo a dilucidazione dell'avventata affermazione del Pubblico Ministero che l'applicazione giuridica dell'articolo relativo del Codice non lasciava dubbi, io ho esaminato più da vicino e, lo confesso, con intima ripugnanza il contenuto e la genesi del nostro appello, mentre la sua inimputabilità può pronunciarsi per forti motivi politici. Siccome sotto questo aspetto l'infondatezza dell'accusa è stata loro ampiamente provata dai miei predecessori, io voglio toccare solo qualche punto del discorso del Pubblico Ministero.

Una rinunzia, disse il Pubblico Ministero, non può essere estesa, nè venire interpretata. La Corona rinunciò ad una parte dei suoi diritti di sovranità e convocò un'Assemblea nazionale per unificare la costituzione. Con ciò essa non rinunziò al diritto di trasferire, aggiornare e dissolvere questa Assemblea. Signori, noi possiamo facilmente invertire i termini di questa proposizione. Nella primavera scorsa la sovranità, tanto in diritto, quanto in fatto, si trovava solo nel popolo. Siccome i rappresentanti del popolo, (i quali erano stati convocati secondo la lettera della legge elettorale soltanto per unificare la costituzione, ma in effetto per opera della ben avvenuta rivoluzione, dovevano costituire e fondare la costituzione stessa) si dichiaravano d'accordo nella teoria dell'unificazione; non è lecito interpetrare questa dichiarazione, questa rinunzia in modo estensivo. Di fronte alla Corona stava il popolo come un contraente di pari diritto. La rinunzia a dare da solo la costituzione, non può essere intesa nel senso che uno soltanto dei contraenti, il popolo, doveva spogliarsi d'ogni diritto deliberativo!

Il diritto di concludere liberamente un contratto, cessava non appena non si permetteva più al popolo od ai suoi rappresentanti di compilare uno schizzo del contratto unificatore: non sì tosto si inibiva ai rappresentanti del popolo decidere da sè stessi se essi avevano pigliato liberamente le loro decisioni oppure terrorizzati dall'influsso esteriore.

Ma che poi le deliberazioni di Berlino non furono dettate dal terrorismo popolare, ciò che dà per ammesso il Pubblico Ministero, risulta in modo inconfutabile dalla risoluzione del 31 ottobre, in cui la proposta Waldeck, di porre cioè le forze dello Stato a disposizione delle libertà popolari minacciate in Vienna, vivamente appoggiata dalla popolazione di Berlino, fu respinta dall'Assemblea.

Inoltre il Pubblico Ministero si sforza di provare che all'Assemblea disciolta come non spettava il diritto di approvare le imposte, così non spettava nemmeno l'altro di rifiutarle. Sebbene, secondo lo stato della legislazione costituzionale del tempo, non sarebbe difficile provocare che l'Assemblea aveva questo diritto, una tale osservazione è irrilevante dal nostro punto di vista; poiché la risoluzione dell'Assemblea non è stata presa come cosa consentita dalla legge o dalla costituzione ma come un atto di legittima difesa contro un ministero rivoluzionario che offende i diritti riconosciuti del popolo. Precisamente la differenza rilevata dal Pubblico Ministero fra un' Assemblea costituzionale ed un'Assemblea costituente, determina la differenza fra il rifiuto dell'imposte entro i confini della costituzione e il rifiuto dell'imposte in certi dati casi.

Il Pubblico Ministero si rimette in fine al giudizio del paese nel conflitto fra Corona e popolo. In verità la voce del paese si è già apertamente pronunciata nelle recenti elezioni per la seconda Camera, ed il vostro giudizio, o signori, io ne son convinto, darà il proprio consenso con un unanime: no al verdetto del paese!»


Ultima modifica 2018.09.08