Marx e la Nuova gazzetta renana 1848-1849

Friedrich Engels (1884)


Pubblicato nel Sozialdemokrat di Zurigo il 13 marzo 1884

Tradotto indirettamente dalla versione in inglese presente sul MIA e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, settembre 2018


Allo scoppio del Quarantotto francese il “partito comunista” tedesco (come noi lo chiamavamo) constava solo di un piccolo nucleo: la Lega dei comunisti, organizzata come società segreta di propaganda. Segreta solo poiché allora in Germania non c'era libertà di associazione né di riunione. Oltre ai circoli operai all'estero (dove si reclutavano i suoi membri) la Lega aveva circa trenta comunità o sezioni nel Paese stesso, nonché membri isolati in tante località. Ma tale milizia insignificante trovò in Marx un capo di prim'ordine a cui tutti si sottomettevano volenti e, grazie a lui, un programma di principio e tattico che vale ancor oggi: il Manifesto comunista.

Qui ci interessa soprattutto la parte tattica del programma che diceva in generale:

«I comunisti non costituiscono un partito a sé di fronte agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme. Non erigono principi particolari, sui quali vogliano modellar il movimento proletario. I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo perché: da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quei comuni interessi dell'intero proletariato che sono avulsi dalla nazionalità; dall'altro nei vari stadi di sviluppo che la lotta fra proletariato e borghesia va percorrendo, rappresentano sempre l'interesse del movimento complessivo. Così, i comunisti sono in pratica la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i Paesi, la quale sempre spinge a progredire; ed in teoria i comunisti hanno sulla restante massa del proletariato il vantaggio di comprendere le condizioni, il percorso e i risultati generali del movimento proletario».

E in particolare per il partito tedesco:

«In Germania il partito comunista lotta insieme alla borghesia ogni volta che questa prenda una condotta rivoluzionaria contro la monarchia assoluta, la proprietà fondiaria feudale e la piccola borghesia reazionaria. Ma mai il partito comunista cessa di sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più è possibile chiara dell'antagonismo ostile esistente fra borghesia e proletariato onde gli operai tedeschi sappiano tosto convertire in altrettante armi contro la borghesia le condizioni sociali e politiche che la borghesia deve introdurre col suo dominio, onde, tostoché cadute le classi reazionarie in Germania, tosto inizi la lotta contro la borghesia. Sulla Germania i comunisti concentrano la loro attenzione, essendo essa alla vigilia della rivoluzione borghese.» (Manifesto, cap. IV).

Mai un programma tattico si è confermato giusto come questo. Uscito alla vigilia d'una rivoluzione superò la prova di tale rivoluzione: tutte le volte che un partito operaio ha da allora deviato da esso, ha pagato cara ogni deviazione; e oggi, dopo quasi quarant'anni, resta il criterio direttivo di tutti i partiti operai decisi e coscienti di Europa, da Madrid a Pietroburgo.

Il Quarantotto francese fece precipitar l'imminente rivoluzione tedesca modificandone con ciò il carattere. Anziché vincer per forza propria la borghesia tedesca vinse a rimorchio di una rivoluzione operaia francese. Prima ancora di aver abbattuto definitivamente i suoi vecchi nemici (monarchia assoluta; grande proprietà fondiaria feudale; burocrazia; piccola borghesia codarda) la borghesia dovette far fronte ad un nuovo nemico: il proletariato. Ma ivi si palesarono subito gli effetti della situazione economica in Germania, più arretrata che in Francia e in Inghilterra, cioè dei rapporti di classi altrettanto arretrati.

La borghesia tedesca che iniziava appena a crear la sua grande industria, non aveva la forza, né il coraggio, né la necessità impellente di conquistarsi il dominio assoluto dello Stato; il proletariato, altrettanto poco sviluppato, cresciuto in condizioni di completo asservimento spirituale, disorganizzato e ancora incapace di organizzarsi da sé, avvertiva solo vagamente il suo profondo conflitto di interessi con la borghesia. Così, benché fosse di fatto il nemico minaccioso della borghesia, ne rimase l'ancella politica. Spaventata non da cosa il proletariato tedesco fosse, ma da ciò che minacciava di divenire e da cosa il proletariato francese già era, la borghesia vide la sua salvezza solo in un compromesso qualsiasi, pure il peggiore, colla monarchia e la nobiltà; ancora ignaro della sua funzione storica, il proletariato nella sua grande massa dovette iniziar dallo spronar la borghesia, formando la sua ala d'estrema sinistra. Gli operai tedeschi avevano anzitutto da conquistar quei diritti necessari per creare la loro organizzazione autonoma come partito di classe: libertà di stampa, libertà di associazione e libertà di riunione. Diritti che la borghesia avrebbe dovuto conquistare nell'interesse del suo proprio dominio, ma che per paura essa stessa ora contestava agli operai. Le poche centinaia di membri isolati della Lega sparirono nell'enorme massa di colpo gettata nel movimento. Così il proletariato tedesco fece la sua comparsa sulla scena politica come partito democratico estremo.

Così, quando fondammo in Germania un grande giornale, la bandiera sotto cui lottare si presentò da sé. Poteva esser solo la bandiera della democrazia, ma di una democrazia che ovunque, nei dettagli, esaltasse quel carattere proletario specifico non ancora ricamabile sulla sua bandiera. Rifiutando di agganciarci al movimento nel punto esatto in cui si trovava (un punto estremo, effettivamente proletario) e di promuoverlo, allora avremmo potuto solo sdottorar sul comunismo in un piccolo giornale locale: fondar una piccola setta, non un grande partito di azione politica. Ma non eravamo atti a far i predicatori del deserto: conoscevamo bene gli utopisti. Non per questo avevamo ideato il nostro programma.

Giunti a Colonia, democratici e in parte comunisti erano già pronti al lancio d'un grande giornale. Lo si voleva strettamente locale, di Colonia, libero da Berlino. Ma grazie a Marx conquistammo le piazze in 24 ore e il giornale fu nostro, a patto d'assumer Heinrich Bürgers, che scrisse un articolo sul n.2, senza scriverne un altro.

Noi dovevamo appunto raggiunger Colonia, non Berlino. Perché anzitutto Colonia era il centro della provincia renana che visse la Rivoluzione francese, guadagnò col Codice Napoleone1 concezioni giuridiche moderne, creò la grande industria di gran lunga più importante, ed era allora la parte più progredita della Germania sotto ogni aspetto. Conoscevamo bene la Berlino coeva per esperienza diretta, con la sua borghesia appena nascente, la sua piccola borghesia arrogante a parole ma di fatto vile, strisciante, i suoi operai ancora non evoluti, la sua schiera di burocrati, nobili e cortigiani, insomma con tutto il suo carattere di semplice «residenza». Ma c'erano i seguenti elementi decisivi: a Berlino regnava il misero diritto prussiano2 e i processi politici andavano davanti ai GIUDICI di professione; sul Reno vigeva il Codice Napoleone, che non conosce processi contro la stampa perché presuppone la censura, onde si finiva davanti ai GIURATI commettendo crimini, non delitti politici. A Berlino, dopo la rivoluzione, il giovane Schlöffel fu condannato a un anno per un'inezia3; sul Reno noi avevamo assoluta libertà di stampa... e la usammo fino all'ultima goccia.

Iniziammo così il 1° giugno 1848, con un capitale azionario esiguo di cui solo una piccola parte era stata versata, e cogli azionisti assai insicuri: metà di loro ci abbandonò subito dopo il primo numero; tutti gli altri alla fine del mese.

La struttura della redazione si riduceva alla dittatura di Marx: solo così un grande quotidiano da approntar a un'ora precisa può garantir una linea conseguente. Ma nel nostro caso la dittatura di Marx era pure ovvia, indiscussa, accolta da noi tutti. Furono anzitutto la lucidità della sua visione e il suo atteggiamento sicuro a fare del nostro foglio il più famoso giornale tedesco degli anni della rivoluzione.

Il programma politico della Nuova Gazzetta Renana aveva due punti principali: repubblica tedesca una, indivisibile, democratica; e guerra contro la Russia per ricreare la Polonia.

La democrazia piccolo-borghese si divideva allora in due frazioni: quella della Germania del Nord (accontentantesi di un imperatore prussiano democratico) e quella della Germania del sud (allora quasi esclusivamente badense, che voleva far della Germania una repubblica federale di tipo svizzero). Ambe erano da combattere. Non era interesse del proletariato prussianizzare la Germania né perpetuare la frammentazione in Staterelli; bensì lo era l'unificazione della Germania in una sola nazione, l'unico possibile campo di lotta liberato da ogni gretto ostacolo del passato, su cui il proletariato e la borghesia dovevano misurar le loro forze. Ciò rifiutava una guida prussiana: lo Stato prussiano, colle sue istituzioni, la sua tradizione e la sua dinastia era proprio l'unico serio nemico interno che la rivoluzione avesse da abbatter in Germania; inoltre la Prussia poteva unificar la Germania solo lacerandola, escludendone l'Austria tedesca. Dissoluzione dello Stato prussiano e dello Stato austriaco, unione effettiva della Germania come repubblica: non potevamo aver un diverso programma rivoluzionario immediato. Ciò poteva realizzarsi con la guerra alla Russia; solo attraverso di essa (spiegherò questo punto più oltre).

Per il resto il tono del giornale non era affatto solenne, serio o entusiasta. Avevamo solo nemici spregevoli e li trattavamo tutti con estremo disprezzo senza eccezione. La monarchia cospiratrice, la camarilla, la nobiltà, la Kreuz-Zeitung, cioè tutta la “reazione” che suscitava nel filisteo sdegno moral, era trattata da noi solo con scherno e derisione. Ma così trattavamo pure i nuovi dèi sorti dalla rivoluzione: i ministri di marzo, le assemblee di Francoforte e di Berlino, e tanto i destri quanto i sinistri. Il primo numero del giornale debuttò con un articolo deridente l'inanità del Parlamento di Francoforte, l'inutilità dei suoi discorsi prolissi, la superfluità delle sue decisioni codarde. Tale articolo ci costò la metà degli azionisti. Il Parlamento di Francoforte manco era un club di discussioni; non vi si discuteva quasi di niente, perlopiù vi si recitavano dissertazioni accademiche predisposte e vi si prendevano decisioni tali da entusiasmare i filistei tedeschi, ma di cui niun altro s'occupava.

L'Assemblea di Berlino aveva già più importanza; fronteggiava un potere reale, discuteva e decideva cose concrete, senza viver nelle nuvole come a Francoforte. Indi le si dava più attenzione. Ma gli stessi dèi della sinistra berlinese (Schulze-Delitzsch, Berends, Elsner, Stein, ecc.) furono maltrattati quanto quelli di Francoforte; esibendone l'indecisione, la titubanza, l'opportunismo, provando come ad ogni passo giungessero a compromessi tradenti la rivoluzione. Ciò naturalmente faceva inorridir i piccoli borghesi democratici, che si erano appena fabbricati questi dèi a loro uso personale. Tale orrore era per noi un indizio che avevamo colpito nel segno.

Così pure attaccammo l'illusione (zelantemente diffusa dalla piccola borghesia) che la rivoluzione finisse con le giornate di marzo e restasse solo da raccoglierne i frutti. Per noi, il Quarantotto francese e tedesco significavano una vera rivoluzione solo se (anziché conclusione) fossero stati il punto di partenza di un lungo movimento rivoluzionario durante cui (come nella prima Rivoluzione francese) il popolo maturasse lungo le sue lotte, i partiti assumessero una fisionomia sempre più precisa fino a coincidere affatto con le grandi classi (borghesia, piccola borghesia e proletariato), e il proletariato conquistasse ciascuna sua posizione, una per una, in una serie di giornate campali. Indi attaccammo pure la piccola borghesia democratica ovunque volesse celare il suo antagonismo di classe col proletariato, dietro la sua frase preferita: «Noi vogliamo tutti la stessa cosa; ogni divergenza è solo un malinteso». Ma meno lasciavamo la piccola borghesia fraintendere la nostra democrazia proletaria, più essa diveniva docile e arrendevole verso di noi. Più si affronta la piccola borghesia con rigore e risolutezza, più essa cede e fa concessioni al partito operaio. Lo si è visto.

Infine esibimmo il cretinismo parlamentare (espressione di Marx) delle diverse cosiddette Assemblee nazionali. Costoro persero tutti i mezzi del potere, anzi in parte li restituirono volenti ai governi. Sia a Berlino sia a Francoforte assemblee impotenti stavano ante rinvigoriti governi reazionari, eppure si illudevano di cambiare il mondo con le loro impotenti deliberazioni. Un'illusione cretina estesa fino all'estrema sinistra cui gridavamo: «la vostra vittoria parlamentare coinciderà col loro scioglimento».

Così fu sia a Berlino sia a Francoforte. Allorché la “sinistra” ottenne la maggioranza, il governo sciolse l'Assemblea; e poté farlo poiché l'Assemblea si screditò presso il popolo.

Quando più tardi lessi il libro di Bougeart su Marat, trovai che sotto molti aspetti imitammo soltanto senza saperlo il grande esempio del vero Ami du peuple4 (non del contraffatto giornale monarchico), e che tutta la canea e tutte le falsificazioni storiche con cui per quasi un secolo è noto solo un Marat deformato hanno questa sola causa: Marat smascherò senza pietà Lafayette, Bailly e altri idoli del momento esibendoli come perfetti traditori della rivoluzione che lui, come noi, voleva fosse dichiarata in permanenza anziché trovarla conclusa.

Noi dicevamo apertamente che la corrente da noi rappresentata avrebbe potuto iniziare la lotta per raggiunger dei suoi veri fini di partito solo allorché al potere fosse finito il più avanzato dei partiti ufficiali allora esistenti in Germania: allorché noi saremmo passati all'opposizione contro di esso.

Ma gli eventi fecero sì che, accanto ai lazzi sugli avversari tedeschi, ci fosse pure la passione ardente. L'insurrezione degli operai di Parigi nel giugno 1848 ci trovò appostati. Dal primo colpo di fucile ci schieriamo affatto cogli insorti. Dopo la disfatta Marx celebrò i vinti in uno dei suoi articoli più potenti.

Allora ci abbandonarono pure gli ultimi azionisti. Ma avemmo la soddisfazione di essere il solo giornale in Germania e quasi in tutta l'Europa ad aver tenuto alta la bandiera del proletariato calpestato proprio mentre borghesi e piccoli borghesi di tutti i Paesi calcavano sui vinti col sudiciume delle loro calunnie.

La politica estera era semplice: aiutar ogni popolo rivoluzionario, provocare la guerra generale dell'Europa rivoluzionaria contro la gran riserva della reazione europea: la Russia. Dal 24 febbraio capimmo che la rivoluzione aveva un solo nemico invero temibile (la Russia), nemico che sarebbe stato costretto a entrar in lotta quanto più il movimento avesse assunto dimensioni europee. Gli avvenimenti di Vienna, di Milano, di Berlino ritardarono l'attacco russo, ma più la rivoluzione si avvicinava alla Russia più esso diveniva certo. Ma se si riusciva a provocar la guerra fra Germania e Russia, sarebbe finita pure per gli Asburgo e gli Hohenzollern, e la rivoluzione avrebbe vinto su tutta la linea.

Tale politica permea ogni numero del giornale fino all'effettivo intervento dei russi in Ungheria, che confermò affatto la nostra previsione e decise della sconfitta della rivoluzione.

Quando nella primavera del 1849 s'avvicinò la battaglia decisiva, il linguaggio del giornale si fece ad ogni numero più violento e appassionato. Nel “Miliardo slesiano” (otto articoli) Wilhelm Wolff ricordò ai contadini della Slesia come loro fossero stati truffati nel riscatto dei gravami feudali dai proprietari fondiari aiutati dal governo (sia sul denaro sia sulla proprietà della terra) proponendo un'indennità di un miliardo di talleri.

Al contempo nell'aprile uscì in una serie di editoriali lo scritto di Marx Lavoro salariato e capitale, chiara indicazione dello scopo sociale della nostra politica. Ogni numero, ogni edizione straordinaria, attirava l'attenzione sulla grande battaglia in preparazione, sull'acuirsi dei conflitti in Francia, Italia, Germania e Ungheria. In specie, i numeri straordinari di aprile e di maggio furono altrettanti appelli al popolo a prepararsi alla battaglia. “Fuori nel Reich” ci si stupiva che facessimo tutto ciò indisturbati in una fortezza prussiana di prima classe con una guarnigione di 8.000 uomini e davanti al corpo di guardia principale; ma (avendo otto fucili a baionetta e le 250 cartucce che tenevamo nella sala della redazione, e i rossi berretti frigi dei tipografi) pure la nostra sede era per gli ufficiali una fortezza non espugnabile con un semplice colpo di mano.

Infine il 18 maggio 1849 venne il colpo.

L'insurrezione di Dresda e di Elberfeld era vinta, quella di Iserlohn circondata, la provincia renana e la Vestfalia erano irte di baionette destinate (tostoché conquisa la Renania prussiana) a marciar contro il Palatinato e il Baden. Allora finalmente il governo osò attaccarci. Metà dei redattori fu perseguita legalmente, gli altri potevano essere espulsi poiché non prussiani. Nulla c'era da fare finché dietro al governo c'era corpo d'armata. Dovemmo cedere la nostra fortezza; ma ci ritirammo con armi e bagagli, con la fanfara in testa e spiegando la bandiera dell'ultimo numero, scritto in rosso, ove si mettevano in guardia gli operai di Colonia contro colpi di mano senza speranza e gridammo loro:

«I redattori della Nuova Gazzetta Renana, nel congedarsi, vi ringraziano per la simpatia mostrata loro. La loro ultima parola sarà sempre e ovunque: emancipazione della classe operaia!» [Agli operai di Colonia].

Così finì la Nuova Gazzetta Renana, poco prima di compiere il primo anno. Iniziata quasi senza mezzi finanziari (i pochi garantitile disertarono presto, come ho detto), già in settembre arrivò a una tiratura di 5.000 copie. Tostoché proclamato a Colonia lo stato d'assedio fu sospesa; a metà ottobre dovette riiniziar da capo; ma nel maggio 1849 (momento della soppressione) contava di nuovo 6.000 abbonati (mentre allora la Kölnische Zeitung, per sua ammissione, ne aveva non più di 9.000). Mai un giornale tedesco, prima o dopo, ha avuto tale forza e influenza; mai ha saputo elettrizzare le masse proletarie quanto la Nuova Gazzetta Renana. E lo dovette anzitutto a Marx.

Dopo il colpo della soppressione, la redazione si disperse. Marx andò a Parigi, dove si preparava l'evento decisivo che ci fu il 13 giugno 1849. Wilhelm Wolff occupò il suo seggio nel Parlamento di Francoforte mentre l'Assemblea doveva scegliere fra lo scioglimento dall'alto o l'adesione alla rivoluzione. Io mi recai nel Palatinato e divenni aiutante nel corpo dei volontari di Willich.

Friedrich Engels.

Scritto fra metà febbraio e inizio marzo 1884.


Note

1. Code Napoléon: cinque codici (codice civile; ordinamento processuale civile; codice commerciale; ordinamento processuale penale; codice penale) adottati pure nella parte di Germania conquistata dalla Francia. Nella provincia renana rimasero validi anche dopo l'annessione alla Prussia (1815).

2. Landrecht (Diritto generale dello Stato Prussiano): giurisprudenza della Prussia feudale; rimasta in vigore fino al 1900.

3. Gustav Adolf Schlöffel: editore del Volksfreund di Berlino, condannato a sei mesi di reclusione in fortezza dopo il Quarantotto tedesco per aver scritto due articoli in difesa dei diritti dei lavoratori su questo giornale.

4. Ami du peuple (Amico del popolo): quotidiano pubblicato a Parigi da Jean Paul Marat dal 12 settembre 1789 al 21 settembre 1792.


Ultima modifica 2018.09.05