Piccola storia della fotografia

Walter Benjamin (1931)


«Kleine Geschichte der Photographie venne pubblicata nel 1931, in tre parti successive, sulla rivista berlinese Die literarische Welt (rispettivamente il 19 settembre, il 25 settembre e il 2 ottobre 1931). Questo scritto presenta varie palesi sovrapposizioni tematiche con il saggio L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica e soprattutto con la Lettera da Parigi II e con la Recensione di Gisèle Freund, La fotografia in Francia nel diciannovesimo secolo. Saggio estetico-sociologico» [L'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica e altri saggi sui media, a cura di Giulio Schiavoni, RCS Libri, Milano 2013].

Traduzione indiretta dall'inglese di: Leonardo Maria Battisti.

Fonte: Walter Benjamin: On Photography, Edited and translated by Esther Leslie, Reaktion Books Ltd, London, 2015.


La bruma che avvolge gli albori della fotografia non è fitta come quella che si addensa sugli esordi della stampa. Forse, rispetto alla stampa, la percezione che l'ora di inventare la fotografia fosse giunta era sentita da tanti – uomini che, indipendentemente l'uno dall'altro, perseguivano lo stesso obiettivo: fissare quelle immagini della camera oscura, note almeno dai tempi di Leonardo. Quando, dopo circa un lustro di tentativi, Niépce e Daguerre vi riuscirono, lo Stato, favorito dalle difficoltà legali incontrate dai due per ottenere il brevetto, assunse il controllo dell'invenzione e la rese pubblica, previo indennizzo degli interessati. Ciò pose le basi per uno sviluppo lesto, da escludere a lungo ogni sguardo retrospettivo. Ciò spiega perché per decenni siano stati ignorati quesiti di natura storica (anzi, filosofica) posti dall'ascesa o dal declino della fotografia. Oggi, se si inizia a considerarli, è per una ragione precisa. La letteratura più recente concorda che l'età d'oro della fotografia (l'attività di Hill e Cameron, di Hugo e Nadar) coincide col suo primo decennio. È il decennio che ne precede l'industrializzazione. Non che in tale prima fase imbonitori e ciarlatani non si fossero già impadroniti a scopo di lucro della nuova tecnica (anzi successe su larga scala). Ma, anziché l'industria, il fenomeno riguardava le arti da fiera (dove ancor oggi la fotografia è di casa). L'industria conquistò il settore solo con le fotografie dei biglietti da visita, il cui primo produttore divenne milionario (non a caso). Non ci stupiremmo se le pratiche fotografiche attuali (che per la prima volta inducono a riconcepir quell'età d'oro preindustriale) fossero unite per via sotterranea con le crisi dell'industria capitalistica. Ma ciò non rende più facile usar il fascino delle immagini apparse nelle belle pubblicazioni recenti di vecchie fotografie1 per penetrarne l'essenza. I tentativi di analisi teorica sono rudimentali. Per quanti dibattiti del secolo scorso sull'argomento, non ci si è emancipati dallo schema banale con cui un giornaletto sciovinista, il Leipziger Anzeiger, ritenne di doversi opporre per tempo a quella diabolica arte francese. C'è scritto:

«Voler fissare effimere immagini riflesse è impossibile (come è risultato da un'accurata ricerca tedesca) ma già il solo desiderarlo è una bestemmia. L'uomo è creato a immagine di Dio, e nessuna macchina umana può fissare l'immagine di Dio. Al massimo l'artista divino, esaltato da un'ispirazione celeste, può cercar di riprodurre i tratti umano-divini, nell'istante di massima devozione, per superiore comando del proprio genio e senza l'aiuto di alcuna macchina»*1.

Ecco il concetto filisteo dell'arte, ivi esposto in termini grevi, a cui manca ogni considerazione tecnica e che, con l'avvento provocatorio del nuovo mezzo, sente avvicinarsi la sua fine. Eppure, è con tale concezione feticistica e radicalmente antitecnica dell'arte che i teorici della fotografia per circa un secolo si sono misurati, senza risultati. Infatti cercavano solo di legittimare il fotografo proprio appo quel tribunale che il fotografo stesso contestava. Spira un'aria diversa nella relazione con cui il fisico Arago (il 3 luglio 1839) difese l'invenzione di Daguerre alla Camera dei Deputati*2. La bellezza di tale discorso sta nel rifarsi ad ogni aspetto dell'attività umana. Delinea un panorama sì vasto da rendere irrilevante la dubbia legittimazione della fotografia nei confronti della pittura (pur qui presente), e da far intravedere la reale portata dell'invenzione. Dice Arago:

«Quando gli inventori di un nuovo strumento lo usano per osservare la natura, ciò che sperano di ricavarne è sempre un'inezia rispetto alla serie di scoperte successive dovute a tale strumento»*3.

Il discorso abbraccia tutto il campo di applicazione della nuova tecnica, dall'astrofisica alla filologia: accanto alla prospettiva di fotografare le stelle, si affaccia l'idea di riprendere un corpus di geroglifici egizi.

Le fotografie di Daguerre erano lastre d'argento iodurate impresse nella camera oscura, che dovevano esser rigirate più volte per poter, con la giusta illuminazione, distinguer un'immagine d'un grigio delicato. Erano pezzi unici; nel 1839 in media una lastra costava 25 franchi oro. Non di rado erano custodite in astucci come gioielli. Ma certi pittori le usavano come ausili tecnici. Come Utrillo, 70 anni dopo, avrebbe realizzato le sue affascinanti vedute di case della banlieue parigina tramite cartoline illustrate (anziché dal vero), il noto ritrattista inglese David Octavius Hill basò il suo affresco del primo sinodo generale della Chiesa scozzese (1843) su un'ampia serie di ritratti fotografici (fatti però di persona). E sono tali lastre senza pretese, semplici sussidi destinati a un uso interno, a consegnare alla storia il nome di Hill (negletto come pittore). Più che tali serie di ritratti, introducono alla nuova tecnica alcuni studi di Hill: immagini di persone anonime, non veri ritratti. Figure simili esistevano già da tempo nei dipinti. Se restavano possessi di famiglia, talvolta ci si interrogava sul modello raffigurato. Ma dopo due o tre generazioni tale interesse sparisce: i quadri durano solo come testimonianza dell'arte di chi le ha dipinte. Invece nel caso della fotografia scopriamo un che di nuovo: nella pescivendola di New Haven, che guarda a terra con un pudore così spontaneo e seducente, resta un che non esauribile nella testimonianza dell'arte del fotografo Hill, un che non si riesce a tacere, che esige forte il nome di colei che lì ha vissuto, che in tal immagine è ancora reale e che mai vorrà lasciarsi tutta dissolvere dall'«arte».

«E io chiedo: come la grazia di quei capelli
e di quello sguardo avvolgeva le persone coeve!
Come baciava quella bocca verso cui il desiderio
sale come spire di fumo senza fiamma!»*4.

David Octavius Hill e Robert Adamson, Mrs Hall, La pescivendola di New Haven, stampa su carta salata da calotipo negativo, 1843-47 circa.

Oppure si osservi l'immagine del fotografo Dauthendey, padre del poeta, ai tempi del fidanzamento con la donna che egli un giorno, poco dopo la nascita del loro sesto figlio, trovò nella camera da letto della sua casa moscovita con le vene dei polsi tagliate. Ivi la vediamo accanto a lui, che pare folcirla; ma lo sguardo di lei lo oltrepassa, assorbito da una lontananza ferale. Se si indugia con calma su una simile foto, si capisce come pure qui gli opposti si tocchino: la tecnica più precisa riesce a conferire ai suoi prodotti quel valore magico che per noi ai nostri occhi un dipinto. Pur con un fotografo abile, e la posa del suo modello guari calcolata, l'osservatore avverte l'impulso irresistibile di cercare in tale immagine una scintilla di casualità, l'hic et nunc con cui la realtà ha, per così dire, strinato il carattere dell'immagine; l'impulso di individuare il punto invisibile in cui, nell'essenza di quel minuto ormai trascorso, si annida ancor oggi il futuro, e con tale eloquenza che, guardando indietro, riusciamo a scoprirlo.

Karl Dauthendey, Autoritratto con la sua fidanzata, 1857.

La natura che parla alla macchina fotografica è diversa da quella che parla all'occhio. Anzitutto perché a uno spazio intessuto consapevolmente dall'uomo ne subentra uno elaborato inconsciamente. Se è normale rendersi conto (benché all'ingrosso) dell'andatura delle persone, affé non si sa nulla della loro postura nella frazione di secondo in cui «allungano il passo». La fotografia (coi suoi ausili: il rallentatore, gli ingrandimenti) può esibirla. Solo la fotografia rileva l’inconscio ottico, così come solo la psicoanalisi rileva l'inconscio pulsionale. Caratteristiche strutturali e tessuti cellulari (di cui sogliono occuparsi la tecnica e la medicina) sono in origine affini alla fotografia più di un paesaggio suggestivo o un ritratto pieno di sentimento. Ma, al contempo, in tale materiale la fotografia svela aspetti fisiognomici e mondi visivi a livello microscopico, intuibili ma nascosti abbastanza da aver trovato rifugio nei sogni a occhi aperti, ma che ora (divenuti grandi e formulabili) rilevano come la differenza fra tecnica & magia sia solo una variabile storica. È così che Bloßfeldt2, nelle sue notevoli fotografie di piante, ha palesato negli equiseti forme di antichissime colonne, nella felce il bastone pastorale, nei germogli del castagno e dell'acero, ingranditi dieci volte, certi alberi totemici, nel cardo dei lanaioli il traforo gotico.

Karl Bloßfeldt, Passiflora, 1895 circa.

Per questo, pure i modelli di Hill non erano molto lontani dal vero se consideravano «il fenomeno della fotografia come una grande esperienza misteriosa»; benché tale esperienza si limitasse forse alla consapevolezza di «posare per un apparecchio in grado di produrre in brevissimo tempo un'immagine del mondo veritiera quanto la natura». Della macchina fotografica di Hill è stato detto che essa mantiene un riserbo discreto. E i suoi modelli non sono meno riservati: mostrano timidezza ante la macchina, e il precetto guida di un successivo fotografo dell'età aurea di «non guardare mai nella macchina» parrebbe ispirato al loro contegno. Ma con ciò non si intendeva quel «ti guardano» riferito ad animali, uomini o bambini, che subdolamente coinvolge l'acquirente, e a cui nulla si può opporre di meglio delle parole del vecchio Dauthendey sulla dagherrotipia:

«All'inizio non ci si fidava a fissare a lungo le immagini che Daguerre produceva. Intimoriva il nitore dei soggetti e si credeva che i piccoli, minuscoli visi delle persone che stavano dentro le immagini potessero a loro volta guardarci: tanto sconcertavano l'inusuale nitidezza e fedeltà alla natura dei primi dagherrotipi».

Queste prime persone riprodotte entravano integre, o meglio senza didascalie, nello spazio visivo della fotografia. I giornali erano ancora oggetti di lusso: di rado si acquistavano, preferendo sfogliarli nei caffè. Il processo fotografico non era ancora divenuto un loro strumento, e poche persone vedevano il proprio nome stampato. Il volto umano era avvolto da un silenzio in cui lo sguardo riposava. Insomma: le potenzialità di quest'arte del ritratto derivano dal contatto non ancora stabilito fra l'attualità e la fotografia. Molte lastre di Hill hanno origine nel cimitero di Greyfriars, a Edimburgo, il che ben caratterizza tali primordi, insieme al fatto che i modelli erano a loro agio in quel contesto. Infatti il cimitero di Greyfriars, stando a una fotografia fatta dallo stesso Hill, pare un interno, uno spazio isolato e cintato ove, addossati ai muri, si ergono sul terreno erboso pietre tombali che, svuotati come camini, rivelano al loro interno iscrizioni anziché fuochi.

David Octavius Hill and Robert Adamson, David Octavius Hill disegna sotto il monumento Dennistoun nel cimitero di Greyfriars, 1848.
David Octavius Hill e Robert Adamson, Il cimitero di Greyfriars, 1848 circa.

Ma tale sede mai avrebbe raggiunto un tale effetto senza venir scelta per ragioni tecniche. La minore sensibilità alla luce delle prime lastre richiedeva una lunga esposizione all'aperto. Ciò, a sua volta, consigliava di porre i soggetti da ritrarre in un luogo isolato al massimo, in cui nulla turbasse la concentrazione. Dice Orlik circa le prime fotografie:

«La sintesi dell'espressione ottenuta da una lunga immobilità al modello è la ragione precipua per cui tali lastre (di una sobrietà pari a ritratti ben disegnati o dipinti) esercitano sull'osservatore un effetto più incisivo e duraturo delle fotografie più moderne».

Il processo stesso induceva i modelli a viver dentro l'attimo, non fuori; durante la lunga posa essi crescevano all'interno dell'immagine, in netto contrasto con ciò che avviene nell'istantanea, che corrisponde a un diverso contesto ove (come giustamente notato da Kracauer) dalla frazione di secondo che dura la posa dipende pure «se uno sportivo diverrà sì famoso da venir ripreso dai fotografi per incarico dei rotocalchi». In tali prime fotografie, tutto era concepito per durare: nonché gli inimitabili gruppi in cui ci si riunivano le persone (la cui scomparsa è certo uno dei sintomi più precisi di ciò che capitò nella società della seconda metà del secolo) pure le pieghe di un abito, che in tali immagini tengono più a lungo. Es. Si badi la giacca di Schelling: pare fatta apposta per accompagnarlo fiduciosamente nell'immortalità: le forme plasmate su colui che la indossa valgono quanto le rughe del suo viso. In breve, tutto pare provare che Bernard von Brentano avesse ragione a supporre «che un fotografo del 1850 era allo stesso livello del suo strumento» – per la prima e, chissà per quanto ancora, per l'ultima volta.

Hermann Biow, Friedrich Schelling, dagherrotipo, 1848

Del resto, per capir appieno l'enorme influenza della dagherrotipia nell'epoca della sua scoperta, serve stimar che la pittura en plein air aveva iniziato a rivelare ai pittori più avanzati prospettive radicalmente nuove. Consapevole che proprio in tale ambito la fotografia dovesse raccogliere il testimone dalla pittura, pure Arago (in una retrospettiva storica sui primi tentativi di Giambattista della Porta*5) dice proprio:

«Circa l'effetto dovuto alla trasparenza imperfetta della nostra atmosfera (effetto impropriamente definito “prospettiva aerea”), manco i pittori esperti sperano che la camera oscura [cioè la copia delle immagini che vi appaiono] potrebbe aiutarli a riprodurlo con precisione».

Tostoché Daguerre riuscì a fissare le immagini della camera oscura, i pittori furono liquidati dal tecnico. Ma la vera vittima della fotografia fu il ritratto miniato (non la pittura di paesaggio). Il progresso fu sì rapido che già verso il 1840 la maggior parte dei tanti miniaturisti mutarono in fotografi di professione, all'inizio a tempo perso, poi a tempo pieno. Si giovarono delle esperienze del loro mestiere originario: l'alto livello delle loro prestazioni fotografiche si deve alla loro perizia artigianale, non alla loro preparazione artistica. Tale generazione di passaggio sparì molto lentamente; parrebbe che una sorta di benedizione biblica toccò a quei primi fotografi: i vari Nadar, Stelzner, Pierson, Bayard raggiunsero i novanta, talora cento anni. Ma alla fine, affaristi di ogni provenienza si'ingerirono nella categoria dei fotografi di professione, e quando, più tardi, il ritocco dei negativi (con cui i cattivi pittori si vendicavano della fotografia!) divenne una prassi usuale, si produsse un rapido declino del gusto. Era l'epoca in cui si iniziò a riempir album fotografici.

Stavano nei punti più gelidi degli appartamenti, sulle consolle e sui tavolini dei salotti: libroni rilegati in cuoio con orrende borchie metalliche e fogli bordati d'oro spessi un dito, in cui si esibivano personaggi follemente drappeggiati e infagottati: lo zio Alex e la zia Rika, Trudi da piccola, il papà matricola all'università. Da ultimi, colmo dell'onta, comparivamo noi stessi: in costume tirolese a cantare lo jodel e a sventolare il berretto su uno sfondo di nevi dipinte, o vestiti alla marinara, con una gamba dritta e l'altra flessa, poggiati come si deve a una lustra colonnina. Gli accessori di tali ritratti (piedistalli; balaustre; tavolini ovali) ricordano ancora l'epoca in cui, per la lunga durata della posa, serviva a dare i modelli punti d'appoggio per evitare che si muovessero. Se all'inizio bastavano «reggitesta» o «poggiaginocchi», tosto si adottarono «altri accessori, simili a quelli che si vedevano in dipinti famosi, che dovevano essere “artistici”. All'inizio la colonna e la tenda». Contro tali idiozie si schierarono figure più valenti già negli anni Sessanta. In una rivista specializzata inglese coeva si dice:

«Nei dipinti la colonna ha una parvenza di plausibilità, ma il modo cui è usata in fotografia è assurdo, visto che è poggiata su un tappeto. Chiunque capisce che colonne di marmo o di pietra non possono erigere sopra un tappeto».

Erano i tempi di quegli atelier pieni di drappeggi e palme, arazzi e cavalletti che oscillavano ambiguamente fra esecuzione capitale e messinscena, camera di tortura e sala del trono, e dei quali offre un'impressionante testimonianza uno dei primi ritratti di Kafka*6. Il ragazzino, circa seienne, posa in piedi in un abitino infantile stretto (quasi avvilente), sovraccarico di trine, in una sorta di scenario da giardino d'inverno. Rami di palma si levano sullo sfondo. E, quasi a voler render ancor più afosi e soffocanti tropici di carta, il modello folce un enorme cappello con tesa larga à la spagnola. In tale scenografia il modello sparirebbe se gli occhi, infinitamente tristi, non lo dominassero.  

Franz Kafka, 1887 circa (Klaus Wagenbach Archiv, Berlin)

Nella sua sconfinata tristezza, tale immagine è un pendant delle prime fotografie, in cui i soggetti non guardavano ancora il mondo isolati e persi come Kafka bambino. Erano circondati da un'aura, un medium, che dava pienezza e sicurezza al loro sguardo soggiogante. E di nuovo è evidente l'equivalente tecnico di tale fenomeno: l'assoluta continuità dalla luce più chiara alle ombre più scure. Pure qui trova peraltro conferma la legge che le conquiste più recenti si prefigurano nella tecnica più antica: prima di declinare, la vecchia ritrattistica aveva conosciuto una fioritura unica della mezzatinta. Era sì una tecnica di riproduzione che solo in seguito si sarebbe fusa con la tecnica fotografica. Come nei ritratti a mezzatinta, pure nelle fotografie di Hill la luce lotta faticosamente per emergere dall'oscurità: Orlik parla della «concentrazione luminosa», dovuta ai lunghi tempi di esposizione, che «conferisce grandezza a quelle antiche lastre». E, tra i coevi dell'invenzione, già Delaroche notava l'impressione unitaria «mai ottenuta prima, deliziosa, che in nulla turba la quiete dei volumi». Ciò va detto circa il condizionamento tecnico del fenomeno auratico. Specie certe foto di gruppo conservano una gioia dello star insieme che appare per un breve istante sulla lastra, prima di sparir nella cosiddetta «stampa originale». Si tratta di quell'alone che talora è delimitato in modo bello e significativo dalla forma dell'ovale, ormai fuori moda. Perciò insistere sulla «perfezione artistica» o il «gusto» significa fraintendere tali incunaboli della fotografia. Quelle immagini sorsero in ambiti in cui, pel cliente, il fotografo era un tecnico della scuola più recente; mentre, pel fotografo, il cliente era membro d'una classe in ascesa avvolto in un'aura fin nelle pieghe della giacca o della lavallière. Perché l'aura non è il mero risultato di una macchina fotografica primitiva. Bensì, in quegli albori, oggetto e tecnica si corrispondono tanto quanto poi divergono nel successivo periodo di decadenza. Infatti presto un'ottica avanzata poté disporre di strumenti in grado di dominare affatto l'oscurità e registrare come specchi i vari fenomeni. Ma, negli anni successivi al 1880, i fotografi stimarono loro compito simulare l'aura che, con l'eliminazione del buio (grazie a obiettivi più sensibili alla luce) è rimossa dall'immagine, esattamente come nella realtà è rimossa dalla crescente degenerazione della borghesia imperialista. Stimarono loro compito simularla con tutti gli artifici del ritocco, specie con la cosiddetta gomma bicromata. Così, specialmente nell'Art Nouveau, venne di moda una tonalità crepuscolare, interrotta da riflessi artificiali; nonostante la penombra, si delineava sempre più chiaramente una posa, la cui rigidità tradiva l'impotenza di quella generazione rispetto al progresso tecnico.

Eppure, in fotografia resta decisivo il rapporto fra il fotografo & la sua tecnica. Camille Recht lo ha caratterizzato con una bella immagine:

«Il violinista deve prima plasmare il suono, cercarlo e trovarlo fulmineamente; il pianista preme il tasto e la nota risuona. Come il fotografo, il pittore dispone di uno strumento. Il disegno e la stesura del colore del pittore equivalgono alla produzione della nota nell'esecuzione violinistica; come il pianista, il fotografo dispone di un congegno meccanico gravato da leggi, ma sono più restrittive di quelle che gravano sul violinista. Nessun Paderewski godrà della fama di esercitare un incanto quasi magico come Paganini».

Restando nell'ambito di tale immagine, c'è tuttavia un Busoni della fotografia: Atget. Ambi sono stati al contempo dei virtuosi e dei precursori. Condividono l'incomparabile dedizione al proprio lavoro, unita alla massima precisione. Vi sono affinità pure nei loro lineamenti. Atget era un attore che, nauseato dal suo mestiere, si levò la maschera e si mise a struccare pure la realtà. Visse a Parigi povero e ignoto, svendendo le sue fotografie ad amatori eccentrici quanto lui. È morto da poco, lasciando un'opera di oltre quattromila immagini, raccolte da Berenice Abbot a New York. Ne è stata appena pubblicata una cernita in un volume di straordinaria bellezza curato da Camille Recht3. La pubblicistica coeva

«nulla sapeva di quell'uomo, solito aggirarsi per gli atelier con le sue fotografie, date via per pochi spiccioli, spesso al prezzo di quelle cartoline illustrate che intorno al 1900 mostravano immagini abbellite di città, immerse nella notte blu, con la luna ritoccata. Aveva raggiunto il polo della somma maestria; ma, nell'atra grandezza di un grande esperto che vive sempre nell'ombra, ha evitato di piantarvi la sua bandiera. Perciò molti si illudono di aver scoperto il polo che Atget ha calpestato ben prima di loro».

In effetti, le sue immagini di Parigi precorrono la fotografia simbolista: truppe d'avanguardia dell'unica colonna affé cospicua che il surrealismo ha saputo mettere in moto. Atget è il primo a purificare l'aria stantia della ritrattistica dell'epoca di decadenza. Pulisce tale atmosfera, anzi la disinfetta: avvia la liberazione dell'oggetto dall'aura, che è il merito indiscusso della recente scuola fotografica. Quando le riviste d'avanguardia Bifur o Variété (titolando Westminster, Lilla, Anversa o Breslavia) illustrano meri dettagli (o parte d'una balaustra o una cima spoglia di un albero i cui rami intrecciati coprono un lampione a gas, o un muro divisorio o un candelabro con un salvagente su cui si legge il nome della città) solo forniscono accentuazioni letterarie dei motivi scoperti da Atget. Ma lui cercava ciò che è svanito indi le sue immagini si ribellano al suono esotico, pomposo, romantico dei nomi delle città; risucchiano l'aura dalla realtà come acqua pompata da una nave che affondi. Che cos'è davvero l'aura? Un singolare intreccio di spazio e tempo: l'apparizione unica di una lontananza, per quanto vicina possa essere. In un mezzogiorno estivo, riposando, seguire una catena di monti all'orizzonte o un ramo che getta la sua ombra sull'osservatore, finché l'attimo o l'ora partecipano della loro apparizione: ciò equivale a respirar l'aura di quei monti, di quel ramo. Ora, la tendenza attuale ad «avvicinare» le cose a sé, anzi alle masse, è intensa quanto quella a superar in ogni campo l'unicità mercé la sua riproduzione. Ogni giorno prevale di più il bisogno di impossessarsi dell'oggetto da distanza ravvicinata: nell'immagine, o meglio nella copia. E la copia (offerta da giornali illustrati e cinegiornali) si distingue dall'immagine. Nell'immagine si intrecciano unicità e durata; nella copia fugacità e ripetibilità. Privare un oggetto del suo involucro, distruggerne l'aura, è la cifra di una percezione il cui senso per cosa c'è di analogo nel mondo è cresciuto al punto che, tramite la riproduzione, discerne l'analogo pure nelle opere uniche. Atget ha quasi sempre negletto «le grandi vedute e i cosiddetti emblemi»; ma non una lunga fila di stivali, né i cortili parigini dove i carretti sostano allineati dalla sera alla mattina, né le tavole con le stoviglie non ancora rigovernate dopo il pasto (come se ne trovano a centinaia di migliaia assieme), o il bordello della Rue *** n. 5, con il cinque che spicca enorme in quattro diversi punti della facciata. Ma stranamente quasi tutte queste immagini sono vuote. Vuota la Porte d'Arcueil presso le fortifs, vuoti gli scaloni d'onore, vuoti i cortili, vuote le terrazze dei caffè, vuota (come è giusto) la place du Tertre. Luoghi non deserti ma privi di animazione; in tali immagini la città è deserta come un appartamento che non abbia ancora trovato inquilini nuovi. È in tali immagini che la fotografia surrealista prepara una salutare alienazione fra uomo e ambiente. Essa libera il campo allo sguardo politicamente educato, in cui ogni intimità cede il passo al risalto dei particolari.

È evidente che tale nuovo sguardo trarrà ben poco dall'ambito a cui più si soleva indulgere: la ritrattistica ufficiale (pagata). D'altro canto è impossibile che la fotografia rinunci alla presenza dell'uomo. A chi lo ignorasse, i migliori film russi hanno insegnato che pure l'ambiente e il paesaggio si rivelano solo ai fotografi che sanno coglierli nell'apparenza anonima che assumono nel volto umano. E tale possibilità è fortemente condizionata dal soggetto ripreso. La generazione che non mirava ad essere immortalata in fotografia, anzi che in tali situazioni si ritraeva timidamente nel proprio spazio vitale, facendolo così approdare sulla lastra (come Schopenhauer, sprofondato in poltrona nella fotografia di Francoforte realizzata intorno al 1850) non trasmise in eredità le sue virtù.

Anonimo, Il filosofo Arthur Schopenhauer (1788–1860).

È stato il film russo, per la prima volta dopo decenni, a conceder di apparire ante la cinepresa a persone senza alcun interesse per una loro fotografia. E, immediatamente, il viso umano è ricomparso sulla lastra con un significato nuovo, enorme. Ma non era più un ritratto. Che cos'era? È merito straordinario di un fotografo tedesco aver risposto a tale quesito. August Sander4 ha raccolto una serie di volti che nulla hanno da invidiare all'imponente galleria fisiognomica di un Ejzenštejn o di un Pudovkin, e lo ha fatto dal punto di vista scientifico.

«La sua opera complessiva si articola in sette gruppi, corrispondenti all'attuale ordinamento sociale; essa sarà pubblicata in circa 45 album con 12 fotografie ciascuno».

Finora è disponibile una cernita di 60 riproduzioni che offrono materia inesauribile di riflessione.

«Sander, partendo dal contadino, dall'uomo legato alla terra, conduce l'osservatore attraverso ogni ceto e professione: in alto fino ai massimi rappresentanti della civiltà; in basso fino all'idiota».

L'autore ha svolto tale compito non da studioso, né sotto consiglio di etnografi o sociologi, bensì, come dice l'editore, «partendo dall'osservazione diretta». Affé, è stato un lavoro affatto senza pregiudizi, perfino audace ed insieme delicato, nel senso della massima goethiana:

«Esiste una delicata empiria, che si identifica intimamente con l'oggetto divenendo in tal modo autentica teoria»*7.

Così è naturale che un osservatore come Döblin abbia notato proprio i momenti scientifici di quest'opera, dicendo:

«Come esiste un'anatomia comparata, necessaria per comprendere la natura e la storia degli organi, così August Sander pratica una fotografia comparata, dalla scientificità ben superiore a quella di chi fotografa particolari».

Sarebbe un danno se ragioni economiche impedissero la pubblicazione seriale di questo corpus straordinario. Oltre a tali ragioni teoriche, si può incitare l'editore pure in guisa più precisa. Opere come quella di Sander potrebbero all'improvviso assumere un'imprevista attualità. Mutamenti di potere, quali quelli correnti, sogliono render uopo ottener e perfezionar la visione fisiognomica. Che si venga da destra o da sinistra, serve abituarsi a esser guardati in faccia per saper donde veniamo. Noi, da parte nostra, dovremo far lo stesso con gli altri. L'opera di Sander è un atlante di esercizi più che un libro di immagini.

«Nella nostra epoca niuna opera d'arte è osservata con l'attenzione data alla fotografia di noi stessi, dei nostri parenti e amici, e dell'amata»,

scriveva Lichtwark già nel 1907, spostando l'analisi dal piano delle distinzioni estetiche a quello delle funzioni sociali. Solo a partire da qui tale analisi può proseguire. È significativo che il dibattito si sia irrigidito di più intorno all'estetica della «fotografia come arte»; anziché, ad es., stimar l'ovvio fenomeno sociale dell'«arte come fotografia». Eppure, per la funzione dell'arte stessa, l'effetto della riproduzione fotografica di opere d'arte ha più importanza della maggiore o minore artisticità di una fotografia, per la quale l'esperienza diviene una «preda della macchina fotografica». Infatti il dilettante che torna a casa con la sua pila di fotografie artistiche originali non offre uno spettacolo più piacevole del cacciatore che rientra dai suoi appostamenti con quintali di selvaggina buoni solo per chi li vende. Affé, pare vicino il giorno in cui ci saranno più giornali illustrati che venditori di pollame e selvaggina. Questo circa la mania di «scattare foto». Ma gli accenti si invertono se dalla fotografia come arte si passa all'arte come fotografia. Chiunque avrà potuto osservare che è più facile cogliere un quadro (e più ancora una scultura nonché un'architettura) in fotografia che dal vivo. È decettivo attribuire la ragione di tale fenomeno al declino del senso artistico, a una carenza dei contemporanei. Invece va constatato che, all'incirca contemporaneamente all'elaborazione delle tecniche riproduttive, è mutato il modo di concepire le grandi opere. Non si possono più considerare prodotti di singoli individui: sono divenute creazioni collettive, tanto imponenti da poter assimilarle solo potendone ridurne le dimensioni. Affé, i metodi di riproduzione meccanica sono una tecnica di riduzione che giova al tentativo di dominare le opere, senza cui esse non sono più fruibili.

Se esiste un elemento atto a caratterizzare i nessi attuali fra arte & fotografia, è la tensione irrisolta stabilitasi fra le due a seguito della fotografia delle opere d'arte. Molti di coloro che, in quanto fotografi, determinano la fisionomia attuale di questa tecnica provengono dalla pittura, che abbandonarono dopo aver tentato invano di congiungere i suoi mezzi espressivi & la vita odierna, in modo vitale e chiaro. Più essi erano sensibili ai segni del presente, più quel punto di partenza divenne per essi problematico. Come ottant'anni fa, la fotografia ha raccolto il testimone dalla pittura. Dice Moholy-Nagy:

«Le possibilità creative del nuovo si rivelano lentamente attraverso vecchie forme, vecchi strumenti e modi di composizione che l'apparizione del nuovo, incalzante, porta a un'euforica fioritura. Così, ad esempio, la (statica) pittura futurista delineò la problematica (da cui sarebbe stata distrutta) della simultaneità del movimento, la raffigurazione dell'attimo; per giunta in un periodo in cui il cinema, pur già noto, era lungi dall'essere compreso [...]. Così si possono stimare (seppur con cautela) pure certi pittori che oggi lavorano con mezzi figurativo-oggettivi (neoclassicisti e veristi) come precursori di una figurazione ottico-rappresentativa che presto userà solo mezzi meccanici e tecnici»*8.

E Tristan Tzara, nel 1922:

«Quando tutto ciò che si definiva arte divenne gottoso, il fotografo accese la sua lampada da mille candele e, poco a poco, la carta sensibile alla luce assorbì i neri di alcuni oggetti quotidiani. Si era scoperto il valore di un lampo luminoso, delicato e puro, più importante di qualsiasi costellazione proposta per la gioia dei nostri occhi».

I fotografi che dalle arti figurative sono approdati alla fotografia non per ragioni opportunistiche, né casualmente o per pigrizia, sono oggi l'avanguardia fra i loro colleghi, poiché, con tale evoluzione, in certa misura sono protetti dal maggior pericolo della fotografia attuale: la vena industriale o decorativa*9. Sasha Stone sostiene:

«La fotografia come arte è un ambito molto pericoloso».

Se la fotografia se si emancipa dall'interesse fisiognomico, politico, scientifico (offerti da un Sander, una Germaine Krull, un Bloßfeldt), diviene «creativa». L'obiettivo mira alla «veduta d'insieme»; compare il tipo del fotografo mestierante.

«Lo spirito, superando la meccanica, ne traduce i risultati esatti in parabole di vita».

Quanto più dilaga la crisi dell'assetto sociale attuale, quanto più rigidamente i suoi singoli elementi si oppongono in sterile contraddizione, tanto più la creatività (che nella sua più intima essenza è una variante, prole del connubio di contrasto e imitazione) si muta in un feticcio, i cui tratti devono la propria vita ai cambi di illuminazione dettati dalla moda. La creatività nella fotografia sta nel suo consegnarsi alla moda. «Il mondo è bello»: ecco il suo motto, il quale smaschera la posizione di una fotografia capace di inserire nel tutto cosmico un qualsiasi barattolo di conserva ma incapace di cogliere uno solo dei contesti umani in cui essa appare; cioè una fotografia che pure nei suoi soggetti più trasognati, prefigura più la vendibilità che l'intelligibilità. Ma, poiché il vero volto di tale creatività fotografica è la réclame o l'associazione, la sua precisa antitesi è lo smascheramento o la costruzione. Infatti, dice Brecht, il tutto

«si complica perché giammai una semplice “riproduzione della realtà” dice qualcosa di quella realtà. Una fotografia delle officine Krupp o della AEG non rivela quasi nulla di tali istituzioni. La realtà vera è scivolata nel funzionale. La reificazione dei rapporti umani (es.: il sistema-fabbrica) non restituisce più tali rapporti. Così serve “costruire qualcosa”, qualcosa di “artificiale”, di “studiato”»*10.

È merito dei surrealisti aver formato dei pionieri in una simile costruzione fotografica.   Il cinema russo segna un'ulteriore tappa in questo confronto tra fotografia creativa & costruttiva. Non è esagerato dire che le grandi opere dei suoi registi erano possibili solo in un Paese u’ la fotografia non si prefigge fascino e suggestione bensì esperimento e istruzione. In tal senso, e solo in questo, si può ancora capire il maestoso saluto con cui nel 1855 il rozzo pittore di idee Antoine Wiertz accolse la fotografia:

«Pochi anni fa è nata la gloria della nostra epoca, una macchina che ogni giorno stupisce il nostro pensiero e spaventa i nostri occhi. Tale macchina fra meno di un secolo sarà il pennello, la tavolozza, i colori, l'abilità, l'esperienza, la pazienza, l'agilità, il tocco, l'impasto, la velatura, il modello, la compiutezza, l'estratto della pittura [...]. Non si pensi che il dagherrotipo uccida l'arte [...]. Allorché il dagherrotipo, neonato di gigante, sarà cresciuto; allorché tutta la sua arte e la sua forza si saranno attuate, allora il genio l'afferrerà per la nuca e griderà: “Vieni qui! Ora mi appartieni! Lavoreremo insieme”»*11.

Al confronto, quanta sobrietà, anzi pessimismo, sta nelle parole con cui quattro anni dopo, nel Salon de 1859, Baudelaire presenterà ai suoi lettori la nuova tecnica. Queste, come quelle precedenti, non si possono leggere oggi senza spostare lievemente gli accenti. Ma esse, essendo il contraltare delle considerazioni di Wiertz, hanno conservato in toto il loro senso di reciso rifiuto di ogni usurpazione da parte della fotografia artistica.

«In questi nostri tempi tristi, è sorta una nuova industria, che ha contribuito non poco a rafforzare nella propria fede la stupidità [...] che l'arte sia esclusivamente la riproduzione fedele della natura [...]. Un Dio vendicatore ha esaudito i voti di questa massa. E Daguerre fu il suo messia».

E:

«Se si consente alla fotografia di supplire l'arte in alcune delle sue funzioni, presto la soppianterà o rovinerà, in virtù della sua naturale alleanza con la massa. Indi la fotografia deve tornare al suo vero compito, che è quello di essere l'ancella delle scienze e delle arti»*12.

Una cosa però è sfuggita a Wiertz e a Baudelaire: le indicazioni insite nell'autenticità della fotografia. Non sempre si riuscirà a eluderle con un reportage, le cui immagini hanno effetto sul lettore solo se associate con didascalie. La macchina fotografica diviene sempre più piccola, sempre più atta a fissar immagini fuggevoli e segrete, il cui choc blocca nello spettatore il meccanismo dell'associazione. A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nella letterarizzazione di tutte le condizioni di vita e senza la quale ogni costruzione fotografica resta d'uopo approssimativa. Non a caso si sono paragonate le fotografie di Atget a quelle del luogo di un delitto. Ma ogni angolo delle nostre città non è forse un luogo del delitto, non è ogni passante un criminale? Il fotografo (epigono di auguri e aruspici) non deve forse svelare nelle sue immagini la colpa e indicare il colpevole? È stato detto:

«l'analfabeta del futuro non sarà chi non conosce la scrittura bensì chi ignora la fotografia»*13.

Ma il fotografo che non sa leggere le proprie immagini non varrebbe meno di un analfabeta? La didascalia non diventerà «la parte più importante della fotografia»? Sono queste le domande in cui la distanza di 90 anni che ci separa dalla dagherrotipia si scarica delle sue tensioni storiche. Ed è nel bagliore di tali scintille che le prime fotografie, così belle e inavvicinabili, emergono dal buio dell'età dei nostri avi.


Note

1. Helmut Theodor Bossert e Heinrich Guttmann, Aus der Frühzeit der Photographie, 1840-1870. Ein Bildbuch nach 200 Originalen [Dai primordi della fotografia, 1840-70. Un libro illustrato con 200 immagini originali] (Frankfurt, 1930); Heinrich Schwarz, David Octavius Hill, der Meister der Photographie, mit 80 Bildtafeln [David Octavius Hill. Il maestro della fotografia. Con 80 tavole] (Leipzig, 1931). [N.d.a.]

2. Karl Bloßfeldt, Urformen der Kunst. Photographische Pflanzenbilder, a cura e con introduzione di Karl Nierendorf (Berlin, 1928). [N.d.a.]

3. Eugène Atget, Lichtbilder [Fotografie], introduzione di Camille Recht (Paris-Leipzig, 1930). [N.d.a.]

4. August Sander, Antlitz der Zeit. Sechzig Aufnahmen deutscher Menschen des 20. Jahrhunderts. Mit einer Einleitung von Alfred Döblin [Volti di questo tempo. Sessanta ritratti di uomini del XX secolo. Con un’introduzione di Alfred Döblin] (München, 1929). [N.d.a.] [La traduzione italiana, di Angelica Tizzo, del testo di Döblin appare ora in August Sander, Uomini del ventesimo secolo, Milano 2012 (passo citato a p. 15).]

*1. Citato in Max Dauthendey, Der Geist meines Vaters. Aufzeichnungen aus einem begrabenen Jahrhundert, München 1912, p. 61.

*2. Rapport de Dominique François Jean Arago, député des Pyrénées orientales, devant la Chambre des députés, fait le 3 juillet 1839, citato da Josef Maria Eder, Geschichte der Photographie, terza ed., Halle 1905, pp. 187-95 (cap. XVI); cfr. J.F. Arago, Œuvres complètes, éd. par J.-A. Barral, tomo VII, 1858, Le Daguerréotype, pp. 455-517.

*3. Citato in Georges Potonniée, Histoire de la découverte de la photographie, Paris 1925 (cfr. Arago, Œuvres complètes, cit., p. 500).

*4. Stefan George: Standbilder, das Sechste, in: Der Teppich da Lebens und die Lieder von Traum und Tod [Il tappeto della vita e i canti del sogno e della morte], Holten, Berlin 1899.

*5. In realtà, si tratta di Giambattista della Porta.

*6. Tale commento di Benjamin figura (col titolo: Ritratto di un bambino) pure nel suo saggio del 1934: Franz Kafka. Per il decennale della morte (in: Id., Opere, cit., p. 134).

*7. Johann Wolfgang Goethe: Massime e riflessioni, ed. it. a cura di S. Giametta, Rizzoli, Milano 1982, n. 565.

*8. László Moholy-Nagy: Malerei Fotografie Film, Langen, München 1925, 1927; ed. it. a cura di A. Somaini, Pittura Fotografia Film, Einaudi, Torino 2010, pp. 25-26.

*9. Tristan Tzara: La Photographie à l’envers, trad. di W. Benjamin con il titolo Die Photographie von der Kehrseite, in «G. Zeitschrift für elementare Gestaltung», luglio 1924, p. 30.

*10. Bertolt Brecht, Der Dreigroscbenprozeß (1931), Gesammelte Werke in 20 Bde., Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967, vol. XVIII, p. 161.

*11. Antoine J. Wiertz: La photographie (1855), in: Œuvres littéraires, Parent, Bruxelles 1869, pp. 309-10. La traduzione dal francese di Benjamin altera il testo originale di Wiertz.

*12. Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, trad. it. di G. Guglielmi ed E. Raimondi, Torino 1981, pp. 219-221.

*13. Frase dell’artista ungherese Moholy-Nagy in un suo commento senza titolo all'articolo di Ernst Kállai Malerei und Photographie (Pittura e fotografia) apparso sulla rivista «i10» nel 1927. Benjamin la riprende, oltre che in questo scritto, nel suo articolo Novità sui fiori, pubblicato su «Die literarische Welt» il 23 novembre 1928.



Ultima modifica 2019.12.01