La sacra famiglia

Friedrich Engels, Karl Marx (1844)


Tradotto da Enrico Leone (†1940).

Trascrizione di Vito Leli e coding di Leonardo Maria Battisti, settembre 2019


QUARTO CAPITOLO. La Critica critica come serenità della coscenza, ovvero la Critica critica come signor Edgardo

I. - L'Union ouvrière della Flora Tristan.

I socialisti francesi affermano: Il lavoratore fa tutto, produce tutto, e intanto non ha alcun diritto, alcun possesso, in conclusione non ha nulla. La critica risponde per la bocca del signor Edgardo che personifica la “serenità della conoscenza„: Per potere tutto creare occorre ben più forte consapevolezza di quella del lavoratore; tutto al contrario, sarebbe vera la proposizione: Il lavoratore non fa nulla, perciò non ha nulla; ma egli non fa nulla perchè il suo lavoro, restando sempre qualche cosa di incompleto, rivolto al suo proprio bisogno, è giornaliero.

La critica arriva qui quell'altezza dell’astrazione nella quale essa considera senz’altro le sue proprie creazioni intellettuali, cioè la generalità in contrasto con ogni realtà, per “qualche cosa„ anzi per “tutto„. Il lavoratore non produce nulla, perchè egli crea puramente, “qualche cosa di particolare„, cioè cose sensibili, maneggiabili, sfornite di spirito e di critica: cose che sono un orrore agli occhi del critico puro. Tutto ciò che è effettivo, vivente, non è critico, è proprio della massa, e perciò non è “niente„: soltanto le creature ideali, fantastiche della Critica critica sono “tutto„.

L’operaio non crea nulla, perchè il suo lavoro restando sempre qualche cosa di "singolo„ è basato sul suo mero bisogno individuale; perché i singoli, connessi rami del lavoro, in questo ordinamento sociale presente sono divisi, sono, anzi posti l’un contro l’altro: in breve perchè il lavoro non è organizzato.

Il principio proprio della Critica, quando lo si comprenda nel solo senso razionale possibile che esso possa avere, richiede l’organizzazione del lavoro. Flora Tristan, durante la cui critica da parte della Critica viene alla luce questa grande proposizione, chiede l’istessa cosa e viene per questa sua insolenza di anticipare la Critica critica trattata en canaille.

Il lavoratore non crea nulla: questo principio, del resto – se si astrae da ciò che il lavoratore particolare non produce nulla di totale, ciò che è una tautologia – è completamente pazzesco. La Critica critica non crea nulla, il lavoratore crea tutto, e tanto più egli produce tutto in quanto egli fa vergognare tutta la critica anche con le sue creazioni spirituali: i lavoratori inglesi e francesi potrebbero fornir la prova di ciò. Il lavoratore anzi crea l’uomo: il critico resterà sempre un non-uomo, in cambio di che, egli veramente ha la soddisfazione di essere critico critico.

“Flora Tristan ci dà un esempio di quel donnesco dogmatismo, che vuole avere una formula, e se la forma dalle categorie dell’esistente„.

La critica non fa altro che “formarsi formole con le categorie dell’esistente„, specialmente dell’esistente filosofia hegeliana e delle esistenti correnti sociali; formole, niente altro che formole. E nonostante tutte le sue invettive contro il dogmatismo, si condanna da sè stessa al dogmatismo, anzi al dogmatismo donnesco. Essa è e resta una vecchia donna: la filosofia hegeliana, appassita e resa vedova, che, al suo corpo disseccato fino alla più nauseante astrazione, dà il belletto e l’acconciatura, e si guarda intorno in cerca di un pretendente per tutta la Germania.

II. – Beraud sulle ragazze allegre.

Il signor Edgardo, che si picca di sentimenti pietosi nei problemi sociali, s’immischia anche nella “condizione delle prostitute” (V. pag. 26).

Egli critica il libro del commissario di polizia di Parigi Beraud sulla prostituzione, perchè per lui è questione del “punto di vista„, dal quale Beraud considera la posizione delle prostitute di fronte alla società.

La “serenità del giudizio„ si sorprende, allorché essa trova che un poliziotto ha per lo appunto un punto di vista poliziesco e dà ad intendere alla massa sia un punto di vista del tutto sbagliate. Però, il proprio punto di vista, essa non si cura di farcelo sapere. Naturalmente! Se la critica si occupa delle ragazze allegre, non si può pretendere che questo avvenga dinanzi al pubblico.

III. – L’amore.

Per perfezionarsi nella “serenità del conoscere„, la Critica critica deve innanzi tutto cercare di liberarsi dall’amore. L’amore è una passione, e niente di più pericoloso della passione per la serenità del conoscere. In occasione dei romanzi della signora von Paalzow, che egli assicura di “avere profondamente studiato„, il signor Edgardo vince una “bambinata come il cosiddetto amore„. Esso è orribile e detestabile, e muove a rabbia la Critica critica, la rende amara quasi come il fiele, anzi la manda fuori dei sensi.

“L’amore.... è una Dea crudele, che, come ogni divinità, vuol possedere per intero l’uomo e non è contenta prima che egli le abbia non solamente dato in olocausto l’anima, ma anche ristesse persona fisica. Il suo culto è la sofferenza, il culmine di questo culto è l’autoimmolazione, il suicidio„.

Il signor Edgardo, per mutare l’amore in un “Moloch„, nel diavolo in carne ed ossa, lo trasforma prima in una Dea. Trasformato in una Dea, cioè in un oggetto teologico, lo sottopone naturalmente alla critica della teologia, ed inoltre come è noto fra Dio e il diavolo non vi è gran lontananza.

Il signor Edgardo trasforma l’amore in una Dea, e più propriamente in una “Dea crudele„, facendo dell’uomo amante, dell’amore dell’uomo, l’uomo dell’amore, separando l’amore, come un essere a parte, dall’uomo e oggettivandolo come tale. Mediante questo semplice processo, mediante la mutazione del predicato in soggetto, si possono criticamente trasformare le determinazioni e le esternazioni dell’essere (Wesen) dell’uomo in non essere e in esteriorizzazione dell’essere (Wesensentaüsserungen). Così, per esempio, la Critica critica fa della critica, come predicato e attività dell’uomo, un subbietto a parte, che si regge su se stesso e perciò è Critica critica: un “Moloch„ il cui culto è l’immolazione di se medesimo, il suicidio dell’uomo, specialmente delle facoltà del pensiero umano.

“Oggetto!„ – esclama la serenità della conoscenza – “oggetto„ questa è l’esatta espressione, perchè l'amato è per lo amante (manca il feminino), importante solamente come obbietto esterno della sua affezione, come oggetto nel quale vuol vedere soddisfatto il suo sentimento egoistico„.

Oggetto! Spaventevole! Non v’è niente di più riprovevole, di più profano, di più infetto dalla massa d’un oggetto: abbasso l'oggetto! L’assoluta subiettività, l’actus purus, la “pura critica„, come non dovrebbero scorgere nell’amore la loro bête noire, il Satana in carne od ossa, nell’amor che, primieramente, insegna all’uomo a credere al mondo oggettivo esterno a lui, e che non soltanto muta l'uomo in oggetto, ma anche l’oggetto in uomo!

L’amore, continua a dire fuori di sé la serenità del conoscere, non si acqueta di trasformare l’uomo nella categoria: obbietto per gli altri uomini; esso lo muta anzi in un oggetto determinato ed effettivo. Lo muta in questo oggetto malamente detto individuale (si vegga la Fenomenologia di Hegel sopra il questo e il quello, ove si polemizza anche contro il malamente detto questo) esterno, in un obbietto, cioè, non solo interno, che rimane fermo nel cervello, ma in un obbietto esterno e sensibile:

Amor
Non vive solo murato nel cervello.

No, l’amata è un oggetto sensibile, e la Critica critica esige per lo meno, se essa si deve degnare di riconoscere un oggetto, che sia un oggetto incorporeo. Ma l’amore è un materialista, non critico e non cristiano.

Finalmente l’amore cangia interamente l'un uomo in “questo esterno oggetto del sentimentalismo„ dell’altro uomo, nell’oggetto in cui si appaga il sentimento egoistico dell’altro uomo egoistico, perchè cerca la sua propria essenza in un altro, e ciò non dev’essere. La Critica critica è così scevra da ogni egoismo, che essa trova esaurita tutta l’estensione dell’essere umano nel suo proprio io.

Il signor Edgardo non ci dice, naturalmente, perchè l’amata si distingue dai restanti “oggetti esterni dell’amore, in cui si soddisfano gli egoistici sentimenti degli uomini„. Lo spirituale oggetto dell’amore, ipersensibile, espressivo, non suggerisce altro alla “tranquillità della conoscenza„ che lo schema categorico: “Questo oggetto esterno del sentimentalismo„, quasi come una cometa, al filosofo speculativo non dice nient’altro all'infuori della “negatività„. In quanto l’uomo muta l’uomo in esterno obbietto del suo amore, egli veramente, secondo le stesse confessioni della Critica critica gli annette importanza, ma una importanza per così dire oggettiva, mentre l’importanza, che la critica annette agli oggetti, non è altro che l’importanza che essa stessa si attribuisce, e che risalta quindi non già nell’“essere malamente detto esterno„ ma nel “nulla„ dell’oggetto criticamente importante.

Se la “serenità della conoscenza„ non possiede alcun oggetto nell’uomo effettivo, possiede però nell’umanità una causa. L’amore critico “si guarda sopratutto di dimenticare, occupandosi della persona quella causa, che non è altro che la causa dell’umanità„.

L’amore non critico non separa l’umanità dall'uomo personale e individuale.

“L’amore stesso, come astratta passione, la quale viene non si sa da dove, e va non si sa dove, è contrario all’interesse d'un intimo sviluppo„.

L’amore, agli occhi della conoscenza serena, è una passione astratta secondo l’uso speculativo della lingua, mercè il quale il concreto significa l’astratto, e l’astratto concreto:

Ella non ora nata alla convalle,
Nè mai si seppe donde era venuta:
Ma fu presto ogni sua orma perduta
Appena la ragazza se ne andò.

L’amore per l’astrazione è “la ragazza forestiera„, senza passaporto dialettico ed è perciò espulsa dalla polizia critica nazionale.

La passione dell’amore non è soscettihile dell’interesse d’un intimo sviluppo, perchè essa non può essere costruita a priori, perchè il suo è uno sviluppo reale che si verifica nel mondo sensibile e tra individui reali. Ma l'interesse fondamentale della costruzione critica è il “Donde„ (Woher) e il “Dove?„ (Wohin). Il “donde„ è appunto la necessità di un concetto, la sua prova e deduzione (Hegel). Il “dove„ è la determinazione – per cui ogni membro isolato del ciclo speculativo, è nell’istesso tempo come la parte animata del metodo e il principio d’un nuovo membro (Hegel). Dunque, soltanto se il “donde„ ed il “dove„ potessero essere costruiti a priori, allora l’amore meriterebbe l’interesse “della critica speculativa„.

Ciò che qui combatte la Critica critica non è solo l’amore, ma ogni cosa vivente, ogni immediato, ogni esperienza sensibile, soprattutto ogni esperienza reale della quale l’uomo non sappia già innanzi: “donde„ viene e “dove„ va.

Il signor Edgardo come “serenità della conoscenza„ si preoccupa perfettamente per la soppressione dell’amore: ed ora può conservare di fronte a Proudhon non solo una grande virtuosità della conoscenza, mercè la quale l’“oggetto„, ha cessato di essere “questo esterno oggetto„, ma benanche una più grande disamorevolezza per la lingua francese.

IV. – Proudhon.

Non soltanto Proudhon, ma anche il punto di vista “proudhoniano„ secondo ce ne riferisce il critico critico ha dettato lo scritto: Qu’est-ce que la propriètè?

“Io incomincio la mia descrizione del puntò di vista proudhoniano con la caratteristica del suo (del suo punto di vista) scritto: Che cosa è la proprietà?„.

Poiché gli scritti del punto di vista critico posseggono per se stessi un carattere, così necessariamente la caratteristica critica comincia col dare allo scritto di Proudhon un carattere. Il signor Edgardo dà a questo scritto un carattere in quanto egli lo traduce. Egli gli dà naturalmente un cattivo carattere, perchè egli lo trasforma in oggetto della critica.

Lo scritto di Proudhon soggiace ad un doppio attacco del signor Edgardo, ad uno tacito, racchiuso nello stile della sua caratteristica traduzione, ad un altro apertamente espresso nelle sue glosse marginali critiche. Noi vedremo che il signor Edgardo è più schiacciante quando traduce, che quando fa le sue glosse.

Traduzione caratteristica n. 1.

“Io non voglio (cioè il Proudhon, criticamente tradotto) offrire alcun nuovo sistema, non voglio che l’abolizione di ogni privilegio, la distruzione della schiavitù... Giustizia, null’altro che giustizia, questo è ciò che io penso„.

Il caratterizzato Proudhon si limita alla volontà ed al pensiero, perchè il “buon volere„ e la “opinione„ non scientifica sono i caratteristici attributi della massa non critica. Il caratterizzato Proudhon procede così pieno di umiltà, come alla massa si conviene, e subordina ciò ch’egli vuole a ciò che non vuole. Egli non si eleva a voler offrire un nuovo sistema, ma egli vuole molto meno, anzi non vuole niente all’infuori dell’abolizione del privilegio, ecc. All’infuori di questa critica subordinazione del volere ch’egli fa alla volontà che non ha, si manifestano le sue prime parole anche per un caratteristico difetto di logica. Lo scrittore che inizia il suo libro col dire che non vuol darci alcun sistema nuovo, ci dirà che cosa vuole darci, sia un alcunché di vecchio sistematico o una non sistematica novità. Ma il caratterizzato Proudhon, che non vuol darci alcun nuovo sistema, vuole egli darci l’abolizione dei privilegi? No. Egli li vuole.

Il vero Proudhon dice:

“Je ne fais pas de systèmes; je demandila fin du privilège„, ecc. “Io non faccio sistemi, io domando„, ecc.

Ciò significa che il vero Proudhon dichiara che egli non segue alcuno scopo astrattamente scientifico, ma pone delle richieste immediatamente pratiche alla società. E la richiesta ch’egli avanza non è arbitraria. Essa è motivata ed è giustificata da tutto l’intero sviluppo che egli dà; essa è il riassunto di questo sviluppo, cioè:

“Justice, rien que justice; tel est le rèsumé de mon discours„.

Il caratterizzato Proudhon si trova col suo “Giustizia, nient’altro che giustizia, ecco ciò che io penso, in un imbarazzo tanto più serio in quanto egli pensa molte altre cose, e secondo il signor Edgardo, per esempio, “pensa„ che la filosofia non sia stata pratica abbastanza, “pensa„ di contrapporsi a Carlo Comte, ecc.

Il “critico„ Proudhon si chiede:

“Deve l'uomo essere sempre infelice?„,

cioè si domanda se la infelicità è la morale destinazione dell'uomo. Il vero Proudhon è un leggerissimo francese, e si chiede se l'infelicità è una materiale necessità, una costrizione (müssen):

L’homme doit-il ètre eternellement malheureur?„.

Il Proudhon della massa dice:

“Et sans m’arrèter aux explieations à toute fin des entrepreneurs de réformes, accusant de la détresse generale ceux-ci la làcheté et l’impéritie du pouvoir, ceux-là les conspirateurs et les émeutes, d’autres l’ignorance et la corruption generale„, ecc.

Poiché l’espressione à toute fin è una cattiva espressione usata dalla massa, che non si trova nei dizionari tedeschi scritti per la massa, così il critico Proudhon naturalmente mette da banda questa determinazione più prossima delle “spiegazioni„. Questo termine è preso ad imprestito dalla giurisprudenza della massa francese, ed explications à toute fin significa spiegazioni che troncano ogni obbiezione. Il Proudhon critico offende i riformisti, un partito socialista francese; il Proudhon della massa i fabbricanti di riforme. Per il Proudhon della massa vi sono diverse classi degli “entrepreneurs de riformes„. Questi, “ceux-ci„, dicono ciò; quelli, “ceux-là„, ciò; altri, “d'autres„, ciò. Il Proudhon critico lascia invece che questi stessi riformisti “reclamino ora – ora – ora –„, ciò che in ogni caso sta ad attestare la loro incostanza.

Il vero Proudhon, che si conduce secondo la pratica francese della massa, parla di “les consprireteurs et les emeutes„, cioè prima dei congiurati e poi della loro azione, le sommosse. Il Proudhon critico, che ha mescolato alla rinfusa le diverse classi dei riformisti, classifica invece i ribelli, e dice perciò: i congiurati e gl’insorti. Il Proudhon della massa parla della ignoranza e “della generale corruzione„ (Verdorbenhait). Il critico Proudhon trasforma l’ignoranza in stupidaggine, la “corruzione„ in “abbiezione„, e in ultimo, nella sua qualità di critico critico rende universale la stupidaggine. Egli ne dà immediatamente un esempio mettendo “génèrale„, invece che al plurale, al singolare. Egli scrive: “l’ignorance et la corruption génèrale„ per “la generale ignoranza e corruzione„. Secondo la grammatica francese non critica doveva allora dirsi: “l’ignorance et la corruption génèrales„.

Il caratterizzato Proudhon, che scrive e pensa diversamente dal Proudhon della massa, si è necessariamente andando formando la sua coltura in modo diverso. Egli

“interrogò i maestri della scienza, lesse cento volumi di filosofia e di scienza del diritto, ecc., e scorse in ultimo che noi non ancora abbiamo compreso il senso delle parole: giustizia, legittimità, libertà„.

Il vero Proudhon erede dapprima di avere riconosciuto (j’ai ere d’abord reconnaitre) ciò che il Proudhon critico scorse “per ultimo„. La trasformazione critica di “d’abord„ in “enfin„ è necessaria, perchè la massa non può pretendere di capire “a tutta prima„. Il Proudhon della massa racconta espressamente come restasse scosso da questo strano risultato dei suoi studi e come non si sia fidato di esso. Egli deliberò perciò di fare una controprova, e si domandò:

“È possibile che l’umanità si sia ingannata per tanto tempo e in maniera tanto generale sui principi dell’applicazione della morale? Come e perché si è ingannata?„ ecc.

Dalla soluzione di queste questioni ei fece dipendere la giustezza dello sue osservazioni. Ei trovò che nella morale, come negli altri rami del sapere, gli errori sono “gradi della scienza„. Il Proudhon critico invece si affida subito alla prima impressione che gli hanno fatto i suoi studi giuridici, economici e gli altri studi affini. S’intende: la massa non può procedere in nessuna maniera approfondita, essa deve spacciare i primi risultati dei suoi studi come verità inoppugnabili. Essa si è “belle sbrigata fin dapprincipio, prima ancora che si sia cimentata colla sua antitesi„; quindi “appare„ all’ultimo che essa non è ancora arrivata al principio allorquando crede di essere alla fine.

Il Proudhon critico continua dunque a ragionare nel modo più inconsistente e sconnesso:

“La nostra conoscenza della legge morale non è perfetta a primo tratto; essa può per qualche tempo bastare al progresso sociale, ma a lungo andare ci condurrà ad una falsa strada„.

Il Proudhon critico non spiega i motivi pei quali una imperfetta conoscenza della legge morale possa bastare, anche per un sol giorno, al progresso sociale. Il Proudhon reale, dopo che ha sollevato la questione se e perchè l’umanità possa avere per tanto tempo e così universalmente sbagliato, dopo che lui trovato la soluzione che gli errori sono aradi della scienza, che i nostri giudizi piu imperfetti racchiudono una somma di verità, che sono sufficienti per un certo numero d’induzioni, come per una determinata sfera della vita pratica, ma che all’infuori di questo numero e di questa sfera ei conducono teoricamente all’assurdo e praticamente alla ruina, può dire che anche una imperfetta conoscenza della legge morale possa per qualche tempo bastare al progresso sociale.

Il Proudhon critico:

“Ma, se ora è diventata necessaria una nuova conoscenza: si sfrena così una più aspra lotta tra i vecchi pregiudizi e le nuove idee„.

Come si può sollevare una lotta contro un nemico che non esiste ancora? E il Proudhon critico ci ha detto, è vero, che una nuova idea è diventata necessaria, ma non che essa è già divenuta.

Il Proudhon della massa:

“Non appena la più alta conoscenza è diventata indispensabile, essa non manca...„, cioè essa esiste. “Allora comincia la lotta„.

Il Proudhon critico afferma che “sia destinazione dell’uomo istruirsi a passo a passo„ come se l’uomo non avesse tutta una altra destinazione, cioè quella di esser uomo, e come se l'auto-didattica “passo a passo„ conduca necessariamente ad un passo ulteriore. Io posso camminare a passo a passo ed arrivare appunto a quel posto dal quale ero partito. Il Proudhon non critico non parla di destinazione (Bestimmung), ma di condizione (Bedingung) per l’uomo di istruirsi, non a passo a passo (schrittweise) ma per gradi (par degrés). Il Proudhon critico dice a se stesso.

“Tra i principî sui quali riposa la società ve ne è uno, che essa non intende, che è guastato dalla sua ignoranza e che cagiona ogni male. Eppure si onora questo principio, eppure lo si vuole, perchè altrimenti esso resterebbe senza influenza. Or questo principio che è vero secondo la sua sostanza, ma falso quale noi lo concepiamo... qual è?„.

Nella prima proposizione il Proudhon critico dice che il principio è guastato, misconosciuto dalla società, cioè è giusto in se stesso. Per abbondanza contessa nella seconda proposizione che è vero in sostanza e ciò nondimeno rimprovera alla società che essa cerchi ed onori “questo principio„. Il Proudhon della massa invece non deplora per nulla questo principio, ma che questo principio, così come è stato falsificato dalla nostra ignoranza, sia voluto ed onorato. “Ce principe... tel que notre ignorance l’a fait est honoré„. Proudhon critico trova vera la sostanza del principio nella sua forma non vera. Il Proudhon della massa trova che la sostanza del principio falsificato è una nostra falsa concezione, ma che esso è vero nel suo oggetto (objet), proprio all’istesso modo che la sostanza dell’alchimia e dell’astròlogia è una nostra fantasia ma il suo oggetto – il movimento celeste e le proprietà chimiche dei corpi – è vero.

Il Proudhon critico continua nel suo monologo:

“L’obbietto della nostra ricerca è la legge, la determinazione del principio sociale. Orbene i politici, cioè gli uomini della scienza sociale, sono nella più perfetta oscurità: ma, come in fondo ad ogni errore v’è una verità, così si trovano nei loro libri quelle verità che hanno posto nel mondo senza ch’essi lo sappiano„.

Il Proudhon critico ragiona nella maniera più fantastica. Dal fatto che i politici sono poco chiari ed ignoranti, egli in modo del tutto arbitrario passa ad affermare che in fondo ad ogni errore giace una realtà, ciò che può essere tanto poco messo in dubbio, dal momento che in ogni errore v’è al fondo una realtà nella persona che lo commette. Da ciò che in ogni errore v’è al fondo una realtà, egli conclude, inoltre, che la verità deve trovarsi nei libri degli uomini politici. E finalmente afferma che questa verità sia stata posta nel mondo dai politici. Ma, se essi l’avessero messa al mondo, non occorrerebbe cercarla nei loro libri.

Il Proudhon della massa:

“Gli uomini politici non s’intendono tra di loro “ne s’entendent pas„: dunque il loro errore è subbiettivo, radicato in loro stessi “donc c’est en eux que l’erreur„. Il loro reciproco fraintendimento dimostra la loro unilateralità. Essi scambiano “la loro opinione privata con la sana ragione„ e “poiché – per le antecedenti deduzioni – ogni errore ha per oggetto una vera realtà, così si deve nei loro libri trovare la verità che vi han posto a loro insaputa, cioè nei loro libri, ma non nel mondo„. “Dans leurs livres doìt se trouver la vérité, qu’à leur insù ils y auront mis„.

Il Proudhon critico si chiede:

“Che cosa è la giustizia, qual è la sua sostanza, il suo carattere, il suo significato?„,

come se essa potesse avere un significato indipendente e diverso dalla sostanza e dal carattere. Il Proudhon non critico si chiede:

“Qual è il suo principio, il suo carattere e la sua formula?„.

La formula è il principio come principio dello sviluppo scientifico. Nella lingua francese della massa “formule„ e “signification„ divergono in maniera essenziale. Nella lingua francese critica esse coincidono.

Secondo le sue discussioni, invero, altamente arbitrarie il Proudhon critico si raccoglie in uno sforzo ed esclama:

“Procuriamo di accostarci un poco di più al nostro oggetto„.

Il Proudhon non critico, che è arrivato da tempo al suo oggetto, cerca invece di arrivare alla determinazione più acuta e positiva del suo oggetto “d’arriver à quelque chose de, plus précis et de plus positif„.

La “legge„ è per il Proudhon critico una “determinazione del giusto„, per il non critico è una sua dichiarazione “déclaration„. Il Proudhon non critico combatte la veduta che il diritto sia fatto dalla legge. Ma una “determinazione della legge„, però, può tanto significare che la legge è determinata, quanto che essa determina, come del resto, qui sopra, il critico Proudhon stesso parlava della determinazione del principio sociale in quest’ultimo senso.

È veramente una sconvenienza del Proudhon della massa ch’egli faccia tanto sottili distinzioni.

Dopo queste differenze tra il Proudhon criticamente caratterizzato ed il Proudhon reale, non è più da stupire che Proudhon n. 1 procuri di dimostrare cose del tutto diverse da quelle del Proudhon n. 2.

Il Proudhon critico

“cerca di dimostrare con le esperienze della storia , che se la idea che noi ci facciamo del giusto e del diritto è falsa, è evidente che – malgrado sia evidente, tenta di provarlo – ogni sua applicazione nella legge deve essere cattiva, e che tutti i nostri ordinamenti debbono essere difettosi„.

Il Proudhon della massa è ben lontano dal volere provare ciò che è evidente. Egli dice piuttosto:

“Se la idea che noi ci facciamo del giusto e del diritto fosse mal determinata, se essa fosse imperfetta o addirittura falsa, è evidente che tutte le nostre applicazioni legislative sono cattive„.

Che cosa ora vuole dimostrare il Proudhon non critico?

“Se questa ipotesi – egli prosegue – del pervertimento della giustizia nella nostra concezione, e conseguentemente nelle nostre azioni, fosse un fatto dimostrato, se le opinioni degli uomini in rapporto alla nozione della giustizia e in rapporto alla sua applicazione non fossero state costantemente le istesse, se avessero in vari tempi ricevuto rao- dificazioni, in una parola se il progresso nelle idee avesse avuto luogo... E sono appunto queste incostanze, queste mutazioni, questo progresso “che la storia dimostra con le prove più strepitose„.

Il non critico Proudhon cita ora queste prove splendide. Il suo alter-ego critico, come trae un tutt’altro insegnamento dall’esperienza della storia, espone anche altrimenti queste esperienze.

Nel vero Proudhon “i saggi„ (les sages), nel Proudhon critico “i filosofi„, previdero il tramonto dell’Impero romano. Il Proudhon critico deve naturalmente ritenere per saggi soltanto i filosofi. Secondo il reale Proudhon, i “diritti romani„ erano consacrati da una millenaria pratica del diritto (o giustizia) (ces droìts consacrés par une justice dix fois séculaire); secondo il Proudhon critico in Roma esistevano diritti consacrati da una millenaria giustizia (Gerechtigkeit).

Secondo l’istesso Proudhon n. 1, in Roma si ragionava come segue: “Roma.... ha vinto per la sua politica e per i suoi Dei; ogni riforma nel culto e nello spirito pubblico sarebbe pazzia e profanazione; (per il Proudhon critico, “sacrilège„ non significa, come nella lingua francese della massa, profanazione del santuario, ossia sconsacrazione, ma semplicemente profanazione); essa, se volesse liberare i popoli, rinuncerebbe al suo diritto. “Così Roma – aggiunge Proudhon n. 1 – aveva per sè il fatto ed il diritto„. Secondo il Proudhon non critico, a Roma si ragionava più profondamente, il fatto viene particolareggiato: “Gli schiavi sono la sorgente più fruttuosa della sua ricchezza; la liberazione dei popoli sarebbe perciò la ruina delle sue finanze„. E per rapporto al diritto, il Proudhon della massa soggiunge: “Le pretese di Roma erano giustificate dal diritto delle genti (droit des gens)„. (Questo modo di dimostrare il diritto di soggezione corrisponde pienamente alle vedute del diritto romano. Si veggano le Pandette per la massa: “Jure gentium servitus invasit„ (Fr. 4, D. 1. 1). Secondo il Proudhon critico “la idolatria, la schiavitù e la mollezza formavano la base delle istituzioni romane„, delle istituzioni in blocco. Il vero Proudhon dice:

“Formavano la base delle istituzioni nella religione l’idolatria, nello Stato la schiavitù, nella vita privata l’epicureismo„ (epicureisme„ non è nella lingua francese profana sinonimo di “mollesse„, mollezza).

Nel seno di questi rapporti romani pel mistico Proudhon “comparve la parola di Dio„; pel Proudhon vero e razionalistico comparve un “uomo che si chiamò il verbo di Dio„. Quest'uomo nel Proudhon vero chiama i preti “vipere„ (vipères), ma nel Proudhon critico egli parla di loro con maggior galanteria, e li chiama “serpi„. Là egli parla alla maniera romana di “avvocati„ qui alla maniera tedesca di “giureconsulti„.

Il critico Proudhon, dopo che ha indicato lo spirito della rivoluzione francese come uno spirito di contradizione, aggiunge: “Ciò basta per scorgere che il nuovo, che venne al posto del vecchio, non aveva in se stesso nulla di metodico e di premeditato. Egli deve ripetere macchinalmente le preferite categorie della Critica critica, il “vecchio„ ed il “nuovo„. Egli deve esigere l'assurdo che il nuovo debba avere in sè qualcosa di metodico e di prestabilito, come si ha per esempio qualche cosa di sudicio nella persona. Il vero Proudhon dice:

“Ciò basta per provare che l’ordinamento delle cose, che fu sostituito all’antico, era in sé senza metodo e senza riflessione„.

Il Proudhon critico, trascinato dai ricordi della rivoluzione francese, rivoluziona la lingua francese fino al punto che egli traduce “un fait physique„, un fatto della fisica, “un fait intellectuel„, un fatto del giudizio. Mercè questa rivoluzione della lingua francese, riesce al Proudhon critico di attribuire al dominio della fisica tutti i fatti che si presentano in natura. Se egli da un lato esalta la scienza naturale più del dovere, d’altra parte, proprio l’abbassa negandole il giudizio e distinguendo un fatto del giudizio da un fatto della fisica. Egli per l’appunto rende superfluo ogni più lontano studio psicologico e logico, elevando il fatto intellettuale immediatamente a fatto del giudizio.

Poiché il Proudhon critico, il Proudhon n. 1, neppure sospetta ciò che il vero Proudhon, il Proudhon n. 2, vuol dimostrare con la sua deduzione storica; così, per lui, non esiste neppure naturalmente il contenuto proprio di questa deduzione, cioè la dimostrazione del cangiamento delle vedute del diritto e della realizzazione progressiva della giustizia mediante la negazione del diritto positivo storico.

La sociètè fut sauvèe par la négation de ses principes.... et la violation des droits les plus sacres„.

Così il vero Proudhon dimostra come fossero introdotti, con la negazione del diritto romano, l’allargamento del diritto nella concezione cristiana, con la negazione del diritto di conquista il diritto dei Comuni, con la negazione del diritto generale feudale, cioè con la rivoluzione francese, i più vasti rapporti del diritto odierno.

La Critica critica non era possibile che lasciasse a Proudhon il vanto di aver trovato la legge della realizzazione di un principio mediante la sua negazione. In questa concezione cosciente fu questa idea una vera scoverta pei Francesi.

Glossa marginale critica n. 1.

La prima critica di ogni scienza, necessariamente, sta sotto l'influsso dei presupposti della scienza che combatte. Così l’opera di Proudhon: Qu'est ce que la propriété? è la critica dell’economia politica dal punto di vista dell’economia politica. Sulla parte giuridica del libro, che critica il diritto dal punto di vista del diritto, non occorre qui dire di più, perchè l’interesse principale è offerto dalla critica dell’economia politica. L'opera proudhoniana è scientificamente oltrepassata mercè la critica dell’economia politica, anche dell’economia politica quale appare nella concezione proudoniana. Questo lavoro da Proudhon per il primo è stato reso possibile, perchè la critica di Proudhon ha per presupposto la critica del sistema mercantile fatta dai fìsiocratici, quella dei fìsiocratici fatta da Adamo Smith, quella di Adamo Smith fatta da Ricardo, come del pari presuppone le opere di Fourier e di Saint-Simon.

Ogni svolgimento dell’economia politica ha per presupposto la proprietà privata. Questo presupposto fondamentale è per essa un fatto irrefragabile che essa non si cura di approfondire, e di cui anzi, come con ingenuità confessa il Say, le accade di parlare solo accidentellement!

Proudhon ora assoggetta la base dell’economia politica, la proprietà privata, ad un esame critico, e precisamente al primo esame decisivo, senza riguardi e, al tempo stesso, scientifico. È questo il gran progresso scientifico ch’egli ha compiuto, un progresso che rivoluziona l’economia politica e rende per la prima volta possibile una scienza dell’economia politica. Lo scritto di Proudhon: Qu’est ce que la propriété? ha per l’economia la medesima importanza che lo scritto di Sièyes: Qu’est ce que le tiers etat? ha per la politica. Se Proudhon non concepisce le ulteriori forme della proprietà privata, cioè il salario, il commercio, il valore, il prezzo, il denaro, quali forme appunto della proprietà privata, come è stato fatto, per esempio, negli Annali franco-tedeschi (veggansi I lineamenti di una critica dell’economia politica, di F. Engels), se anzi combatte gli economisti con questi presupposti dell’economia politica, ciò corrisponde del tutto al suo punto di vista ora notato, giustificato storicamente.

L’economia politica che ritiene per naturali e razionali i rapporti della proprietà privata, si muove in una permanente contradizione con la sua stessa premessa fondamentale, la proprietà privata, in una contraddizione analoga a quella del teologo che interpreta costantemente le idee religiose in maniera naturale, e che appunto per ciò rinnega continuamente la soprannaturalità della religione.

Così nell’economia politica, il salario si presenta in principio come la parte proporzionale del prodotto che spetta al lavoro. Il salario ed il profitto del capitale stanno nei rapporti più amichevoli, reciprocamente più vantaggiosi, apparentemente più naturali. A ben guardare appare come essi stanno in un rapporto opposto il più ostile.

Il valore in principio è determinato in modo apparentemente razionale dai costi di produzione d’una cosa e dall’utilità sociale. A ben guardare appare come il valore è una determinazione puramente accidentale che non occorre che stia in alcun rapporto nè col costo di produzione nè con l’utilità sociale. La grandezza del salario in principio è determinato dal libero accordo fra il lavoratore ed il capitalista. A ben guardare appare come il lavoratore è costretto a farlo determinare, mentre il capitalista è costretto ad abbassare il salario per quanto è possibile. Invece della libertà delle parti contraenti domina la coazione. L’istesso è a dirsi del commercio e delle altre categorie di economia politica, gli stessi economisti si accorgono di passaggio di queste condizioni, e lo sviluppo di esse forma l’oggetto più importante delle loro reciproche dispute. E, quando arrivano alla consapevolezza di esse, essi stessi attaccano la proprietà privata in una certa forma particolare, come falsificatrice del salario, secondo loro in se stesso razionale, o come falsificatrice del valore in sè stesso razionale, e del commercio in sè razionale. Così Adamo Smith polemizza incidentalmente contro i capitalisti, Destutt de Tracy contro i cambiavalute, Simonde de Sismondi contro il sistema di fabbrica, Ricardo contro la proprietà fondiaria, e quasi tutti gli economisti moderni contro i capitalisti non industriali, nei quali la proprietà appare come puramente consumatrice.

Gli economisti dunque ora fanno valere eccezionalmente il riflesso dell’umano nei rapporti economici – specialmente quando essi attaccano un qualche particolare abuso; ora invece concepiscono in generale questi rapporti nella loro manifesta discrepanza dall’umano, cioè nel loro senso strettamente economico. Attorno a questa contradizione si aggirano barcollanti senza accorgersene.

Proudhon ha ora una volta per sempre posto fine a questa incoscienza. Egli ha per primo assunto l’aspetto naturale dei rapporti economici e ha loro contrapposto bruscamente la realtà umana. Egli li ha costretti ad essere nella realtà ciò che sono nella loro idea di sè, o piuttosto a rinunciare alla loro idea di sé, a confessare il loro effettivo stato disumano. Egli ha perciò conseguentemente rappresentato come falsificatrice dei rapporti economici non questa o quella specie di proprietà in maniera parziale, come han fatto gli altri economisti, ma la proprietà in maniera universale. Egli ha offerto tutto ciò che la critica dell’economia politica poteva offrire dal punto di vita dell'economia politica.

Il signor Edgardo, che vuol caratterizzare il punto di vista dello scritto: Qu’est-ce que la proprièté? , non fa parola nè dell’economia politica, nè del carattere specifico di questo scritto, che consiste appunto nell'avere resa la quistione della essenza della proprietà privata una questione vitale dell’economia politica e della giurisprudenza.

Per la Critica critica tutto ciò si intende da se stesso. Proudhon non ha fatto niente di nuovo con la sua negazione della proprietà privata. Egli non ha che divulgato un tacito segreto della Critica critica.

“Proudhon – prosegue il signor Edgardo immediatamente dopo la sua traduzione caratteristica – trova dunque qualche cosa di assoluto, una base eterna nella storia, un Dio che dirige l’umanità: la giustizia„.

Lo scritto francese di Proudhon dell’anno 1840 non si trova d’accordo col punto di vista dello sviluppo tedesco del 1844. Il punto di vista di Proudhon è quello che è diviso dagli innumerevoli scrittori francesi che sono a lui più diametralmente opposti, che perciò assicura alla Critica critica il vantaggio di aver caratterizzato con un solo tratto di penna i punti di vista più opposti. Basta soltanto del resto condurre alle estreme conseguenze la legge posta dallo stesso Proudhon, la realizzazione della giustizia mercè la sua negazione, perchè anche questo assoluto nella storia sia tolto. Se Proudhon non giunge sino a questa conseguenza, ei lo deve alla sfortuna di esser nato francese e non tedesco.

Pel signor Edgardo, mercè l’assoluto nella storia, la credenza nella giustizia, Proudhon è trasformato in un oggetto teologico, e la Critica critica, che è ex professo critica della teologia, ne può approfittare per manifestare i suoi pensieri intorno alle “idee religiose„.

“La caratteristica d’ogni idea religiosa sta qui: che essa pone il dogma di uno stato nel quale alla fine uno dei termini antitetici resta sovrastante come trionfatore e il solo vero„.

Noi vedremo come la Critica critica religiosa pone il dogma di uno stato nel quale alla fine un termine, la “critica„ vince sull’altro, la “massa„ come verità esclusiva. Ma Proudhon ha tanto più grave torto a scorgere nella giustizia “della massa„ un Assoluto, un Dio della storia, in quanto la legittima critica si è riservato espressamente il compito di questo Assoluto, di questo Dio nella storia.

Glossa critica marginale n. 2.

“Proudhon perviene unilateralmente alle sue considerazioni mercè il fatto della miseria, della povertà: in quel fatto egli vede una offesa alla giustizia e all’uguaglianza: esso gli presta le sue armi. Così questo fatto viene da lui trasformato in un fatto assoluto, giustificato, mentre il tatto della proprietà è da lui ritenuto come ingiustificato„.

La serenità della conoscenza ci dice che Proudhon nel fatto della miseria trova una contraddizione con la giustizia, ossia la trova ingiusta e nel medesimo istante essa assicura che questo fatto diventa per lui un fatto assoluto, giusto.

L’economia politica finora mosse dalla ricchezza, che il movimento della proprietà privata si suppone produca per le nazioni, per arrivare alle sue conclusioni apologetiche per la proprietà privata. Proudhon muove dal punto opposto, sofisticamente occultato dall’economia politica, cioè dalla miseria prodotta dal movimento della proprietà privata per arrivare alle sue conclusioni che negano la proprietà privata.

La prima critica della proprietà privata procede naturalmente dal fatto, nel quale la sua sostanza contradittoria apparisce nella forma più patente, piu stridente, più immediatamente rivoltante pel sentimento umano: dal fatto cioè della povertà, della miseria.

La critica al contrario sintetizza ambo i fatti della povertà e della proprietà in un tutto unico; essa riconosce l’intimo legame di entrambi, li trasforma in una interezza, alla quale come tale chiede i presupposti della sua esistenza.

La critica, che fin qui nulla ha saputo del fatto della proprietà e della miseria, fa, “al contrario„, valere ora il suo fatto, creato dalla propria immaginazione, contro il fatto reale di Proudhon.

Essa abbraccia sinteticamente i due fatti in una sola unicità, e, dopo che di essi ne ha fatto un solo, riconosce l’intimo legame di entrambi. La critica non può negare che anche Proudhon riconosce un intimo legame fra il fatto della povertà e quello della proprietà, perchè egli appunto a cagione di questo legame, abolisce la proprietà per abolire la miseria. Proudhon ha anche fatto di più. Egli ha dimostrato, nei particolari, come il movimento del capitale produce la miseria. Ma la Critica critica invece non si lascia andare a simili piccinerie. Essa riconosce che la miseria e la proprietà privata sono in antitesi: un riconoscimento passabilmente volgare. Essa converte la miseria e la ricchezza in un tutto, al quale come tale, essa chiede “i presupposti della sua esistenza„, una richiesta tanto più superflua in quanto che essa ha formato poco prima il “tutto come tale„, diguisachè la sua azione stessa è il presupposto della sua esistenza.

Domandando la Critica critica, al “tutto come tale„, i presupposti della sua esistenza, essa ricerca perciò nel modo più rigorosamente teologico, fuori del tutto, i presupposti della sua esistenza. La speculazione critica si muove all'infuori dell’oggetto che essa si propone di trattale. Mentre tutta l’antitesi non è altro che il movimento dei suoi due lati, mentre appunto nella natura di questi due suoi lati sta il presupposto della esistenza del tutto, essa si dispensa dallo studio di questo movimento reale, che forma il tutto, per potere spiegare che la Critica critica, come serenità della conoscenza, è al disopra dei due estremi dell’antitesi, e che la sua attività, la quale ha prodotto “il tutto come tale„, è ora anche sola lei in grado di disfare l’astrazione da lei formata.

Proletariato e ricchezza sono termini opposti. Essi formano come tali un tutto. Essi sono entrambi forme del mondo della proprietà privata. Si tratta della determinata posizione che assumono nell’opposizione. Non basta spiegarli come due lati d’un tutto.

La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a conservare in esistenza se stessa e con ciò il proletariato, cioè la propria antitesi. Essa è il polo positivo della contradizione, la proprietà privata soddisfatta di se stessa.

Il proletariato, invece, come proletariato è costretto ad abolire se stesso, e con ciò la sua antitesi determinante, che lo muta in proletariato, cioè la proprietà privata. Esso è il polo negativo della opposizione, l’agitazione in sè, la proprietà privata dissolta e dissolventesi.

La classe possidente e la classe del proletariato esprimono la medesima “straniazione„ umana. Ma la prima classe si sente in questa straniazione a suo agio e confermata, intende la autoestraniazione come la propria forza, e possiede in essa l’apparenza di un’esistenza umana; la seconda si sente nella estraniazione annullata, scorge in essa la propria impotenza e la realtà di una esistenza inumana. Essa è, per adoperare una espressione di Hegel, nell’abbiezione la rivolta contro l’abbiezione, una rivolta alla quale è necessariamente condotta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisiva e generale di questa natura.

Nel seno dunque della contraddizione il proprietario è il partito conservatore, il proletario è il partito distruttore. Da quello promana l’azione della conservazione dell’antitesi; da questo l’azione del suo annullamento.

La proprietà privata veramente nel suo movimento nazionale-economico tende da sè stessa alla propria dissoluzione, ma solo attraverso uno sviluppo da essa indipendente, inconscio, che si pone contro la sua volontà, e che è determinato dalla natura delle cose, solo in quanto essa produce il proletariato come proletariato che sappia la miseria della sua miseria spirituale e fisica, sappia il suo abbrutimento, e perciò l’abbrutimento che tende ad abolire se stesso. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata fa pendere su se stessa con la produzione del proletariato, come esso esegue la condanna che il salariato fa pendere su di sè producendo la ricchezza degli altri e la propria miseria. Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perchè egli vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.

Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perchè, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari per degli Dei. Piuttosto il contrario.

Il proletariato può e deve liberare se stesso perchè l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità (Menschlichkeit), nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perchè nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro acuzie più inumane; perchè l’uomo è perduto in voi stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile. – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.

Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta rorganizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile. Non occorre qui ricordare che una grande parte del proletariato inglese e francese è già cosciente del suo còmpito storico e lavora constantemente a dare a questa coscienza una completa chiarezza.

Ma alla Critica critica importa assai poco di conoscere tutto ciò, dal momento che si è proclamata da sè come elemento esclusivamente creatore della storia. Spettano a lei i contrasti storici, a lei l’attività per abolirli. Essa emette perciò, mercè la sua incarnazione Edgardo, il seguente manifesto “Cultura e non-cultura, possesso e non-possesso, queste antitesi, se non si vogliano profanare, debbono toccare in sorte completamente alla Critica critica„. Il possesso e il non-possesso hanno ottenuto la consacrazione metafisica di antitesi criticamente speculative.

Perciò soltanto la Critica critica può toccarle, senza commettere un sacrilegio. I capitalisti ed i lavoratori non si debbono immischiare del loro reciproco rapporto.

Il signor Edgardo, ben lungi dal sospettare che si possa toccare la sua concezione critica dell’antitesi, che si possa profanare questo santuario, lascia fare al suo avversario una obbiezione che potrebbe rivolgerersi egli soltanto.

“È dunque possibile – chiede l’immaginario avversario del critico critico – di servirsi di altre idee che non siano quelle già esistenti, Libertà, Uguaglianza, ecc.? Io rispondo.„ – si badi ciò che risponde il signor Edgardo – “che la lingua greca e la latina soccombettero allorquando fu esaurito il ciclo di idee al quale esse servivano di espressione„.

È ora chiaro perchè la Critica critica non dia alcuna propria idea in lingua tedesca. La lingua dei suoi pensieri non è ancora arrivata, di talché il signor Reiehardt con la sua manipolazione delle parole straniere, il signor Faucher con la sua manipolazione dell’inglese, il signor Edgardo con la sua trattazione del francese, hanno preparato la nuova lingua critica.

Traduzione caratteristica n. 2.

Il Proudhon critico:

“Gli agricoltori divisero la terra fra di loro: l’uguaglianza santificò soltanto il possesso; in questa circostanza si santificò la proprietà„.

Il Proudhon critico lascia adunque sorgere la proprietà fondiaria insieme alla distribuzione delle terre. Egli effettua il passaggio dal possesso alla proprietà mediante la locuzione “in questa circostanza„.

Il Proudhon vero:

“L’agricoltura fondò il possesso fondiario... non era sufficiente assicurare al lavoratore il frutto del proprio lavoro se non gli si assicurava contemporaneamente lo strumento della produzione. Per preservare il più debole dalla sopraffazione del più forte... si provò il bisogno di tracciare delle linee fisse di confine fra i possessori„.

Dunque in questa circostanza l’uguaglianza santificò dapprima il possesso.

“Annualmente con l’accrescimento della popolazione si vedevano crescere la cupidigia e l’avidità dei coloni; si credette potere frenare l’ambizione mercè nuove barriere invalicabili. Così il suolo divenne proprietà, mercè il bisogno dell’uguaglianza... senza dubbio la divisione non fu mai geograficamente uguale... ma il principio rimase ciò non di meno uguale: l’uguaglianza aveva santificatoli possesso, l'uguaglianza santificava la proprietà„.

Per il Proudhon critico gli antichi fondatori della proprietà preoccupati soltanto dei loro bisogni non s’accorsero che al diritto di pròprietà corrispondeva in pari tempo il diritto di alienare, vendere, regalare, acquistare e perdere, il che distruggeva l'uguaglianza donde essi erano partiti.

Per il Proudhon reale invece i fondatori della proprietà non videro questo suo processo di sviluppo perchè preoccupati dei loro bisogni. Essi piuttosto non lo previdero; ma se anche l’avessero potuto prevedere, anche in tal caso avrebbe trionfato la attuale necessità. Il vero Proudhon è inoltre troppo uomo di massa per opporre al “diritto di proprietà„ il diritto di alienare, vendere, ecc., cioè di opporre al genere le sue specie. Egli oppone il “diritto di ottenere la sua parte di eredità, al diritto di rinunciarlo, ecc.„: ciò forma un reale contrasto ed un reale progresso.

Glossa marginale critica n. 3.

“Su che cosa poggia ora Proudhon la sua dimostrazione della impossibilità della proprietà? Ciò sorpassa ogni credibilità: sul medesimo principio dell’uguaglianza!„.

Per svegliare la credibilità del signor Edgardo sarebbe bastata una breve riflessione. Il signor Edgardo non può ignorare che il signor Bruno Bauer ha messo a base di tutte le sue dimostrazioni la “infinita coscienza di se stesso„, e questo principio ha anche concepito come il principio creatore degli Evangeli, che in apparenza sono diametralmente contrastanti per la loro infinita incoscienza con la “infinita auto-coscienza„. Nel medesimo modo Proudhon concepisce l’uguaglianza come il principio creativo della proprietà, che ne è addirittura la contraddizione.

Se il signor Edgardo confronta un momento l’uguaglianza francese con la “auto-coscienza„ tedesca, s’accorgerà che l'ultimo principio esprime alla tedesca, cioè in idee astratte, ciò che il primo principio dice alla francese, cioè nella lingua della politica e della osservazione ragionevole. L’autocoscienza è l’uguaglianza dell’uomo con se stesso nel pensiero puro. L’uguaglianza è la coscienza che ha l’uomo di se stesso come elemento della pratica, cioè, per conseguenza, la coscienza che l’uomo ha degli altri uomini come uguali a lui e l’agire dell’uomo con gli altri uomini, come con suoi eguali. L’uguaglianza è l’espressione francese della unità della sostanza umana, della coscienza della specie e dell’agire della specie umana, della pratica identità dell’uomo con l’uomo, cioè, insamma, del rapporto sociale od umano dell’uomo con l'uomo. Come, perciò, la critica demolitrice in Germania, prima che fosse assurta in Feuerbach allo studio dell’uomo materiale, aveva tentato di risolvere tutto il determinato e tutta l’esistenza mercè il principio della “auto-coscienza„ così del pari la critica demolitrice in Francia l’aveva tentato col principio dell’uguaglianza.

“Proudhon s’accanisce contro la filosofia, e di ciò noi non potremmo fargliene carico. Ma perchè egli s’infervora? Egli pensa che la filosofia non sia stata finora abbastanza pratica; essa si è posta sull’alto cavallo della speculazione e di lassù gli uomini le sono apparsi piccoli. Io credo che la filosofia è super-pratica, cioè che essa fu fin qui null’al- tro che l’espressione astratta delle condizioni esistenti: essa fu sempre impigliata nei presupposti di esse, che assumeva come assolute„.

L’opinione che la filosofia sia l’astratta espressione delle condizioni esistenti, non appartiene in modo originale al signor Edgardo, ma a Feuerbach, il quale per primo indicò e dimostrò la filosofia come un’empiria speculativa e mistica. Nonpertanto il signor Edgardo sa pur dare un’applicazione critica, originale di questa opinione. Avendo Feuerbach stesso concluso che la filosofia debba discendere dal cielo della speculazione nel fondo della miseria umana, il signor Edgardo ci insegna, al contrario, che la filosofia è iperpratica. Ma sembra piuttosto che la filosofia, appunto perchè era soltanto l’astratta, trascendente espressione delle condizioni esistenti, a causa della sua trascendenza ed astrazione, a causa del suo distacco immaginario dal mondo, dovette immaginare di aver lasciato al disotto di sè le condizioni esistenti e gli uomini reali. Sembra piuttosto, d’altra parte, che, perchè essa in realtà non riusciva a distaccarsi dal mondo, non poteva pronunciare alcun giudizio reale su di esso, non poteva far valere nessuna forza di distinzione da esso, non potette praticamente intervenire, ma, tutt’al più, dovette accontentarsi d’una pratica in abstracto. La filosofia era superpratica solo nel senso che essa stava sospesa al disopra della pratica. La Critica critica, alla quale l’umanità apparisce come una rozza massa, offre la prova più splendida dell’infinita piccolezza nella quale appaiono gli nomini effettivi alla speculazione. La vecchia speculazione concorda perfettamente con lei su tal punto. Si legga, ad esempio, il seguente periodo della Filosofia del diritto di Hegel:

“Dal punto di vista dei bisogni si ha il concreto dell'idea che si chiama uomo; qui, dunque, ed anzi propriamente solo qui, si fa discorso dell’uomo in questo significato„.

Quando, in altri casi, la speculazione parla dell'uomo, essa non pensa il concreto, ma l’astratto: la idea, lo spirito, ecc. Il signor Faucher, per ciò che riguarda le condizioni esistenti inglesi, il signor Edgardo, per ciò che riguarda le condizioni esistenti della lingua francese, ci danno un esempio commovente del modo come la filosofia esprime le condizioni esistenti.

“Così è anche Proudhon pratico, perchè trovando che il concetto dell’uguaglianza è a base delle dimostrazioni della proprietà, trova modo di attaccare, servendosi del medesimo concetto, la proprietà„.

Proudhon fa qui la medesima cosa che fanno i critici tedeschi, i quali dall’idea dell'uomo, che essi trovano a base della dimostrazione della esistenza di Dio, traggono argomento anche contro l’esistenza di Dio.

“Se le conseguenze del principio dell’uguaglianza sono più forti di essa stessa, come Proudhon vuole aiutarlo ad ottenere la sua improvvisa efficacia?„

A base di tutte le idee religiose, secondo il signor B. Bauer, vi è la “autocoscienza„. Essa è secondo lui il principio creativo degli Evangeli. Perchè ora le conseguenze del principio della “auto-coscienza„ furono più forti di esso? Perchè realmente, si risponde in tedesco, la autocoscienza è il principio creativo delle idee religiose, ma come coscienza di sè portata fuor di sé, come opposta a se stessa, come autocoscienza estrensicata e alienata. La “coscienza di sè„ ritornata in se medesima, che comprende se stessa, è perciò il dominio sulle creature della propria “straniazione di se stessa„. Si trova precisamente nel medesimo caso Proudhon; naturalmente con la differenza che egli parla francese e noi parliamo tedesco, che egli perciò esprime nella maniera francese ciò che noi esprimiamo nella maniera tedesca.

Proudhon si propone da se stesso la questione:

perchè non esiste l’uguaglianza, benché essa come principio razionale creativo della fondazione della proprietà e come motivo razionale ultimo giaccia a base di ogni dimostrazione della proprietà, ma esiste piuttosto la sua negazione, la proprietà privata?

Egli considera perciò il fatto della proprietà in se stesso. Egli dimostra

“che in realtà la proprietà come istituto e come principio è impossibile„ (pag. 34),

cioè che essa si contradice da se stessa e in ogni punto si annulla; che essa, per esprimerci alla tedesca, è l’essenza dell'uguaglianza straniata da se stessa, contraddicente ed opposta a se stessa. Le condizioni reali francesi come la conoscenza di questo straniamento fanno presagire con ragione a Proudhon la sua effettiva abolizione.

Proudhon prova il bisogno di giustificare storicamente la esistenza della proprietà nell’atto stesso della sua negazione della proprietà privata. Come tutti i procedimenti di questa specie, anche il suo metodo è pragmatico, cioè, egli suppone che le generazioni passate volessero, con riflessione e con coscienza, realizzare nelle loro istituzioni l’uguaglianza, che per lui rappresenta l’essenza umana.

“Noi insistiamo sempre su questo punto... Proudhon scrive nell’interesse dei proletari„.

Egli non scrive nell’interesse della critica che basta a sè stessa, per nessun interesse astratto, fittizio, ma per un interesse storico, reale, della massa che condurrà altro che alla critica, alla crisi addirittura. Proudhon non soltanto scrive nell’interesse dei proletari: è egli stesso proletario, operaio. La sua opera è un manifesto scientifico del proletariato francese ed ha perciò una ben altra importanza storica di una qualunque acciabbattatura letteraria di un qualunque critico critico.

“Proudhon scrive nell'interesse di coloro che non hanno nulla; l'avere e il non avere sono categorie assolute per lui. L’avere è per lui la più alta categoria, essendo per lui uell’istesso tempo il non avere il più alto oggetto della riflessione. Proudhon è d’avviso che ogni uomo deve avere, ma in uguale quantità di ogni altro. Ma si osservi che per me, in ciò che ho, è interessante solo ciò che esclusivamente posseggo, ciò che io ho in pili di quello che abbiano gli altri. Nell’uguaglianza l’avere e l’uguaglianza per se stessa diventano per me qualche cosa d’indifferente„.

Secondo il signor Edgardo avere e non avere sono delle categorie assolute per Proudhon. La Critica critica non vede dappertutto che categorie. Così pel signor Edgardo, avere e non avere, salario, stipendio, miseria, bisogno, il lavoro per necessità, non sono niente altro che categorie. Se la società si dovesse soltanto liberare dalle categorie dell’avere e del non avere, come sarebbe fàcile ad ogni suo dialettico, anche più debole del signor Edgardo, “superare„ ed “abolire„ queste categorie! Il signor Edgardo suppone anzi che questa sia una tal piccolezza, che egli crede che non valga neppure la pena di dare, di fronte a Proudhon, una qualunque spiegazione delle categorie dell’avere e del non-avere. Ma poiché il non-avere non è semplicemente una categoria, ma una realtà sconsolata, poiché, oggi, l’uomo che non ha, non è nulla; poiché egli è escluso tanto dall’esistenza in generale quanto da una esistenza umana; poiché lo stato del non avere è lo stato della piena separazione dell’uomo dalla sua oggettività; così appare pienamente giustificato di affermare il non-avere come il più alto oggetto della riflessione per Proudhon, tanto a più forte ragione quanto meno si era riflettuto, prima di lui e degli scrittori socialisti in generale, su questo oggetto. Il non-avere è il più disperato spiritualismo, una completa irrealtà dell'uomo, una vera realtà del non-uomo, un avere assai positivo: aver fame, aver freddo; un avere di malattie, di delitti, di abbrutimento, di ebetismo, di tutte le inumanità e le cose contrarie a natura (Widernatürlichkeit). Ma ogni oggetto che per la prima volta si presenta con la piena coscienza della sua importanza quale oggetto di riflessione, ci appare come il più alto oggetto di riflessione.

Che Proudhon voglia abolire il non-avere e il vecchio modo di avere è del tutto identico col fatto ch’egli vuole abolire il rapporto di distacco pratico dell’uomo dal suo essere Oggettivo, e l’espressione economica dell’umano straniarsi da sé stesso. Ma poiché la sua economia è concepita ancora entro i presupposti della economia politica corrente, così egli intende la riappropriazione del mondo obbiettivo medesimo ancora sotto la forma economica del possesso.

Proudhon non pone di fronte, come la Critica critica gli fa fare, al non-avere l’avere, ma contrappone al vecchio modo di avere, alla proprietà privata, il possesso. Egli proclama il possesso come una “funzione sociale„; ma, in una tale funzione, l’interessante “non è di escludere„ gli altri, ma di svolgere e realizzare le forze del mio proprio essere.

Non è riuscito a Proudhon di dare uno svolgimento adeguato a questa idea. La rappresentazione dell’uguale possesso è termine economistico, e perciò ancora straniato per indicare che l’oggetto come essere per l’uomo, come essere obbiettivo dell’uomo, indica in pari tempo l’esistenza dell’uomo per l’altro uomo, la sua relazione umana con l’altro uomo, il rapporto sociale dell’uomo con l’uomo. Proudhon supera la straniazione economistica restando sul terreno economistico.

Caratteristica traduzione n. 3.

Il Proudhon critico possiede anche un proprietario critico secondo la cui “propria confessione coloro, che per lui dovettero lavorare, perdettero quanto egli si appropriò„. Il Proudhon della massa dice al proprietario della massa:

“Tu hai lavorato! Non hai fatto lavorare mai altri per te? Come hanno essi perduto, mentre lavoravano per te quel che tu hai saputo guadagnare, mentre non lavoravi per loro?„.

Il Proudhon critico lascia credere che Say intenda per richesse naturelle “possedimenti naturali„, benché Say, per evitare ogni frainteso, nell’Epitome al suo Traitè d’economìe politique dichiari espressamente che egli intende per richesse nè proprietà nè possesso, ma una somma di valori. Naturalmente come il Proudhon critico è riformato dal signor Edgardo, così alla sua volta egli riforma il Say. Così secondo lui il Say, dalla constatazione che i campi sono più facili ad appropriarsi dell’aria e dell’acqua, “deriva il diritto di prendersi un campo come proprietà„. Say al contrario, assai lontano dal derivare dalla maggiore possibilità dell’appropriazione del suolo un diritto di proprietà, dice espressamente:

“Le droit des propriétaires des terres, remonte à une spoliation„ (Traite d’écon. polit., ediz. III, T. 1, pag. 136, Nota).

Perciò occorre secondo Say, per fondare il diritto alla proprietà fondiaria, il concours de la législation e il droit positif. Il vero Proudhon non lascia derivare il Say “subito„ dalla più facile appropriazione del suolo il diritto della proprietà terriera, egli gli rimprovera che egli faccia valere la possibilità anziché il diritto, e ch’egli scambi la questione della possibilità con la questione del diritto:

Say prend la possibilité pour le droit. On ne demande pas pourquoi le terre était plûtôt appropriec que la mer et les aires; on veut savoir en vertu de quel droit l’homme s'est appropriée cette richesse„.

Il Proudhon critico continua:

Qui vi è da osservare soltanto che con l’appropriazione di un pezzo di terra vengono appropriati anche i restanti elementi: aria, acqua, fuoco: terra, aqua, aere et igne interdicti sumus.

Il vero Proudhon, assai lontano dall’aver fatto “soltanto„ questa osservazione, dice al contrario ch’egli di passaggio (en passant) fa notare l’appropriazione dell’aria e dell'acqua. Presso il Proudhon critico, la formula romana di scomunica si incontra in una maniera inesplicabile. Egli dimentica di dire chi sono i “noi„, che sono interdetti. Il vero Proudhon interpella i non proprietari: “proletari„ la proprietà ci scomunica, terra, ecc., interdica sumus...

Il Proudhon critico polemizza contro Charles Comte nel modo seguente:

“Carlo Comte ritiene che l’uomo abbisogni per vivere di aria, di cibo, di vesti. Alcune di queste cose, come aria ed acqua, sarebbero inesauribili, resterebbero quindi sempre proprietà comune; altre esisterebbero in quantità minore e diventerebbero proprietà privata. Charles Comte dimostra, quindi, partendo dai concetti di limitazione e di illimitazione; egli sarebbe forse giunto ad un altro risultato, se egli avesse fatto dei concetti del dispensabile e dell’indispensabile categorie principali„.

Quale polemica infantile del Proudhon critico! Egli ritiene Carlo Comte capace di abbandonare le categorie di cui egli si serve per la sua dimostrazione, e di saltare ad altre categorie per arrivare non già ai propri risultati, ma “forse„ ai risultati del Proudhon critico.

Il vero Proudhon non fa delle supposizioni simili sul conto di Charles Comte; egli non lo tacita con un “forse„, egli lo batte con le sue proprie categorie.

Carlo Comte – dice Proudhon – parte dalla indispensabilità dell’aria, del cibo, e, per certi climi, delle vesti, non per vivere, ma per non cessar di vivere. Per mantenersi l’uomo ha quindi bisogno (secondo Carlo Comte) incessantemente dell’appropriazione di cose di vario genere. Non tutte queste cose esistono in pari proporzioni.

“La luce dei corpi celesti, l’aria, l’acqua esistono in quantità così grande che l’uomo non può aumentarle o diminuirle sensibilmente; ognuno può perciò appropriarsi di esse soltanto quanto richiedono i suoi bisogni, senza nuocere in alcunché al godimento degli altri„.

Proudhon ora parte dalle stesse determinazioni di Comte. Anzitututto egli gli dimostra che anche la terra è un oggetto di prima necessità, il cui godimento deve essere libero per ognuno nei termini sempre della clausola del Comte, cioè “senza nuocere ai godimenti degli altri„. Perchè è dunque la terra divenuta proprietà privata? Charles Comte risponde: Perchè essa non è illimitata. Ma egli al contrario avrebbe dovuto ragionare così: Perchè essa è limitata, perciò essa non può essere appropriata.

Dall’appropriazione dell’aria e dell'acqua non deriva un danno ad alcuno perchè ne resta sempre a sufficienza, perchè essa è illimitata. L’appropriazione arbitraria della terra al contrario, nuoce al godimento altrui appunto perchè la terra è limitata. Il suo uso dunque dev’essere regolato dall’interesse generale. La dimostrazione di Carlo Comte va contro la sua tesi: Carlo Comte, così deduce Proudhon (cioè il critico) parla del principio che una nazione può essere proprietaria d'un paese, mentre non si può se la proprietà porta con sè il diritto di usare ed abusare, jus utendi et abutendi re sua, attribuire anche ad una nazione il diritto d'usare ed abusare d’un paese.

Il vero Proudhon non parla del jus utendi et abutendi che il diritto di proprietà “condurrebbe seco„, egli è troppo uomo della massa per parlare del diritto di proprietà che il diritto di proprietà porta con sè. Il diritto utendi et abutendi re sua è infatti il diritto stesso di proprietà.

Proudhon perciò nega direttamente ad un popolo il diritto di proprietà sul suo territorio. A coloro, che trovano ciò esagerato, egli oppone che, in tutte le epoche, dall’immaginato diritto della proprietà nazionale trassero origine le prestazioni servili, i tributi, le regalie, il diritto di alto dominio, ecc.

Il vero Proudhon fa questa deduzione contro Comte:

“Comte vuole dimostrare come si origina la proprietà, e comincia col presupporre una nazione come proprietaria, cadendo in una petitio principii. Egli lascia che lo Stato venda terre, egli fa comprare questi beni a un industriale: ossia presuppone i rapporti di proprietà che egli vuol dimostrare„.

Il Proudhon critico manda al diavolo il sistema decimale francese. Egli conserva il Franco, ma sostituisce al posto del centesimo il Terzo.

“Se io, aggiunge Proudhon (il Proudhon critico), cedo un appezzamento di terreno, io non mi privo solamente d’una raccolta, ma sottraggo ai miei figli, ed ai figli dei miei figli, un bene durevole. La terra non ha solamente un valore oggi, essa ha anche un valore potenziale e futuro„.

Il vero Proudhon non s'occupa del fatto che il suolo ha un valore non solamente oggi, ma anche domani: ei contrappone il pieno valore presente al valore potenziale e futuro, che dipende dalla mia abilità a valorizzare il fondo. Egli dice: “Distruggete la terra, o, ciò che per noi fa lo stesso, vendete; con ciò non perdete soltanto uno, due o più raccolti, ma annullate ogni prodotto che voi ne potevate trarre, voi, i vostri figli ed i figli dei vostri figli„.

Non si tratta per Proùdhon di rilevare l’opposizione fra una raccolta ed il fondo permanente – anche il danaro che io ricavo dal campo può investirsi come capitale in un “bene durevole„ – ma l’opposizione del valore presente e del valore che il fondo può ottenere mercè una perseverante coltura,

“Il nuovo valore, scrive Carlo Comte, che io conferisco ad una cosa mercè il mio lavoro, è mia proprietà„.

Proùdhon (il Proùdhon critico) gli replica nel seguente modo:

“Dovrebbe l’uomo cessare di essere proprietario non appena cessa di lavorare. La proprietà del prodotto non può mai recare con sè la proprietà della materia che ne sta a base„.

Il vero Proùdhon:

“II lavoratore si può appropriare il prodotto del suo lavoro, ma io non concepisco che la proprietà dei prodotti si debba trascinare dietro quella della materia. Il pescatore che nella medesima riva sa acchiappare più pesci degli altri pescatori, diventerà forse per questa abilità proprietario del tratto in cui egli pesca? Fu qualche volta l’abilità d’un cacciatore considerata come un titolo di proprietà sul bosco di una contrada? L’istesso è a dirsi dell’agricoltore. Per trasformare il possesso in proprietà è necessaria ancora un’altra condizione oltre il solo lavoro, altrimenti l’uomo cesserebbe di essere proprietario non appena cessasse di essere lavoratore„.

Cessante causa, cessat effectus. Se il proprietario è proprietario solo in quanto lavoratóre, allora egli cessa di essere proprietario non appena cessa di essere lavoratore.

“Secondo la legge è perciò la prescrizione che crea la proprietà; il lavoro è solamente il segno sensibile, l’atto materiale, mercè il quale la occupazione si fa nota„.

“II sistema di appropriazione mercè il lavoro – prosegue Proùdhon – contradice dunque alla legge; e se i partigiani di questo sistema trovano il pretesto di giovarsene per spiegare la legge, si pongono in contradizione con se stessi„.

Se poi secondo questa spiegazione, per esempio, il “dissodamento della terra„ crea la sua “piena proprietà„, questa è una petitio principii. È un fatto che una nuova attività produttrice della materia è stata creata. La stessa materia non è stata creata dall’uomo. Egli crea anzi quella capacità produttiva della materia solo nella presupposizione della materia.

Il Proudhon critico fa di Gracco Baboeuf un partigiano della libertà: nel Proùdhon della massa è un partigiano dell’uguaglianza (partisan de l’ègalitè).

Il Proudhon critico, che deve tassare l'onorario di Omero per l’Iliade, dice:

“L’onorario, che io dò ad Omero deve essere uguale a ciò che egli mi offre. Come deve stimarsi il valore della sua prestazione?„.

Il Proudhon critico è troppo al disopra delle meschinità dell’economia politica per sapere che il valore d’una cosa è molto diverso da ciò che essa fornisce ad un altro. Il vero Proudhon dice:

“L’onorario del poeta deve essere uguale al suo prodotto: qual è dunque il valore di questo prodotto?„.

Il vero Proudhon sottintende che l’Iliade abbia un prezzo (o valore di scambio, prix) infinito: il critico, che essa abbia un valore infinito. Il vero Proudhon contrappone il valore dell'Iliade, il suo valore nel senso economico (valeur intrinsèque) al suo valore di scambio (valeur échangeable); il critico Proudhon contrappone al suo “valore intimo„, cioè al suo valore come poesia, il valore per lo scambio.

Il vero Proudhon:

“Tra una ricompensa materiale e il talento non esiste alcuna misura comune. Sotto questo rapporto la condizione di tutti i produttori è eguale. Conseguentemente è impossibile ogni paragone fra di loro, ed ogni distinzione di fortuna„ (Entre une récompense matérielle et le talent il n’existe pas de commune mesure; sous ce rapport la condition de tous les produeteurs est égal; conséquemment toute comparaison entre eux et toute distinction de fortune est impossible).

Il Proudhon critico:

“In maniera relativa il rapporto dei produttori è uguale. Il talento non può essere materialmente pesato... Ogni comparazione dei produttori fra di loro, ogni contraddistinzione esteriore è impossibile„.

Per il Proudhon critico:

“l’uomo della scienza si deve sentire a posto in società, perchè il suo talento e la sua capacità sono soltanto prodotti del grado di sviluppo intellettivo sociale„.

Il vero Proudhon non parla menomamente dei sentimenti del talento. Egli afferma che il talento deve adeguarsi al livello sociale. Egli assevera così poco che l’uomo di talento è un prodotto della società, da dire invece:

“L’uomo di talento ha contribuito... a produrre in se stesso un utile strumento.... si riscontra in lui un lavoratore libero ed un capitale socialmente accumulato„.

Il critico Proudhon prosegue:

“Egli deve oltracciò esser grato alla società perchè questa, affinchè egli si possa dedicare alla scienza, lo esonera dagli altri lavori„.

Il vero Proudhon non ricorre per nulla alla riconoscenza dell’uomo di talento. Ei dice:

“L’artista, lo scienziato, il poeta ricevono la loro ricompensa soltanto da ciò, che la società permette loro di dedicarsi esclusivamente alla scienza ed all’arte„.

Infine il Proudhon critico suscita il nostro stupore apprendendoci che una società di 150 lavoratori può avere un “maresciallo„ e perciò anche un’annata. Nel vero Proudhon il maresciallo è un “maniscalco„ (maréchal).

Glossa critica marginale n. 4.

Dal momento che egli (Proudhon) conserva la nozione di salario, dal momento che nella società vede un ordinamento che ci dà da lavorare e che per questo ci ricompensa, egli tanto meno può assumere il tempo come misura per la ricompensa, dacché un poco innanzi, in accordo con Ugo Grozio, sostiene che il tempo in rapporto al valore d’un oggetto è indifferente.

È questo il solo punto in cui la Critica critica compie il tentativo di risolvere il problema e di dimostrare a Proudhon che egli, muovendo dal punto di vista dell’economia politica, erra contro l’economia politica. Qui essa fa una brutta figura, in maniera veramente critica.

Proudhon, in accordo con Grozio, aveva esaurientemente dimostrato che la prescrizione non è un titolo per mutare il possesso in proprietà, per mutare un principio di diritto in un altro, così come la verità che gli angoli di un triangolo sono eguali a due angoli retti non si può mutare, per opera del tempo, nella verità che essi siano uguali a tre retti.

“Voi non riuscirete mai a stabilire – esclama Proudhon – che il decorrere del tempo, il quale per se stesso non crea nulla, non cambia nulla, non modifica nulla, possa trasformare l’utente in proprietario„.

Il signor Edgardo conclude:

“Poiché Proudhon disse che il mero trascorrere del tempo non può trasformare un principio di diritto in un altro, che esso per se stesso non possa, insomma, trasformare nulla e nulla modificare, egli commette una inconseguenza se egli fa del tempo di lavoro la misura del valore economico dei prodotti„.

Accade al signor Edgardo di avanzare codesta osservazione solo perchè egli traduce valeur con Geltung (valore nel senso di importanza, validità – N. d. T.) e vuole così adoperare la validità d’un principio di diritto nell’identico senso di valore commerciale del prodotto di lavoro. Ciò gli succede perchè egli identifica la vuota durata nel tempo con il pieno tempo di lavoro. Se Proudhon avesse detto che il tempo non può mutare una zanzara in un elefante, allora la Critica critica potrebbe concludere con l’istesso diritto: Dunque egli non può fare del tempo di lavoro la misura del salario.

Che il tempo di lavoro, che costa la produzione d’un oggetto, appartenga ai costi di produzione dell’oggetto; che i costi di produzione d’un oggetto sono ciò che esso costa, ciò a cui esso può essere venduto, astraendo dalle influenze della concorrenza, ecco un concetto che può essere compreso anche dalla stessa Critica critica. Per gli economisti oltre del tempo di lavoro e della materia di lavoro, appartiene al costo di produzione anello la rendita del proprietario fondiario, come del pari gl’interessi e il guadagno del capitalista. Questi ultimi cessano per Proudhon, perchè per lui cessa la proprietà privata. Restano perciò, soltanto, ancora, il tempo di lavoro e le spese. Proudhon, facendo del tempo di lavoro, dell’immediato contenuto dell’attività umana, come attività, la misura della ricompensa del lavoro e della determinazione del valore dei prodotti, rende decisivo il lato umano, mentre nella vecchia economia politica decide la potenza oggettiva del capitale e della proprietà, cioè Proudhon ristabilisce, in maniera più economica (nationalökonomischer) e perciò più contraddittoria, l'uomo nei suoi diritti. Come esattamente egli proceda dal punto di vista dell’istessa economia politica si può scorgere dal fatto che il fondatore della nuova economia politica, Adamo Smith, ammette già dalle prime pagine della sua opera: An inquiry into the nature and the causes of thè Wealth of nations, che prima dell’origine della proprietà privata, cioè nel presupposto della inesistenza della proprietà privata, il tempo di lavoro era la misura del salario e del valore del prodotto del lavoro non ancora staccato da esso.

Ma la Critica critica supponga anche per un momento che Proudhon non sia partito dal presupposto del salario. Crede essa che il tempo richiesto dalla produzione d’un oggetto non sia mai un momento sostanziale nel “valere„ d’un oggetto, crede cioè che il tempo vada perduto per la sua costosità?

In rapporto alla produzione immediatamente materiale, la decisione se un oggetto dovrà essere o non essere prodotto, dipenderà sostanzialmente dal tempo di lavoro che costa la sua produzione. Poiché dipende dal tempo se la società ha il tempo di educarsi umanamente.

Ed anche per ciò che si attiene alla produzione spirituale, non debbo io, se voglio ragionevolmente distribuire la struttura, l’estensione e il piano dell’opera, prendere in considerazione il tempo che si richiede per la sua produzione? Per lo meno io mi espongo altrimenti al pericolo che il mio oggetto esistente nell’idea non diventi mai un oggetto nella realtà, e che perciò acquisti solamente il valore d un oggetto immaginario, cioè un valore immaginario.

La critica dell’economia politica dal punto di vista dell’economia politica riconosce tutte le determinazioni essenziali dell’attività umana, ma soltanto nella forma più straniata e più differenziata. Come qui, ad esempio, l’importanza del tempo per il lavoro umano è mutata nella sua importanza per il salario, per il lavoro salariato.

Il signor Edgardo prosegue:

“Perchè ora il talento sia costretto ad assumere quella misura, fa un cattivo uso Proudhon della nozione di libero scambio„, ed afferma che spetti già il diritto alla società ed ai suoi membri di respingere i prodotti del talento.

Al talento, che sulla base e sul terreno dell’economia politica avanza delle pretese eccessive pei fourieristi e pei saint-simoniani, ed accampa la propria presunzione d’un suo valore infinito come misura nel valore di scambio dei suoi prodotti, Proudhon risponde all’istessissimo modo che risponde l’economia politica di fronte ad ogni pretesa di un prezzo che si eleva al disopra del cosiddetto prezzo naturale, che vuole, cioè, elevarsi al disopra del costo di produzione dell’oggetto offerto: con la libertà di commercio. Soltanto, Proudhon non fraintende questo rapporto nel senso dell’economia politica; egli suppone piuttosto come reale ciò che nell’economia politica è solamente nominale ed illusorio: la libertà delle parti contraenti.

Traduzione caratteristica n. 4.

Il critico Proudhon, in definitiva, riforma la società francese, perchè egli converte tanto il proletario francese che la borghesia francese.

Egli nega la “forza„ ai proletari francesi perchè il vero Proudhon li rimprovera della loro mancanza di virtù (vertu). Egli muta la loro abilità al lavoro in una problematica abilità – “voi siete forse abili al lavoro„ – perchè il vero Proudhon riconosce loro l’abilità al lavoro incondizionatamente (Prompt au travail vous étes, ecc.). Ei trasforma il borghese francese in rozzo cittadino, laddove il vero Proudhon contrappone i borghesi ignobili (bourgeois ignobles) ai nobili bollati (nobles flétris). Egli trasforma il borghese da un borghese di giusta media (bourgeois juste milieu) in “nostri buoni cittadini„ per cui la borghesia francese può ben essergli riconoscente. Dove perciò il vero Proudhon fa “emergere„ il “malvolere„ (le malveillance de nos bourgeois) del borghese francese, egli fa emergere in maniera coerente la “noncuranza dei nostri cittadini„. Il borghese del Proudhon reale è così poco incurante, che egli stesso esclama: N’agons pas peur! N’agons pus peur! Così parla uno che si vuole toglier di dosso con il ragionamento la paura e la preoccupazione.

La Critica critica nella creazione del Proudhon critico mediante la traduzione del vero Proudhon ha mostrato alla massa ciò che sia una perfetta traduzione critica. Essa ha dato un saggio della “traduzione come deve essere„. Essa perciò ben a ragione si scaglia contro le cattive traduzioni della massa:

“Il pubblico tedesco vuole la merce libraria ad un prezzo derisorio, l’editore vuole perciò una traduzione a buon mercato, il traduttore non vuole morire di fame col suo lavoro, egli non lo può fare con maggiore coscienziosità (con tutta la serenità della conoscenza) perchè l’editore ha bisogno, con il rapido allestimento delle traduzioni, di vincere le traduzioni dei concorrenti; anzi persino il traduttore deve temere la concorrenza, deve temere che un altro si offra di produrre la merce a più buon mercato e con maggiore sveltezza – e così egli detta alla lesta il suo manoscritto ad un amanuense e lo detta quanto più frettolosamente è possibile, perchè egli non si trovi a capo di ore in condizione di aver pagato invano il salario allo scritturale – e si abbandona alla gioia se può contentare in pochi giorni il tipografo che ha fretta. “Del resto le traduzioni con le quali ci si inonda, null’altro sono che una manifestazione della odierna impotenza della letteratura tedesca„, ecc. (Fascicolo VIII, p. 54 – Allgemeine Literaturzeitung).

Glossa marginale critica n. 5.

“Alla dimostrazione della impossibilità della proprietà, che Proudhon fonda sul fatto che la umanità si rovina col sistema dell'interesse e del profitto e della sproporzione del consumo alla produzione, fa difetto la contropartita cioè la dimostrazione contraria che la proprietà sia storicamente possibile„.

La Critica critica possiede il felice istinto di non aderire alle considerazioni di Proudhon sul sistema del profitto e dell'interesse, ecc.: cioè alle considerazioni più importanti di Proudhon. A questo punto la critica di Proudhon non può farsi neppure in apparenza senza una positiva completa conoscenza del movimento della proprietà privata. La Critica critica cerca di scusare la propria impotenza con la osservazione che Proudhon non ha offerto la dimostrazione della possibilità storica della proprietà.

Perche la critica, che non dà altro che parole, domanda che gli altri le diano tutto?

“Proudhon dimostra la impossibilità della proprietà col fatto che il lavoratore non potrebbe ricomprare con il salario del suo lavoro il proprio prodotto. Proudhon non dà il motivo soddisfacente di ciò, nell’atto che rileva l’essenza del capitale. Il lavoratore non può riacquistare il proprio prodotto perchè esso è sempre una cosa comune, mentre egli non è altro che un singolo uomo pagato„.

Il signor Edgardo avrebbe potuto, in antitesi alle deduzioni proudhoniane, esprimersi a tal proposito in una maniera anche più esauriente, dicendo che il lavoratore non può ricomprare il suo prodotto perchè egli lo deve semplicemente ricomprare. Nella caratteristica della compra è già compreso ch’egli si trova, rispetto al prodotto, come rispetto ad un oggetto da lui smarrito, divenuto cosa aliena.

Il motivo esauriente del signor Edgardo, fra altre cose, non spiega esaurientemente perchè il capitalista, il quale non è altroché un uomo singolo e pagato per giunta col profitto e con la rendita, non soltanto può ricomprare il prodotto del lavoro, ma anche più di questo prodotto. Per spiegare ciò, il signor Edgardo dovrà spiegare i rapporti tra Capitale e lavoro, cioè dovrà ricercare la sostanza del capitale.

Il citato tratto critico mostra nella maniera più evidente come la Critica critica, ciò che ha appreso da uno scrittore l’usa in modo da farlo valere, con un mutamento critico, come escogitato di propria scienza contro il medesimo scrittore.

La Critica critica ha intatti attinto dall’istesso Proudhon il motivo non esposto da Proudhon e dato dai signor Edgardo. Proudhon dice:

dividi et impera... Dividi i lavoratori l’un dall’altro ed è possibilissimo che il salario d’una giornata che viene pagata ad ogni singolo individuo superi il valore di ogni prodotto individuale; ma non è di ciò che si tratta... Quando voi avete pagato tutte le forze individuali, non avete ancora pagato la forza collettiva„.

Il Proudhon aveva innanzi tutto notato che la somma dei salari dei singoli lavoratori, anche se ogni lavoro individuale fosse completamente pagato, non paga la forza collettiva che si oggettivizza nel loro prodotto: che perciò il lavoratore non è pagato come una parte della comune forza di lavoro, ciò che il signor Edgardo traveste nella sua asserzione che il lavoratore non è null’altro che un uomo singolo, pagato. La Critica critica, dunque, fa valere una idea generale di Proudhon contro gli ulteriori svolgimenti che l’istesso Proudhon dà a questa medesima idea. Essa si impadronisce di questa idea in modo critico ed esprime nel seguente periodo il segreto del socialismo critico:

“L’odierno lavoratore pensa solamente a sè, ossia egli si fa pagare per la sua persona. È proprio egli stesso che non fa calcolo dell’enorme e smisurata forza che si origina dalla sua cooperazione con altre forze„.

Per la Critica critica quindi, tutto il male sta soltanto nel “modo di pensare„ del lavoratore. Veramente gli operai inglesi e francesi hanno costituite associazioni nelle quali non formano oggetto del loro reciproco ammaestramento soltanto gl’immediati bisogni come lavoratori, ma i loro bisogni come uomini; nelle quali essi manifestano inoltre una assai profonda e larga coscienza della “enorme„ e “smisurata„ forza che deriva dalla loro cooperazione. Ma questi lavoratori comunisti, della massa, che per esempio lavorano nelle officine di Manchester e di Lione, non credono di potere “col puro pensiero„ spazzar via, a forza di raziocini, i loro padroni industriali e la loro pratica degradazione. Essi sentono molto dolorosamente la differenza tra l’essere e il pensiero, fra la coscienza e la vita. Essi sanno che proprietà, capitale, danaro, lavoro salariato e simili, non sono affatto delle ideali tele di ragno tessute dal cervello, ma sono prodotto molto pratico e molto oggettivo della loro estrinsecazione, che debbono perciò a loro volta essere eliminati in una maniera pratica ed oggettiva perchè l’uomo non diventi uomo soltanto nella coscienza, nell'idea, ma nell’esistenza materiale, nella vita. La Critica critica insegna invece che essi in realtà cessano di essere lavoratori salariati se essi aboliscono l’idea del salariato nella idea, se essi cessano mentalmente di essere lavoratori salariati e conforme a questa immaginazione esaltata non si lascino più pagare per la loro persona. Come idealisti assoluti, come esseri eterei, essi potrebbero dopo ciò naturalmente vivere anche dell’etere del pensiero puro. La Critica critica li ammaestra che essi aboliscono il capitale reale, se essi vincono la categoria del capitale nella idea, che essi si trasformano positivamente e diventano effettivamente uomini se trasformano il loro Io astratto nella coscienza, e se disdegnano ogni mutazione reale della loro esistenza effettiva, delle condizioni effettive della loro esistenza, cioè del loro Io reale, come una operazione non critica. Lo “spirito„ che scorge nella realtà soltanto categorie, riduce naturalmente ogni pratica od ogni attività umana ad un processo ideale dialettico della Critica critica. È appunto ciò che contraddistingue il loro socialismo dal socialismo e dal comunismo della massa.

Dopo le sue elaborate dimostrazioni il signor Edgardo deve naturalmente “negare la coscienza„ alla critica di Proudhon.

“Ma Proudhon vuole essere anche pratico„.

“Egli crede di avere precisamente riconosciuto„.

“Eppure – esclama trionfante la serenità della conoscenza – noi gli dobbiamo anche negare la serenità della conoscenza. Noi prendiamo alcuni passi per provare ch'egli ha poco bene approfondita la sua posizione nella società„.

Noi citeremo più tardi ancora alcuni passi delle opere della Critica critica (si vegga la Banca dei poveri e l’Economia modello) per mostrare com'essa non ancora ha imparato a conoscere i più elementari rapporti di economia politica, e tampoco a ben ponderarli, e perciò, col tatto critico che le è proprio, si sente inclinata a colpire Proudhon della sua condanna.

Dopo che ora alla Critica critica, come serenità della conoscenza, son “toccate in sorte„ tutte le “contradizioni„ della massa, dopo che essa si è impadronita di tutta la realtà sotto forma di categorie, ed ha risoluta ogni attività umana nella dialettica speculativa, noi la vedremo tornare a creare il mondo mercè la dialettica speculativa. S’intende che i miracoli della creazione del mondo criticamente speculativa, poiché altrimenti si “profanerebbero„, possono essere comunicati alla massa profana solo sotto forma di misteri. La Critica critica perciò perviene all’incarnazione di Szeliga-Visnù in qualità di rigattiere di segreti.



Ultima modifica 2019.09.28